La NATO a Vicenza: UNO SPETTRO RADIOATTIVO SI AGGIRA SUI COLLI BERICI

dal molin – asud.net

Nella mitologia greca “Pluto” è il dio della ricchezza. Nella versione di Aristofane, un dio che la distribuisce a caso provocando soprattutto danni. Ottimo per indicare un avamposto militare al servizio del capitalismo. Ma essendo la base di Longare in gran parte sotterranea, è probabile che il nome corrisponda al nominativo latino di “Pluto-Plutonis”, Plutone (in greco “il ricco”) il dio degli Inferi. Era anche marito di Persefone, figlia di Demetra, madre -secondo altre fonti sorella – del sopracitato “Pluto”. In ogni caso la terminologia adottata evoca cose torbide, incestuose, oscure e malvagie.

 

UNO SPETTRO RADIOATTIVO SI AGGIRA SUI COLLI BERICI… – La base “Pluto” di Longare, in gran parte sotterranea, sottrae alla cittadinanza un’area di oltre  20mila metri quadri sul versante est dei Colli Berici. Non è noto, invece, a quanto corrisponda l’estensione sotterranea. Fino al 1992 rappresentava la più importante sede statunitense di armi nucleari in Italia. A distanza di anni gli effetti perversi continuano a farsi sentire. Sia a nord (zona di Bugano) che a sud (Costozza) la percentuale di leucemie, in particolare tra i giovanissimi, è al di sopra della media. Un caso? Ma evidentemente non bastava. Ora si appresta a  diventare un “Centro di addestramento unificato” di rilevanza internazionale. Circondata da un muro in cemento armato alto sei metri (invece delle reti con tripli reticolati attualmente presenti), con una nuova struttura di circa 5mila metri quadrati che verrà realizzata all’interno e comprendente aule e celle operative per “studio-tattiche” in supporto alla Difesa nazionale americana. Oltre ad un parcheggio per veicoli tattici di 1600 metri q. e ad altri interventi devastanti per l’ambiente come il disboscamento della vegetazione per far spazio alle esercitazioni (si presume anche dei blindati). In pratica, un campo di battaglia e  un immenso poligono di tiro da realizzare entro il 2013. Un centro di avanguardia per “addestramenti mirati, pianificazioni delle missioni all’estero” e per simulare ambienti virtuali così da mantenere un “alto livello di prontezza operativa”. A Longare la fase suprema del capitalismo dispiega tutta la sua geometrica potenza!

 

Spese previste, 26,2 milioni di dollari (21 milioni di euro). Specchietto per le allodole (o meglio. per gli allocchi), i “criteri di eco-sostenibilità”. I soliti pannelli solari diventati ormai l’ipocrita foglia di fico dell’immondezzaio tecno-militare. Se Hitler avesse vinto, probabilmente anche i forni crematori dei campi di sterminio utilizzerebbero il fotovoltaico.

 

Appare evidente che la devastante opera è una diretta conseguenza (“un completamento” suggerisce un noto collaborazionista) della realizzazione della nuova base Dal Molin e della creazione del comando Africom a Vicenza. Una metastasi senza fine favorita dalla realizzazione della A31 (autostrada Valdastico), la “tangenziale perfetta” per il sistema della basi statunitensi nel vicentino (Dal Molin, Ederle, Fontega, Pluto…oltre a depositi, impianti radar e “villaggi americani” vari come a Casale).

 

Indicativo dello stato di sudditanza (al limite del collaborazionismo) in cui versa questa provincia “patrimonio dell’Unesco”, il fatto che le amministrazioni locali si siano svegliate soltanto “il giorno dopo”, apprendendo dai giornali quanto deciso e stabilito dalle truppe di occupazione.

 

Ma non tutti si adeguano passivamente. Il 2 settembre la “Brigata Silva” (la formazione partigiana partigiano dei Colli Berici, quella in cui si era integrato mio padre Leone sartori, detto “Marcello”) è ridiscesa dai monti, stavolta armata di pentole e casseruole. E anche di qualche cesoia.

 

Mentre centinaia di manifestanti esprimevano il loro legittimo dissenso davanti ai cancelli del sito e chiedevano la “sdemanializzazione dell’area” (come era stato promesso qualche anno fa, prima della realizzazione della A31), altri raggiungevano attraverso i boschi la recinzione tagliandola in alcuni punti e lanciando fuochi d’artificio.

 

Tra gli slogan maggiormente scanditi “Non siamo una colonia Usa” e “Siete circondati, ve ne dovete andare “. Ma anche il classico “’mericani fora dae bae”. Altre iniziative si sono poi svolte in novembre e dicembre. QUESTA TERRA E’ LA MIA TERRA – Quanto sta accadendo sopra e sotto Longare mi riguarda direttamente. Ho trascorso l’infanzia nel paesello di fronte alla base “Pluto”, San Piero Intrigogna, appena al di là del Bacchiglione. In prossimità delle Boche del Tesena, dove il Tesina confluisce nel Bacchiglione. E il fiume Tesina non è altro che la prosecuzione dell’Astico. Alla fine il cerchio si chiude. L’Astico nasce in Trentino, di fronte a Lavarone e alla cimbra Luserna, transita per Casotto (dove vive la più consistente comunità di Sartori della provincia e da dove sembra provenissero i miei avi) e Scalzeri da cui si inerpica verso Luserna un sentiero già percorso dai partigiani della Brigata Ismene. Le sue acque spumeggianti lambiscono poi San Pietro Valdastico, Pedescala (tristemente noto per l’eccidio nazi-fascista, la maggior parte delle vittime vecchi e bambini), Barcarola e Arsiero. Scorre sotto al salto dei Granatieri (quello del Monte Cengio che Fogazzaro contemplava da Velo d’Astico) e supera Cogollo del Cengio. Proprio su questo tratto si sta per svolgere la seconda puntata del dramma “Autostrada A31, No grazie!”. Non si sono ancora spente le polemiche in merito alle ville palladiane sfiorate dall’invadente infrastruttura e per le tonnellate di rifiuti tossici riversati lungo il percorso del tratto a sud (oltre alla conferma che la contestata tratta Vicenza-Rovigo va assumendo tutte le caratteristiche di un “corridoio militare-industriale”) che già un nuovo contenzioso si va aprendo a nord.

 

Dopo la conferenza stampa del 17 luglio a Trento, il sindaco di Valdastico (VI), Alberto Toldo, aveva accusato il collega di Besenello (TN) di “speculare sui morti”.

 

Ma Cristian Comperini, primo cittadino del comune della Val Lagarina dove dovrebbe sbucare la galleria autostradale, aveva ricordato le tragedie del Vajont, di Stava e della Valtellina a ragion veduta, in base alle conclusioni del prof. Dario Zampieri, docente del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, relative all’analisi sulla Frana Marogna.

 

Per il sindaco Comperini nella progettazione della Valdastico si sarebbe “completamente dimenticato l’indicazione dell’IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi Italiani, consultabile tramite il portale dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ISPRA) sulla gravità del pericolo di una frana del volume di circa 20 milioni di metri cubi gravitante sulla località Casotto nel comune di Pedemonte (VI), dove il progetto vorrebbe collocare il viadotto Molino, lo svincolo Valle dell’Astico, un centro di manutenzione, l’area di servizio Lavarone e un centro di ristorazione”. E quindi con “un rischio molto elevato di perdita di vite umane e danni agli edifici e alle infrastrutture”.

 

Nonostante l’evento principale risalga ad alcuni secoli fa, per il professor Zampieri la Marogna “è da considerarsi una frana attiva”. Una recente verifica sul terreno ha confermato che  sopra la Gioia, la nicchia della frana, esiste “una massa di dolomia sospesa con giacitura a franapoggio ed inclinazione tra 20° e 30°, avente un volume di oltre 20 milioni di metri cubi”. Alla base della parete sono presenti “venute d’acqua lungo il piano di scivolamento” e la vegetazione arborea appare “danneggiata e ricoperta da una fascia di detrito a grossi blocchi che dimostra una continua attività di crolli di roccia”.

 

L’analisi ravvicinata mostra inoltre “evidenti fasci di fratture beanti parallele e sub ortogonali alla parete, che isolano volumi di migliaia/decine di migliaia di metri cubi in precario equilibrio, sospesi ad una altezza di 450 m al di sopra del fondovalle e raccordati con questo tramite un piano inclinato di 30°-35°”. L’area proposta per la realizzazione dello svincolo e annessi servizi sarebbe la “meno idonea di tutta la valle dell’Astico essendo ubicata al piede di una frana attiva”. Più inquietanti delle parole, le immagini realizzate dallo stesso Zampieri e allegate al documento. Evidenti placche chiare dovute a distacchi di qualche anno fa, blocchi fuoriusciti dalla parete per scivolamento, fratture aperte, giganteschi pilasti di roccia e lame di roccia di alcune centinaia di metri cubi in precario equilibrio.

 

Curiosamente, il PAI (Progetto di Piano Stralcio per l’assetto idrogeologico) del bacino del fiume Brenta-Bacchiglione, il PTCP (Piano Territoriale di coordinamento Provinciale) e il PATI (Piano di Assetto del Territorio Intercomunale) non riportano la frana della Marogna, presente invece nel catalogo IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia). Si tratta della “più grande frana della valle dell’Astico con una superficie di deposito di oltre 93mila metri quadrati di area, documentata nel sito della Regione veneto, Cartografia Geologica, Progetti CARG alla scala 1:10.000”.

 

In compenso l’area intorno alla frana viene segnalata come P4, ossia “rischio geologico massimo”. Strano che al momento della progettazione dell’autostrada non se ne sia tenuto conto. Pare proprio che il Vajont non abbia insegnato nulla.

 

Ma le contestazioni alla prosecuzione della Valdastico Nord da Piovene Rocchette (VI) a Trento non si limitano all’area di Casotto.

 

In un volantino del Comitato NO Valdastico Nord si elencano alcune conseguenze nefaste.

 

1) Passa accanto alla chiesetta di S.Agata (anteriore al 1000 dC) rovinando definitivamente il contesto ambientale; 2) invade tutta la campagna accanto alla chiesetta di S.Giorgio di Velo d’Astico (con affreschi longobardi e rinascimentali); 3) divora 307 campi vicentini solo nel primo tratto (tra Piovene Rocchette e Velo d’Astico), campi definitivamente sottratti alle attività agricole; 4) impatta con una fabbrica che occupa più di 100 operai; 5) va ad occupare più di ¼ della superficie libera di Pedemonte (il 28% della superficie di fondovalle); 6) A Valdastico attraversa il torrente Astico nel punto più largo e più vicino a 4 nuclei urbani (Pedescala, Forni, Settecà, Forme Cerati); 7) piloni in cemento armato, ruote di camion e barriere anti rumore saranno il nuovo paesaggio vallivo, con buona pace delle speranze di valorizzazione turistica; 8) va ad intercettare numerose sorgenti lungo i tratti in galleria; 9) passa sotto al lago di Lavarone (dove trascorse periodi di riposo Freud nda) con il rischio di intercettare vene d’acqua collegate con il lago; 10) è in aperto contrasto con il Piano Territoriale Regionale che intende limitare il consumo di suolo agricolo (in una provincia ormai completamente ricoperta da zone industriali, centri commerciali, basi militari etc. nda)…

 

E la lista potrebbe continuare. Si sono espressi negativamente anche i comuni trentini di Folgaria e di Luserna, il paese natale di Elvio Facchinelli che qui ha voluto essere sepolto dopo aver donato alla biblioteca comunale tutti i suoi libri. Rinomata tra gli studiosi per aver saputo conservare la lingua e la cultura dei Cimbri, Luserna rischierebbe di venir asfissiata dai gas di scarico provenienti dall’autostrada posta nella valle sottostante. In realtà, sostiene il Comitato NO Valdastico Nord chi vuole la Valdastico Nord è soltanto “la società autostradale Brescia-Padova che, con l’approvazione del progetto, intende farsi rinnovare  la concessione autostradale del tratto più redditizio (Bs-Pd) ad un prezzo più basso”.

 

Significativa l’opposizione espressa dalle sezioni della COLDIRETTI  di Velo d’Astico, Cogollo del Cengio e Alto Astico. Nel loro comunicato scrivono che “dopo i campi di sterminio la civiltà dell’industria ha determinato lo sterminio dei campi agricoli”. E non sembri solo un gioco di parole. I contadini della Val d’Astico sanno di cosa parlano. La Valle ha ben conosciuto sia gli eccidi nazisti (come a Pedescala) che le deportazioni nei campi di sterminio. Non per niente Cogollo del Cengio è gemellato con Mauthausen.

 

Non sarebbe male che ora l’intera val d’Astico si gemellasse con la Val di Susa (e magari i No-Dal Molin con il presidio contro l’aeroporto di Notre Dame des Landes a Nantes).

 

Proseguendo nel suo corso, con un’improvvisa deviazione, relativamente recente stando ai tempi geologici, l’Astico si infila poi si infila tra l’Altopiano di Asiago e le colline Bregonze, in quella zona del vicentino dove ebbe inizio e si manifestò in maniera talvolta drammatica la “breve estate dell’Autonomia” negli anni settanta. Sfiora o attraversa Caltrano,  Chiuppano e Calvene per poi riprendere la corsa verso sud. Tocca Breganze, Sandrigo, Lupia e Lupiola. Nei pressi di Lupia riceve dalla sinistra orografica le acque di un piccolo corso d’acqua che nasce poco prima da una risorgiva, il Tesina appunto. Cambia quindi nome, ma il percorso e la direzione rimangono quelli dell’Astico la cui natura torrentizia lo rende potente in periodo di disgelo. Per chi cammina sull’argine della destra orografica non è facile individuare quale sia il punto del cambio anagrafico. Da segnalare la presenza, almeno fino agli anni cinquanta, di qualche esemplare di lontra nella striscia di terra all’epoca ricoperta da folta vegetazione. La zona venne devastata per iniziativa istituzionale una ventina di anni fa. Alberi tagliati, anse raddrizzate, rive cementificate. Trasformando, come scrissi allora in un articolo “il limpido corso d’acqua in un canale di scolo”. Più recentemente (un autentico teatro dell’assurdo), per usufruire di finanziamenti europei, è stato realizzato un progetto di ri-naturalizzazione dell’area. Un po’ come fare affari ricostruendo dopo aver scatenato una guerra. Ovviamente un palliativo, un pro-forma visto che il danno ormai era stato fatto.

 

Il cammino del fiume prosegue verso Bolzano vicentino, Quinto, Marola e Torri di Quartesolo, sfiorando la militarizzata periferia est di Vicenza (San Pio X, Bertesinella…) e confluendo nel Bacchiglione a un centinaio di metri dal campanile di San Piero Intrigogna, in origine una curtis benedettina. Poco prima della confluenza (denominata Le Boche del Tesena) riceve da destra la roggia Caveggiara; altra nostra battaglia persa quando cercammo, invano, di evitare il taglio della prosperosa vegetazione per allargare l’alveo del corso d’acqua. Bastava avessero chiesto, per esempio, a mia madre Rosa Sgarabotto che ricordava benissimo come negli anni trenta il fondo della Caveggiara fosse stato rivestito di lastre di pietra. Al momento di scavare, dopo aver diligentemente abbattuto ogni olmo, ontano, pioppo, salice e moraro (gelso) presente lungo le rive, si accorsero che l’operazione non era fattibile e lasciarono tutto com’era (tranne ovviamente per gli alberi irreparabilmente estirpati).

 

In un certo senso il sistema Astico-Tesina costituisce la spina dorsale, liquida, delle campagne vicentine, dalle Prealpi alla pianura vera e propria. Ora questo percorso naturale, i cui argini vengono ancora ancora utilizzati nelle transumanze verso i pascoli montani (da qualche  pastore di Lumignano) si va trasformando in un nastro di cemento e asfalto, circondato da caselli, aree industriali, basi militari e altre schifezze.

 

Stando ai racconti di mia nonna Pina (da bambina lavorò come mondina, sia a Grumolo che a Mossano), la lontra  agli inizi del secolo scorso frequentava anche la zona delle Boche del Tesena. Lei la chiamava sgora, essere misterioso che trascinava in fondo al fiume i bambini discoli; forse una variante, più che della relativamente mite anguana, dell’aganis friulana. Fino ad un paio di decenni or sono, mi capitava di incontrare qualche anziano che si ricordava di mio nonno Augusto (un obligato, contadino povero senza terra). Proprio in questo spicchio di terra retaggio delle bonifiche del 1300, aiutato da mio padre ancora bambino, el nono Gusto venne incaricato dal proprietario dell’abbattimento di alcuni morari e albare rimasti in parte ricoperti dal terrapieno del nuovo argine. Tutto “a man col pico, la baila e la cariola” racconta mio padre. In cambio del duro lavoro, ai miei familiari sarebbero toccate le rame alte e le soche estratte dal terreno. Il legname più pregiato, sia per lavori che per riscaldamento, quello del tronco e dei rami più grossi, ovviamente andava ai paroni. Per saperne di più sul “piccolo mondo antico” di San Piero, Deba e Casaleto suggerisco la lettura di “Mio padre partigiano” (un articolo pubblicato nel 2003) dove ho raccontato di un tentativo fascista di far ingurgitare a mio nonno l’olio di ricino (previa manganellatura di rito). La bieca operazione venne stroncata da mia nonna  a colpi di forcone. Non fu invece altrettanto fortunato mio zio Attilio Fasolato (detto Tilio, come l’albero), operaio e sindacalista allo stabilimento Rossi di Debba. Solo recentemente ho saputo che la stessa sorte era toccata anche ad un vicino dei miei, el scarparo Farinello, anche lui socialista.

 

Costui trovò però il modo di vendicarsi. Fingendo di accettare umilmente la predica e le raccomandazioni per “comportarsi bene in futuro”, dopo il pestaggio acconsentì a offrir da bere alla squadraccia. Portò in tavola del cordiale a cui aveva aggiunto parecchie gocce di un forte lassativo. Ritornate a casa, le camicie nere dovettero immediatamente correre al cesso. All’intraprendente antifascista (in seguito ospite delle patrie galere) arrivò una lettera minacciosa che lo preavvertiva di una ulteriore visita non propriamente di cortesia. Ma i socialisti del luogo si organizzarono. Quando il camion della spedizione punitiva transitò per la Riviera Berica, i compagni vennero allertati, come era stato convenuto, dal suono delle campane di San Piero Intrigogna. Prontamente radunatisi, bloccarono la squadraccia all’altezza della Pontara tra Debba e San Piero e l’olio di ricino venne forzatamente ingerito dai componenti della squadraccia. Un piccolo gesto di resistenza di cui si era persa la memoria e che riscatta la popolazione locale, talvolta troppo umile e sottomessa al potere.

 

E dopo quelli dei fascisti, sulla strada che da san Piero porta a Vicenza passando per Casale (all’epoca ancora strada bianca) passarono i camion statunitensi. Il mio primo incontro risale  agli anni cinquanta. Abitavo a Casaletto, una contrada la cui parte più consistente era costituita dall’abitazione e dalle stalle dei Dalmaso, gli affittuari. In prossimità di una piccolo rilievo, el monteseo, recentemente devastato da alcune costruzioni e da un centro di addestramento per cani. I camion passavano sollevando la polvere e un nugolo di bambini correva loro incontro gridando “ciunga” (termine dialettale per indicare la gomma da masticare) mentre i soldati lanciavano sbrancà di chewing gum  e qualche caramella. I ragazzini si accapigliavano rotolandosi per terra per strapparsi il misero bottino. Ricordo che me ne stavo appoggiato al portone e non partecipavo. Forse per timidezza, forse per dignità.

 

In ogni caso provando vergogna per lo spettacolo “coloniale”.

 

A non più di 2-3cento metri dalla citata Pontara, troviamo gli storici ponti di Debba, sovrastati dalle case operaie e dallo stabilimento Rossi. Oltre a mia madre, vi lavorarono come operai quattro o cinque tra zii e zie. La sorella maggiore di mia madre, Marcella moglie di Tilio, vi entrò ragazzina, quando la fabbrica era ancora un canapificio. All’epoca si lavorava immersi nell’acqua fredda corrente, con conseguenze ben immaginabili (gravi forme di reumatismi). Uno dei ponti scavalca il Bacchiglione, l’altro la mitica Rosta. Poco lontano, una decina di metri, il 4 novembre 1987 morì annegato (o meglio, fatto annegare) un ragazzino sinto inseguito dalla polizia, Paolo Floriani.

 

La corsa di Paolo e Davide attraverso i campi, prima in moto (una storia alla “Chicco e Spillo”, ma senza lieto fine) e poi a piedi, finì con un tentativo di attraversare a nuoto il fiume.  Già in salvo sull’altra sponda (quella dello stabilimento), Paolo tornò ad immergersi nelle fredde acque per salvare l’amico che stava annegando. Ormai circondato dai poliziotti (per niente impietositi dalla generosità mostrata dal ragazzo) Paolo tentò un’estrema fuga, ma venne inghiottito dal fiume (v. l’articolo “Nomadi e scomodi” su “A, rivista anarchica” del dicembre 1991).

 

Ma torniamo a Site Pluto. Per il giornalista Antonio Mazzeo “fino al 1992 ha rappresentato la punta avanzata della follia strategica USA e NATO che ritenevano possibile una guerra nucleare limitata”. Nelle immense cavità artificiali che devastano il sottosuolo da Col de Ruga a Costozza (analogamente alla spesso dimenticata base del Tormeno, la Fontega, deposito di esplosivi sotto Arcugnano) vennero stivate (scusate il gergo da ex facchino alla Domenichelli nda) testate nucleari di tipo W-79 (potenza tra i 5 e i 10 kiloton) e W-82 (“soltanto” 2 kiloton) per obici a corto raggio M-109 e M-110 e per missili Nike Hercules. Questi ultimi collocati poco lontano, a san Rocco, nella base dell’aeronautica italiana installata sulla sommità dei colli tra Costozza e Longare e probabilmente collegata a Pluto da percorsi sotterranei. Parentesi storico-ambientalista. Tra le due basi si snoda uno dei pochi sentieri lungo cui è ancora possibile ammirare in forma abbastanza rigogliosa la rarissima saxifraga berica. Forse perché Provincia, FC del Cai (vedi il taglio dei  bagolari sulle pareti intorno alla Danieli) e Pro-Loco non sono ancora intervenuti con motosega e decespugliatore a disboscare per allargare il sentiero ombroso.  Come è noto la saxifraga berica vive e prospera di luce indiretta e quindi solo in zone circondate da vegetazione (o anche negli antri dei covoli, meglio se protetti da cespugli). Basti pensare a quello che è avvenuto sotto le pareti di Lumignano invase dai FC che hanno disboscato alla grande. O peggio ancora, alla Fontana di Trene sopra Nanto dove i cespugli di saxifraga sono stati direttamente estirpati per “ripulire”. Un altro esempio. Poco lontano dell’entrata di Pluto fuoriesce il canale Bisatto, proveniente dalla zona del lago di Fimon e transitato  per due gallerie e val Bugano. Qui, almeno fino ad un paio di anni fa, confluivano a fine inverno migliaia di rospi scesi dai boschi per riprodursi. Appare evidente che l’ampliamento della base potrebbe avere effetti devastanti su un ambiente naturale prezioso per la sua biodiversità. Sempre tra le due basi, troviamo la lapide per l’eremita padre Pagani forse cercava di espiare le colpe accumulate come inquisitore (avete notato che nella statua recentemente posta a Costozza il volto di Pagani ricorda quello di Eymerich, l’inquisitore catalano divenuto il protagonista dei romanzi di Valerio Vangelisti?). Per restare in tema di Inquisizione, ricordo che su un poggio tra Longare e Costozza sorge la “specola” da dove il buon Galileo (gran frequentatore delle fin troppo fresche grotte locali dove finì con l’ammalarsi piuttosto seriamente) compì i primi studi della volta celeste. Dalle sue osservazioni ricavò la pericolosa convinzione per cui sarebbe la Terra che ruota intorno al sole (e non viceversa) facendo incavolare i gelosi custodi dell’ideologia dominante dell’epoca. Segnalo l’opportunità di un’ulteriore rivoluzione copernicana, quella antispecista e biocentrica che detronizzi il “re del creato” e ponga un limite alla devastazione ambientale conseguenza dell’antropocentrismo. Un altro colle tra Costozza e Lumignano era stato frequentato dal poeta Petrarca che lo soprannominò “Parnaso”. Ma soprattutto, dal ’43 al ’45, tra le grotte, i massi e gli scaranti di questa zona impervia si era installato il comando della brigata partigiana Silva. I caduti per la Libertà della Silva sono ricordati da un caratteristico monumento ancora immerso nella vegetazione. Precisazione: non è mia intenzione scrivere una sommaria guida turistica, ma soltanto sottolineare che il luogo meriterebbe maggior rispetto.

 

Dopo essere già stata utilizzato durante le ultime “guerre balcaniche” e nei più recenti interventi in Africa,  ormai conclusa la costruzione della nuova base per la 173° Brigata aviotrasportata nell’ex aeroporto Dal Molin e diventato pienamente operativo il comando di US Army Africa, Site Pluto non poteva mancare all’appello. Dal 2013 vi verrà insediato un Mission training complex, un centro di addestramento unificato dell’esercito statunitense con “aree funzionali per le operazioni tattiche e stanze per l’elaborazione di eventi addestrativi”. Il nuovo impianto sarà in grado di ospitare  giornalmente centinaia di soldati, sia statunitensi che italiani (i reparti d’élite per le guerre africane) e anche gli ospiti del “centro di eccellenza” COESPU per le forze di polizia straniere della caserma “Chinotto”, a Vicenza. Antonio Mazzeo e Manlio Dinucci non escludono che Site Pluto possa “servire per esercitazioni di guerra nucleare” e come “deposito-centro di manutenzione di armi nucleari”. Soprattutto da quando gli F16 e i Tornado verranno sostituiti dai caccia F-35 di quinta generazione per i quali è stata progettata la nuova bomba nucleare B61-12 (al cui lancio si esercitano anche gli F-35 italiani).

 

Forse allarmati dalla fuga di notizie, le autorità italiane sono intervenute per rassicurare l’opinione pubblica. Nel nuovo stabile “solo computer. La guerra sarà simulata”. Un immenso videogioco per “simulare azioni di guerra e di peacekeeping”?

 

Dichiarazioni che comunque sconfessavano il precedente comunicato del comando Usa di Vicenza che escludeva di voler “ampliare la base di Longare o di aprire una nuova base a Tonezza del Cimone”. Interessante questa excusatio non petita per il riferimento a Tonezza. Sicuramente consentirebbe un facile accesso al previsto tratto Nord della A31, molto più comodamente che dalla base  dismessa del monte Toraro (verso Folgaria, in prossimità di Malga Zonta dove vennere trucidati i partigiani della Garemi) ora trasformata in “Museo della Guerra Fredda”. Da notizie più recenti sembrerebbe che a Tonezza si voglia realizzare un centro di recupero per i soldati impazziti in zona di guerra. Ritorna comunque l’ipotesi che identifica nell’autostrada Valdastico A31 un “corridoio militare-industriale” attraverso l’intera provincia vicentina, una delle più militarizzate della penisola. Senza dimenticare che un corridoio ad uso militare esiste già nel Basso vicentino, più o meno sovrapposto alla Valdastico sud: quello aereo percorso quotidianamente da decine di rumorosi e inquinanti caccia.

 

Nel 2009 a Site Pluto si svolse l’esercitazione Lion Focus, sotto la supervisione del Comando US Africom di Stoccarda e del Joint Warfighting Center di Norfolk (Virginia) per “preparare il quartier generale della Joint task force SETAF-US Army Africa nell’esecuzione del comando delle operazioni in Corno d’Africa in supporto delle missioni assegnata alla Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA), la forza militare di più di 2000 uomini di stanza a Gibuti”. Nel maggio 2011, durante un’altra esercitazione a Longare, è stata attivata una specifica postazione di comando di “pronto intervento” (Early Entry Command Post – EECP) destinata a diventare la Forward Command Post (FCP), uno dei maggiori centri di comando per le operazioni di US Army Africa. Per Vicenza e dintorni, si profila un futuro di ulteriore militarizzazione del territorio. Ma intanto i cittadini di Longare e paesi limitrofi si preoccupano di sagre e altre amenità. Prima o poi gli zombies del Basso Vicentino dovranno scuotersi dal loro torpore. Ma forse sarà troppo tardi. O è già troppo tardi?

Gianni Sartori

Da attachment.googleusercontent.com

 

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4 Replies to “La NATO a Vicenza: UNO SPETTRO RADIOATTIVO SI AGGIRA SUI COLLI BERICI”

  1. Gianni Sartori ha detto:

    GIU’ LE MANI DALL’IRLANDA
    (Gianni Sartori)

    …dove, compatibilmente con le possibilità dell’autore, si cercherà di spiegare come la soi disant “croce celtica” sia stata adottata dalle formazioni di estrema destra in quanto simbolo dei collaborazionisti francesi (per cui sarebbe opportuno definirla “croce cerchiata delle ss francesi”) dando nel contempo qualche indispensabile informazione sulla Resistenza del popolo francese all’occupazione nazista…
    L’ambigua vicenda del “sidro Bobby Sands” messo in commercio un paio di anni fa da Casa Pound, non era certo il primo (e nemmeno, temo, l’ultimo) tentativo di appropriazione indebita della causa repubblicana irlandese.
    Un libro pubblicato nel 2010 aveva fornito ad alcuni personaggi di destra l’occasione per strumentalizzare le lotte del popolo irlandese. Si tratta de “Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese” (Castelvecchi ed.) di Silvia Calamati, Laurence McKeown e O’Hearn.
    Sciopero della fame fino alle estreme conseguenze. La forma di lotta adottata da Sands e altri nove prigionieri repubblicani, come mi spiegava nel 1986 Domhnall De Brun (insegnante di gaelico a Derry, anarchico e figlio di un internazionalista irlandese volontario in Spagna) “più che un richiamo al diritto tradizionale, rappresentava un atto politico all’interno di un processo collettivo di liberazione”. L’introduzione dell’internamento a tempo indeterminato risaliva al 1971. Nel 1976 venne revocato lo status di prigionieri politici e da quel momento i repubblicani arrestati finirono segregati nei Blocchi H. Nel 1978, vedendo lo stato di degradazione in cui vivevano, l’arcivescovo Tomàs O’Fiaich dichiarò che “lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni”. Il 27 ottobre 1980 iniziava uno sciopero della fame che, dopo una sospensione in dicembre, riprenderà nel marzo 1981. Bobby Sands muore il 5 maggio. Tra maggio e agosto del 1981 la stessa sorte toccherà ad altri nove prigionieri: Francis Hughes, Raimond McCreesh, Patsy O’Hara, Joe Mc Donnel, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas McIlwee, Micki Devine. Sette hunger strikers appartenevano all’Irish Republican Army (Ira), gli altri tre all’Irish National Liberation Army (Inla). Uno dei tanti diffusori di retorica benevola sui fascisti nostrani, Nicola Rao, scrive impropriamente “Bobby Sands e dopo di lui altri 15 detenuti dell’Ira morirono di fame…”. Almeno due dati imprecisi, l’appartenenza all’Ira di tutti i prigionieri e il numero dei morti. Poco più avanti, alimentando l’equivoco sulle affinità tra neofascismo e lotta di liberazione irlandese, riporta che nel 1981“i muri di molte città italiane furono coperti da manifesti e scritte, tutti firmati rigorosamente con una croce celtica, di solidarietà e di appoggio alla causa dei repubblicani irlandesi”. Falso. Manifesti e scritte erano soprattutto di sinistra (autonomi, “Lotta continua per il comunismo” etc). Quelli di Terza Posizione (TP, estrema destra), erano firmati con la runa “dente di lupo” (detta anche “nodo di rune”). E’ disponibile in proposito un’ampia documentazione fotografica.
    La runa “dente di lupo”, di origine germanica, non celtica, esiste sia in versione verticale (in araldica) che orizzontale (quella di TP). Nella seconda guerra mondiale venne utilizzata da varie bande criminali naziste: 2° divisione SS Das Reich; 4° Divisione SS Polizei; 34° Divisione SS Volunteer Grenadier landstorm Nederland, oltre che dalla Hitlerjugend e dal NS-Volkswohlfahrt. Oltre che da TP, è stata adottata da altri gruppi neonazisti: Aktion nationale Sozialisten/nationale Aktivisten (ANS/NA); Junge Front (JF) del Volkssozialistische bewegung deutschalands (VSBD); Wiking-Jugend; Vitt Ariskit Motstand (la svedese “Resistenza Bianca Ariana”). *

    Uno dei tre autori de “Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese”, Laurence Mc Keown, è rimasto per sedici anni prigioniero a Long Kesh. Destinato a diventare l’undicesima vittima, il suo sciopero della fame si interruppe al settantesimo giorno. Quando ormai era già in coma, i familiari acconsentirono a farlo alimentare artificialmente (dopo che le richieste dei prigionieri erano state accettate nella sostanza).

    Nel 1994 lo avevo incontrato durante un dibattito organizzato dalla “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli” (Fondazione Lelio Basso). Ci aveva spiegato che “sarebbe praticamente impossibile capire perché siamo arrivati a questa decisione senza conoscere cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti. Le condizioni dei prigionieri erano brutali e nessuna forma di protesta sembrava in grado di modificarle. Vedere con i nostri occhi la dura repressione subita dai detenuti non faceva altro che rafforzare le nostre convinzioni. Dato che il governo britannico tentava in tutti i modi di criminalizzarli, di farli apparire come delinquenti comuni “dovevamo ribellarci per dimostrare che le nostre scelte e le nostre azioni erano politiche, non criminali”. Una decisione che non fu certo presa alla leggera. “Per quanto mi riguarda -aveva concluso – ero ben consapevole che questo sciopero sarebbe stato portato fino alle estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista dei volontari non sapevamo quando sarebbe venuto il nostro turno, chi sarebbe morto e chi sarebbe sopravvissuto…”.
    I tentativi della “nuova destra” di appropriarsi della lotta di liberazione nazionale del popolo irlandese non si esaurirono nel 1981. E’ noto che alcuni neofascisti (Walter Sordi, Enrico Tommaselli…) vennero arrestati con in casa manifesti e giornali repubblicani (“An Phoblacth”) e libri su Bobby Sands. Sdoppiamento della personalità o semplice confusione ideologica? ** Nelle loro latitanze britanniche venivano aiutati da elementi del National Front (partito razzista di estrema destra) sostanzialmente schierato con le squadre “lealiste”, protestanti-filoinglesi, quelle che periodicamente si rendevano responsabili di omicidi settari nei confronti di qualche cattolico. Inoltre i “lealisti” erano in ottimi rapporti anche con la Ruc (Royal Ulster Constabulary), la polizia nordirlandese che forniva gli elenchi dei sospetti militanti repubblicani da eliminare. I legami tra l’estrema destra inglese (oltre al Nf, il British National Party, il Greater British Movement, la League of St. George e C18) e l’estrema destra protestante dell’Ulster si resero evidenti il 15 febbraio 1995, a Dublino, durante un’amichevole tra le nazionali di calcio di Inghilterra e Irlanda. La partita si svolse tra saluti nazisti, slogan contro l’Ira e cori contro gli accordi di pace. Si concluse con lanci di oggetti contro il pubblico irlandese e violenti scontri. Bilancio: una cinquantina di feriti e la morte di un tifoso irlandese. Molti hooligans, i tifosi britannici più esagitati, facevano parte di organizzazioni neonaziste (compresa C18; C per Combat, mentre il numero indica la prima e l’ottava lettera dell’alfabeto, le iniziali di Adolf Hitler). Ma, oltre alle organizzazioni britanniche, i “lealisti” nordirlandesi ne frequentavano anche altre di estrema destra. Esistono prove fotografiche di miliziani dell’Ulster volunteer force (Uvf) presenti a qualche manifestazione in Belgio insieme a neonazisti fiamminghi e a quelli francesi di Ordre Nouveau.
    LA CROCE CERCHIATA DELLE SS FRANCESI
    Riconoscibili questi ultimi perché usavano la cosiddetta (tre volte cosiddetta quando è quella adottata dai fascisti) “croce celtica”. In realtà il simbolo (denominato “celtica” solo in epoca recente, non alle origini) ricorda una runa (anche se i neofascisti lo escludono) e venne utilizzato dai francesi collaborazionisti della brigata, poi divisione, Charlemagne durante la seconda guerra mondiale. Forse sarebbe più corretto denominarla “croce cerchiata delle ss francesi”. Nessuna parentela con le vere croce celtiche che svettano sulle antiche tombe irlandesi (espressione di un sincretismo tra cristianesimo e religione tradizionale gaelica) e anche su molte tombe di volontari dell’Ira e dell’Inla morti in combattimento.
    Utilizzata dal Fronte della gioventù (Fdg) negli anni settanta, ben sapendo quale fosse il riferimento al nazismo e al collaborazionismo (un simbolo di continuità), venne proibita dallo stesso leader del MSI, Giorgio Almirante.
    In Italia la “croce cerchiata delle ss francesi” era stata adottata nei primi anni sessanta da Giovane Europa (in precedenza Giovane Nazione), filiale italiana del movimento Jeune Europe (in precedenza Jeune Nation) fondato da Jean Thiriart che aveva combattuto nelle waffen-ss . A questo movimento, nel 1963, aderirono un gruppo di missini fiorentini (Attilio Mordin, Franco Cardini, Marco Bersacchi, Amerino Griffini…) e qualche ordinovista (Massimo Marletta…). In quello che sembra un attacco di autorevisionismo, uno dei soci fondatori sosteneva che fu per “allontanarsi dalla lugubre e bellicosa simbologia neofascista e neonazista” (…e per questo adottavano un simbolo delle waffen ss?!?). In realtà sembrerebbe piuttosto un modo per rivendicare proprio quelle origini, quella appartenenza, senza insospettire l’opinione pubblica e nel contempo strizzare l’occhio agli iniziati. In precedenza il simbolo sarebbe stato inalberato dalle italiche Formazioni Nazionali Giovanili. Sempre di destra, ovviamente. Attorno al 1975 venne sistematicamente adottato dalle organizzazioni giovanili missine (Fdg e Fuan), mentre qualche anno prima i rautiani lo avevano proposto al MSI con l’aggiunta di una fiamma tricolore sullo sfondo.
    Cardini suggeriva un legame anche con la “francisca” stilizzata del Parti populaire francais (Ppf ) di Jacques Doriot. Facendo il finto tonto, lo storico sorvola sul fatto che la Francisque nella versione bipenne, con lame tricolori e manico costituito dal baton de marèchal (quello di Petain, ovviamente) venne prescelta come emblema del regime collaborazionista di Vichy. Nelle intenzioni, forse, avrebbe dovuto ricordare l’iconografia dei fasci littori mussoliniani. E di sicuro non venne adottata per caso come logo da Ordine Nuovo (quello italico, mentre i loro omologhi francesi di Ordre Nouveau usavano, come già detto, la “croce cerchiata delle ss francesi”). Per gli amanti della storia, va ricordato che la “francisca” era la scure da lancio dei germani occidentali (in pratica un grande tomahawk), introdotta in Gallia dai Franchi (così chiamati, pare, dal nome dell’arma e non viceversa), da cui il nome Francia. Fermo restando che i Franchi erano “germani” e non “celti”, come invece i Galli. Nessuno metterebbe in discussione il fatto che i celti britanni furono invasi dai germanici angli e sassoni. Analogamente, dopo quella romana, i celti della Gallia subirono l’invasione di varie popolazioni germaniche.**** La più duratura fu quella dei Franchi, definitivamente consolidata con Clodoveo, Carlo Martello e Carlo Magno.
    Mentre le vere croci celtiche testimoniano della relativamente pacifica diffusione del cristianesimo tra le popolazioni irlandesi, il Carlomagno è passato alla storia per aver sterminato alcuni popoli (come i Sassoni) che non volevano convertirsi al cristianesimo. E sorvoliamo su Roncisvalle, sacrosanta ritorsione dei Baschi al saccheggio di Irunea (Pamplona) operato dai soldati di Carlomagno. Altro che “paladini della cristianità” contro i musulmani (che a Roncisvalle non c’erano proprio). Ma questa è un’altra storia. Così come sarebbe un’altra storia il ruolo dei fascisti italiani nelle squadre della morte parastatali (Ate, Battaglione vasco-spagnolo, Gal…) contro la sinistra indipendentista basca. Sia in epoca franchista che dopo.***
    Tornando a Cardini, lo storico fiorentino ammetteva, bontà sua, “un legame sentimentale con il fascismo letterario francese, ma – minimizzava – si tratta di quello a cui aderì Pierre Drieu la Rochelle”. Un noto scrittore collaborazionista. Definirlo, come si inventa Cardini “molto vicino all’estrema sinistra” è demenziale, oltre che vergognoso. Basti ricordare che nell’ottobre del 1941, insieme a Brasillach, Chardonne, Jouhandeau e altri scrittori francesi, Drieu la Rochelle accolse l’invito di Goebbels e prese parte ad un “Congresso degli intellettuali europei” in Germania. L’incontro si concluse con una visita-premio alla Cancelleria del Reich. Nel 1945, arrestato dalla Resistenza francese, l’autore di Socialisme fasciste, preferì il suicidio alla fucilazione.

    “CHANTEZ, COMPAGNONS, DANS LA NUIT LA LIBERTE’ NOUS ECOUTE”
    Scrivendo queste righe non vorrei aver dato l’errata impressione che la terra di Vercingétorix, Saint-Just e Louise Michel abbia contribuito ad alimentare il fascismo in proporzioni analoghe a quanto seppero fare Italia e Germania. In verità la resistenza del popolo francese contro le truppe tedesche di occupazione fu immediata, estesa e ampiamente condivisa, nonostante gli inevitabili casi di collaborazionismo.
    E la repressione, ovviamente, fu durissima.
    Tra i tanti massacri di cui si resero responsabili i nazisti e le milizie collaborazioniste, risalta per efferatezza quello dei “50 otages”, ricordati dall’omonimo monumento sull’Erdre a Nantes.
    Qui 48 francesi subirono la fucilazione per ordine di Adolf Hitler e del generale Otto von Stuelpnagel, comandante del “gross Paris”, come rappresaglia per l’uccisione del tenente colonnello tedesco Karl Hotz avvenuta il 20 agosto 1941 in place Louis XVI davanti alla Kommandantur. ****
    La lista degli ostaggi venne preparata dall’Alto comando tedesco insieme al governo collaborazionista di Vichy. Il ministro dell’Interno di Pétain, Pierre Pucheu, presentò una lista di 200 nomi di presunti comunisti internati nel campo di concentramento di Chateaubriant a cui il generale von Stuelpnagel aggiunse i nomi di alcuni esponenti della resistenza nantese. A Nantes, la Gestapo e la polizia francese collaborazionista rastrellavano da tempo decine di persone (giovani comunisti e socialisti, sindacalisti cattolici, membri della Jeunesse Ouvrière Catholique, senza partito…) per rinchiuderle nel campo di Chateaubriant. Il gruppo definitivo dei 50 ostaggi sarà composto da 27 comunisti, 18 resistenti detenuti a Nantes (prigione des Rochettes, prigione Lafayette…) e 5 nantesi incarcerati a Parigi.
    Il 22 ottobre del 1941, rifiutando di essere bendati, gli ostaggi vennero fucilati a gruppi di quattro; la maggior parte nel “champ de tir du Béle” di Nantes, altri nella cava della Sablière (all’uscita da Chateaubriant) e cinque al Mont-Valérien (Parigi) dove la medesima sorte era toccata il 29 agosto all’ufficiale di marina Honoré d’Estienne d’Orves e dove verrà giustiziato, il 15 dicembre, anche il giornalista comunista Gabriel Péri.
    Per un disguido nel coordinamento tra i servizi segreti, due ostaggi scamparono all’esecuzione.
    Una successiva esecuzione di altri 50 ostaggi, già prevista, venne sospesa per ordine di von Stuelpnagel preoccupato per l’indignazione suscitata in tutta la Francia. Negli stessi giorni altri cinquanta ostaggi venivano passati per le armi a Bordeaux come rappresaglia per un attentato.
    Sempre al Mont-Valérien, il 17 aprile 1942 vennero fucilati 23 resistenti dei Bataillons de la Jeunesse, giovani comunisti arrestati dalla polizia francese collaborazionista e consegnati ai tedeschi. Una loro compagna, Simone Schloss, in quanto donna venne invece decapitata il 2 luglio. Iniziato il 7 aprile alla Maison de la Chimie, il processo si era concluso con la richiesta di 26 condanne a morte. Uno degli imputati venne giudicato passibile soltanto della prigione in quanto non ancora sedicenne, ma suo padre e suo fratello vennero considerati “otages” e fucilati. Il verdetto venne salutato con favore dalla stampa collaborazionista che in precedenza aveva ripetutamente insultato gli accusati. Gli stessi giornali su cui scrivevano Drieu la Rochelle, Chardonne, Jouhandeau, Céline…Quanto a Robert Brasillach, divenne addirittura direttore di uno dei giornali riapparsi con la loro vecchia testata, ma al servizio dei tedeschi. Altri direttori di giornali collaborazionisti: Marcel Déat, Jacques Doriot, Jean Luchaire, Lucien Rebatet…
    Tutti complici dell’occupante nazista che intanto applicava anche in Francia la “soluzione finale” per gli ebrei. Il 16 e il 17 luglio 1942, alle quattro del mattino, circa 13mila ebrei vennero arrestati dalla Gestapo a Parigi. Radunati al “vélodrome d’hiver”, vennero poi inviati in Germania per finire nei campi di sterminio.
    Il 15 gennaio 1943 si apriva il “processo dei 42”. Temendo di alimentare ulteriormente lo sdegno con cui l’opinione pubblica aveva reagito alle fucilazioni del 1941, sia il governo servile e collaborazionista di Vichy (guidato dal marèchal Pétain) che gli occupanti tedeschi cercarono di dare una qualche legittimità a questo ennesimo massacro. Alcuni dei 143 arrestati vennero rilasciati, altri deportati, mentre 45, accusati di essere francs-tireurs e membri di un’organizzazione comunista, compariranno davanti al tribunale militare tedesco di Nantes. Il verdetto (37 condanne a morte) viene reso pubblico il 28 gennaio. Alla lettura della sentenza Henri Adam intonò la Marseillaise ripresa con vigore da tutti i condannati. Il giorno dopo (senza attendere il ricorso degli avvocati) al champ de tir du Béle vennero fucilati i primi nove prigionieri poi sepolti a Sautron.
    Il 13 febbraio 1943 altri 25 dei condannati del 28 gennaio vennero giustiziati, mentre gli ultimi tre (Le Paih, Brisson e Coiffé) cadranno sotto i colpi di un plotone di esecuzione tedesco il 7 maggio.
    In agosto è la volta di Marcel Hatet, morto per le torture subite nell’hotel de Charette, place Louis XVI, a Nantes. Nel gennaio 1943 era stato invece decapitato in una prigione tedesca (a Colonia) il religioso Jean-Baptiste Legeay, condannato a morte con 27 bretoni nel luglio dell’anno precedente.

    Contemporaneamente a quello dei “42”, un processo analogo si era svolto a Rennes contro 29 comunisti guidati da Edouard Hervé, fratello di Raymond. Entrambi verranno fucilati a circa un mese di distanza l’uno dall’altro.
    In piena occupazione tedesca di Parigi, il poeta armeno Missak Manouchian, ex operaio alla Citroen, venne incaricato dalla Internazionale comunista di costituire un gruppo clandestino nella capitale. Ne faranno parte giovani polacchi, ungheresi, italiani, cechi, spagnoli, rumeni. Dopo una prima fase dedicata alla distribuzione di volantini contro traditori e collaborazionisti, il gruppo (definito a posteriori un “fronte popolare di immigrati”) iniziò a colpire direttamente le truppe di occupazione. Di questi resistenti (oltre a Manouchian, Simon e Marcel Raynan, Thomas Elek…) 22 verranno fucilati al Monte-Valérien il 21 febbraio 1944. Quindici giorni dopo una donna membro del gruppo sarà decapitata a Stoccarda.
    Come hanno ricordato Ramòn Chao e Ignacio Ramonet (Guide de Paris rebelle, Plon 2008) dal febbraio 1999 in rue Groupe-Manouchian 36 (Parigi, 20° arrondissement) è possibile leggere il “Manifesto rosso”scritto da Louis Aragon per celebrare questi martiri della Resistenza. Il nome deriva dal manifesto rosso (stampato in più di 15mila esemplari) affisso sui muri di Parigi il 1 marzo 1944 dalla propaganda nazista dove i partigiani fucilati venivano definiti “armèe du crime”.
    Sulla vicenda della 35° Brigata Ftp-Moi (Francs-Tireurs et Partisans-Main-d’Oeuvre Immigrée) Marc Levy, figlio di un esponente della brigata, ha scritto “I figli della libertà” (Rizzoli, 2008).
    Da Lucie Aubrac a France Bloch-Sérazin (decapitata il 12 febbraio 1943 a meno di 30 anni), da Charles Tillon alle deportate nacht und nebel Charlotte Delbo (arrestata dalla polizia francese collaborazionista nel 1942) e Germaine Tillion…, è una lista infinita quella dei cittadini francesi appartenenti al “peuple de la nuit” che osarono ribellarsi in nome della loro coscienza contro l’ordine imposto dagli invasori nazisti. Basti pensare a Jean Moulin, presidente del Consiglio nazionale della Resistenza e Compagnon de la Libération, torturato e assassinato dai nazisti nel 1943; a Bertie Albrecht già sostenitrice del Fronte popolare. Arrestata una prima volta nel 1942, riuscì ad evadere, ma venne nuovamente catturata nel maggio 1943 e morì nel carcere di Fresnes dopo essere stata torturata; allo studente Libertaire Rutigliano, torturato e assassinato sotto gli occhi del padre, nella sede della Gestapo in place Marèchal Foch, a Nantes (aprile 1944).
    Victor Basch, presidente della “Ligue des droits de l’homme”, presidente del “Comité pour le Rassemblement populaire” (da cui nacque il “Front Populaire”), venne assassinato con la moglie il 10 gennaio 1944 da alcuni miliziani collaborazionisti (tra cui Lécussan). In quanto ebreo e “franc-macon”, una sintesi di quanto i nazisti e i loro servi- come appunto i già citati Drieu la Rochelle e Brasillach – odiavano maggiormente.
    Tra i criminali di guerra si distinse l’ufficiale nazista Klaus Barbie. Il “macellaio di Lione” si rese responsabile della morte di centinaia di ebrei e di partigiani. Dopo la guerra fuggì in Sudamerica dove collaborò con vari regimi e con la CIA (avrebbe avuto un ruolo non secondario nella cattura di Ernesto Che Guevara) fino a quando nel 1983 non venne estradato in Francia e condannato all’ergastolo.
    Non mancarono poi stragi indiscriminate in stile Marzabotto. Nel giugno del 1944 a Oradour-sur-Glane la divisione di èlite SS “Das Reich” fece radunare tutti gli abitanti nella piazza. Vennero poi rinchiusi nella chiesa data alle fiamme.
    Mentre nel Vercors (luglio del 1944) era in corso una dura battaglia tra circa 8mila maquisards e più di 30mila tedeschi, coadiuvati dalle milizie collaborazioniste di Darnand, le SS distrussero Vassieux massacrando un’ottantina di abitanti. Qualche giorno dopo i nazisti scoprirono alcuni sopravvissuti nascosti in una grotta e completarono l’opera. Tra le vittime anche un gesuita e due medici che curavano i feriti.
    Nel febbraio 1945 i combattenti francesi guidati da De Lattre entreranno nel “campo di rappresaglia” di Struthof (nei Vosgi) completamente vuoto. In quello che sarà definito “l’enfer de l’Alsace” erano stati sterminati migliaia di resistenti.
    Come antidoto ai “legami sentimentali con il fascismo francese” rivendicati da qualche esponente nostrano della “Nuova Destra”, direi che può bastare.

    UN SIMBOLO DEI COLLABORAZIONISTI
    Si ritiene che la “croce cerchiata delle ss francesi”, adottata nel 1944 come mostrina speciale per i volontari francesi nelle waffen-ss della futura divisione Charlemagne, sia stata scelta in quanto “simbolo imperiale” usato prima da Costantino e poi da Carlomagno. Quindi, volendo cavillare, di origine o romana o germanica, non celtica. Comunque ottimo per il Terzo Reich!
    Fu adottata dalla “Compagnia Flak”, una unità della Charlemagne quando questa era ancora una brigata. La Flack venne impiegata a Monaco nella difesa contraerea e la Charlemagne combatté a Berlino attorno al bunker di Hitler. A voler essere pignoli, non è il simbolo in quanto tale ad essere scippato, ma la sua denominazione. Chiamarla “celtica” rappresenta un mascheramento sulla sua vera origine, oltre che un’offesa nei riguardi dei Celti. Brave persone, tutto sommato, in quanto si opposero valorosamente all’imperialismo romano.
    Chi ha scelto quel simbolo (insisto: la “croce cerchiata delle ss francesi”, abusivamente chiamata “celtica”) sapeva bene cosa rappresentava! Con il precedente storico della Charlemagne posta a difendere il bunker di Hitler, appare chiaro perché nell’immediato dopoguerra diventasse l’emblema preferito delle organizzazioni francesi neonaziste e neofasciste che, idealmente, da quel bunker intendevano ripartire. Un ex appartenente alla Charlemagne, René Binet, editore del bollettino Le combattant europeèn (un esplicito richiamo alla pubblicazione dei volontari francesi nelle SS) e di testi apertamente razzisti come Thèorie du racisme e Contribution à une èthique raciste,lo riesumò per identificare alcuni movimenti via via fondati. Nel 1946 il Parti republicain d’union populaire e successivamente l’ambiguo (anche nel nome) Mouvement socialiste d’unité francaise sciolto nel 1949 per “incitamento alla violenza razzista”. Nello stesso anno divenne il logo di Jeune Nation. Fondata dai fratelli Sidos, Jeune Nation propugnava uno stato totalitario inspirato al fascismo e si distinse per le sue spedizioni squadristiche contro le sedi dei partiti di sinistra. Negli anni cinquanta rappresentò l’approdo di molti veterani della guerra coloniale di Indocina. Venne sciolta dal governo nel 1958 dopo un attentato contro l’Assemblea Nazionale. Il simbolo venne utilizzato anche in Belgio dal Pnf. In Francia venne ripreso dal Parti Nationaliste costituito nel 1958 dai reduci di J.N. e in seguito dal Front de l’Algerie francaise e dal Front national pour l’Algerie francaise sotto la guida di Jean- Marie Le Pen. La maggior parte degli aderenti entrerà poi nell’Organisation de l’armèe secrète (Oas), l’organizzazione dei pieds-noirs, i coloni francesi in Algeria. Il gruppo terroristico contrario alla decolonizzazione, venne fondato a Madrid nel 1961 da Jean-Jacques Susine e Pierre Lagaillarde. Passerà alla storia, tra gli altri misfatti, per il putsch d’Algeri (v. il generale Salan). Ogni slogan tracciato dall’Oas sui muri di Algeri era regolarmente accompagnato dalla “croce cerchiata delle ss francesi”. A causa degli attentati dell’Oas, tra il maggio 1961 e il settembre e il settembre 1962, vennero uccise circa 2700 persone, di cui 2400 erano algerini. Da una costola dell’Oas nacque a Lisbona l’Aginter Press che operò soprattutto in Africa inviando fascisti francesi, belgi e italiani (tra cui Concutelli) e agenti segreti (portoghesi e statunitensi) in Congo, Angola e Namibia (invasa dall’esercito del Sudafrica che vi aveva introdotto l’apartheid) contro le lotte di liberazione di Frelimo, Paigc, Anc, Mpla, Swapo…
    In collaborazione con la CIA e con il regime portoghese, l’Aginter Press si rese responsabile nel 1969 dell’assassinio di Eduardo Chivambo Mondlane, presidente del Frente de Libertacao de Mocambique (Frelimo) e nel 1973 di quello di Amilcar Cabral, segretario generale del Partido Africano da Independencia da Guiné Bissau e Cabo Verde (PAIGC). Dopo il 1975, miliziani europei presero parte ai massacri operati dall’esercito di Pretoria in Namibia e Angola e non si esclude poi una partecipazione dell’Aginter Press all’assassinio delle esponenti antiapartheid Ruth First e Janette Curtis (entrambe con un pacco-bomba) che si erano rifugiate, rispettivamente, in Mozambico e Angola. Come è noto l’Aginter Press svolse un ruolo non indifferente nella “strategia della tensione” che insanguinò l’Italia da Piazza Fontana in poi.
    Intanto nell’Esagono il controverso simbolo veniva ereditato da Ordre Nouveau. Attualmente quella che andrebbe sistematicamente definita “croce cerchiata delle ss francesi” viene chiamata Keltenkreuz (“croce celta”) dai gruppi tedeschi che la utilizzano al posto della svastica con l’aquila nazista sovrapposta. Esistono poi altre denominazioni, più o meno pittoresche e new age. Per quanto mi riguarda, ripeto, l’autentica “croce celtica”, è solo quella storica di cimiteri, chiese, manoscritti e murales irlandesi.
    Nelle manifestazioni di Forza Nuova (erede di Terza Posizione ?) sono ricomparsi altri simboli inseriti nel cerchio bianco della bandiera rossa (identica a quella nazista e a quella dei razzisti sudafricani con svastica a tre braccia). Oltre alla “croce cerchiata delle ss francesi” sono state riesumate la runa “dente di lupo” (wolf sangel) già usata da Tp e quella adottata da Avanguardia nazionale (l’organizzazione di Stefano Delle Chiaie). Il simbolo di Avanguardia nazionale sarebbe la “runa Othala” (Runa di Odal, Odalrune, di matrice scandinava, non celtica). Nell’originale, un rombo con i lati inferiori allungati. I seguaci di Delle Chiaie la disegnavano con i lati inferiori allungati e ritorti, nella versione già utilizzata dalle Waffen-ss “SS Gebirg-Division Prinz Eugen”, mentre i fascisti cileni degli anni settanta (quelli che favorirono il golpe di Pinochet) la utilizzavano nella forma originale.
    Una runa identica a quella di Avanguardia nazionale, ma rovesciata con le punte verso l’alto, identificava il Rassemblement national populaire (RNP) di Marcel Déat (fucilato dopo la Liberazione) che, insieme al Parti populaire francais di Jacques Doriot (v. l’osservazione di Cardini sulla “francisca”), costituì nell’agosto 1941 la Légion des volontaires francais contre le bolchevisme per inviare combattenti francesi sul fronte dell’Est a fianco dei nazisti. Come ho detto, anche l’ascia bipenne adottata da “Ordine Nuovo” (Rauti, Signorelli, Concutelli) era un simbolo del collaborazionismo francese (identica a quella del maresciallo Petain e di Vichy), sebbene gli ordinovisti cercassero di nobilitarla con richiami agli etruschi o all’antica civiltà cretese. Probabilmente, vietati l’uso della svastica e del fascio littorio, i nostalgici nostrani ricorrevano ad una forma di mimetismo (camouflage) prendendo in prestito la simbologia dei loro camerati d’oltralpe. L’origine di questa importazione andrebbe cercata nei rapporti tra neofascismo italiano e gruppi della destra francese (oltre a Jeune Europe anche Lutte du Peuple), specializzati nell’opera di “intossicazione” a sinistra usando la carta dell’antimperialismo e della liberazione nazionale. Niente male per gente che aveva collaborato con l’OAS contro gli indipendentisti algerini!
    FASCISTI CON “AL KATAEB”
    Stando a quanto scrivono gli interessati, alcuni esponenti di Jeune Europe sarebbero andati in Libano per combattere con l’OLP. Invece, come è noto, i fascisti italiani (non solo quelli dei NAR, i Nuclei armati rivoluzionari, di estrema destra, legati ai servizi e, forse, braccio armato della P2.) in genere si schieravano con al-Kataeb (la Falange), il partito dei maroniti di destra, fondato nel 1936 da Pierre Gemayel al suo ritorno da un viaggio nella Germania nazista. Secondo Stuart Christie (“Stefano delle Chiaie – Portrait of a black terrorist“, anarchy magazine/refract publications, London 1984) avrebbero preso parte ad azioni contro i palestinesi (viene citato Walter Sordi). Mario Caprara e Gianluca Semprini, autori di “Destra estrema e criminale” (Newton Compton ed. 2009), nel capitolo dedicato ad Alessandro Alibrandi, riportavano un’intervista di Panorama a Signorelli, recentemente scomparso. Secondo Signorelli: “i valorosi camerati italiani hanno aiutato la milizia di Gemayel combattendo al loro fianco nella battaglia di Tel Znatar (sic)”.
    E’ possibile che i due autori abbiano fatto un po’ di confusione e citato l’intervista sbagliata. Probabilmente Signorelli parlava degli avvenimenti di Tel al Zaatar (nel settore cristiano di Beirut) che risalgono al 12 agosto 1976. All’epoca dell’intervento militare della Siria in Libano (in favore dei falangisti) Alibrandi si trovava ancora in Italia. Comunque, più che di una battaglia bisognerebbe parlare di assedio (durato 52 giorni) e di un brutale massacro. Anche nei confronti dei feriti, nonostante l’intervento della Croce Rossa. A Tel al Zaatar l’esercito siriano (penetrato in Libano nel giugno 1976) si comportò come qualche anno dopo quello israeliano a Sabra e Chatila, con un ruolo di copertura e appoggio ai miliziani maroniti cui toccò il lavoro sporco. Resta l’incertezza sul numero esatto delle vittime, da 1500 a 3000. Con i falangisti, oltre ai neofascisti italiani, militanti francesi dei Groupes d’Action Jeunesse, spagnoli di Fuerza Jòven, fiamminghi del Vlaamsa Militantenorde (Vmo) e tedeschi di estrema destra dell’organizzazione di Karl Heinz Hoffman. Dalla parte dei palestinesi, baschi e irlandesi, presumibilmente legati all’Eta e all’Ira. Durante l’operazione “Pace in Galilea” alcuni combattenti irlandesi vennero catturati dall’esercito israeliano e consegnati alla Corona britannica.
    Molti repubblicani irlandesi avevano combattuto nelle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile spagnola. Alcuni sono ricordati nella lapide per i caduti della battaglia di Brunete (8-9 luglio 1938), altri (come Tommy Patten, caduto a Madrid verso la fine 1936, quasi contemporaneamente a Buenaventura Durruti) al memoriale dell’isola di Achill in Irlanda.
    Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Irish Republican Army addestrava militarmente, contro gli inglesi, gli ebrei scampati all’Olocausto. Tutto questo va ribadito per ridimensionare l’entità, ampiamente sovradimensionata dalla destra, sui rapporti (in chiave anti-inglese) intercorsi tra alcuni elementi repubblicani e i servizi segreti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. Due esponenti dell’Ira, catturati dai franchisti mentre combattevano con le Brigate internazionali, sarebbero stati rimpatriati grazie all’intervento tedesco (forse con un sommergibile). Alcune azioni dell’Ira a Londra durante la “battaglia d’Inghilterra” hanno alimentato l’ipotesi di una possibile collaborazione con la Germania.
    L’ossessione di certa destra (da On a Tp, fino a “Forza nuova”) di accreditarsi nei confronti delle lotte di liberazione nazionale è stata, in genere, mal corrisposta. Ancora nel 1985, avevo chiesto a Bernadette Devlin la sua opinione in merito alla simpatia dimostrata dalla cosiddetta “destra radicale” per la causa irlandese. Mi rispose che “di sicuro sono simpatie a senso unico”.
    Con la presentazione ufficiale del libro di Calamati, McKeawn e O’Hearn sotto le insegne del Parlamento europeo la vecchia questione è tornata di attualità. A fare gli onori di casa la vicepresidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli, in gioventù vicina a Terza posizione, poi Segretaria del Fronte della gioventù e deputata europea di An dal 1994. Angelilli è grande amica di Andrea Insabato, il personaggio che il 22 dicembre 2000 rimase ferito nell’esplosione della propria bomba davanti alla redazione de il Manifesto sulle scale della vecchia sede di via Tomacelli.
    Un episodio che evocava un altro attentato fascista dell’aprile1973. Nella toilette del treno, il sanbabilino Nico Azzi (con doppia militanza nel Msi e ne “La Fenice” di Rognoni, legata a ON) si fece esplodere un ordigno tra le gambe. Non prima di essersi fatto notare in giro per il treno con Lotta continua in mano. Ai suoi funerali, nel 2007 in Sant’Ambrogio di Milano, erano presenti sia Forza Nuova che i fratelli Larussa.
    Durante la sua permanenza al Policlinico Gemelli e in carcere (molto breve, anche perché quelli del Manifesto, forse mossi a compassione, non si costituirono parte civile), Insabato ha scritto un memoriale dove trova il tempo per vantarsi delle sue “duecento conquiste di letto”. Numerose, precisa, anche durante la latitanza londinese (vedi sopra).
    Il “paladino di Dio” (per autodefinizione) ricordava affettuosamente l’amica Roberta Angelilli, la sua “prima tifosa di tutte le udienze” nei processi che lo vedevano imputato in quanto esponente di Terza Posizione (capozona alla Balduina).
    L’Angelilli è nota per aver definito i partigiani “assassini”, non riuscendo evidentemente a cogliere l’analogia tra la lotta di liberazione del 1943-45 contro i nazisti e quella irlandese contro l’occupazione britannica (e nemmeno l’analogia tra i fascisti repubblichini e i collaborazionisti “lealisti” protestanti). Dal libro di Caldiron “La destra plurale” (manifestolibri 2001), si ricava che porta al collo una “croce cerchiata delle ss francesi”. D’argento, noblesse oblige.
    Nel memoriale Insabato ricordava altri amici suoi: Morsello (cofondatore di Forza nuova), Rauti, Gasparri, Bontempo, oltre a qualche esponente dei Nar come Alessandro Alibrandi e Giorgio Vale.
    L’attentato a il manifesto potrebbe essere stato diretto in particolare contro Stefano Chiarini che si occupava della questione palestinese e con cui Insabato cercava da tempo di entrare in contatto. In precedenza Chiarini si era dedicato all’Irlanda, sia come editore che come giornalista. La sua Gamberetti Editrice ha pubblicato “Strade di Belfast” di Gerry Adams e alcuni romanzi (“La seconda prigione”) di Ronan Bennet, un ex prigioniero politico repubblicano.
    Oltre ad aver pubblicato sul “quotidiano comunista” decine di articoli riguardanti la questione irlandese, Chiarini aveva collaborato alla realizzazione di un dossier (“La verità la prima vittima”, supplemento al n.1 de “I diritti dei popoli”, 1985) sulle violazioni dei diritti umani in Irlanda del Nord. Insieme a Gianni Palumbo, Giovanni Bianconi e Silvia Calamati, autrice di Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese.

    Sempre in materia di coincidenze. Alla presentazione del libro su Bobby Sands, insieme all’Angelilli, presenziava l’esponente di “Azione giovani” Tommaso della Longa, collaboratore di varie pubblicazioni di estrema destra tra cui “Area” e “Rinascita” (in qualità di capo servizio esteri). Sul giornale della soi disant “Sinistra nazionale” (in realtà di estrema destra), si ironizza su clandestini, immigrati e sindacati di base. Elogi nostalgici invece per la “leggendaria” marcia su Roma del ’22. Della Longa collaborava anche a “Il Riformista”, almeno durante la direzione di Antonio Polito. Grazie ai buoni rapporti con Rocca, era diventato portavoce della Croce Rossa (v. i comunicati dell’Ufficio stampa della C.R). Se ne era parlato all’epoca dell’assunzione di alcuni neofascisti alla C.R. (segnalo su Indymedia “Sembra un ministero, è la Croce Rossa…uncinata”). Altra coincidenza, nel 2008 arrivava alla dirigenza della C.R. la moglie del Polito, Patrizia Ravaioli. .
    A questo punto, visto che qui si parla di hunger strikers, ricordo che l’Antonio Polito, ex direttore de “Il Riformista”, è quel personaggio che durante lo sciopero della fame del prigioniero antispecista Barry Horne (anarchico e negli anni ottanta militante dei gruppi di solidarietà con i prigionieri politici irlandesi) faceva dell’ironia nei suoi articoli pubblicati su “la Repubblica”. In sostanza diceva che stava fingendo, che mangiava di nascosto, che era un esaltato… Poi Barry Horne è morto nel modo che sappiamo. E Polito, che io sappia, non ha mai chiesto scusa. Ancora prima della morte di Barry, i suoi articoli mi erano apparsi “pilotati”. Coincidenze. O, forse, analogie.
    La vicenda di Sands e degli altri nove repubblicani morti nel 1981 ha rappresentato nel tempo una testimonianza contro le carceri speciali, contro la tortura e contro la legislazione d’emergenza. Un“grido contro l’ingiustizia”, così come la resistenza popolare, in tutte le sue molteplici forme, nei quartieri proletari di Derry e Belfast, dal Bogside a Falls road, tra gli anni sessanta e novanta.
    Le destre hanno tentato di appropriarsene come avevano fatto con le lotte contro il nucleare e contro la globalizzazione, con l’ecologia e, più recentemente, anche con la liberazione animale. Un gruppo animalista del nord-est, fondato da un ex di Forza Nuova, tentava di appropriarsi della memoria di Barry Horne, antispecista anarchico morto in carcere per le conseguenze di alcuni scioperi della fame contro la vivisezione. Al di là del folclore, a naso, si riconosce un metodo che ricorda le infiltrazioni degli anni sessanta. Ricorda anche alcune ambigue posizioni dei “Corpi franchi” in Germania nel primo dopoguerra,
    Sia ben chiaro. Siamo in democrazia, (anche se certamente non per merito dei fascisti) e, per quanto mi riguarda, ognuno è libero di usare i simboli che vuole. Ma senza ambiguità e chiamando le cose con il loro nome. Bobby Sands era comunque uno di sinistra, un compagno. I suoi riferimenti, oltre a Connolly e Pearse, sono stati Che Guevara, Malcom X e George Jackson (quello dei fratelli di Soledad), gli antifranchisti baschi come Txiki e Otaegi fucilati nel 1975. Non certo Codreanu o Degrelle. Non si può escludere che qualche militante di destra sia in buona fede quando esprime ammirazione per gli hunger strikers. In questo caso dovrebbe riconoscere che l’antimperialismo, l’amore per la giustizia e la libertà, il rispetto per le lotte di liberazione degli oppressi (di tutti gli oppressi, s’intende) sono incompatibili con le idee totalitarie, autoritarie e gerarchiche (anche quando si dicono “di sinistra”, Stalin docet). E quindi incompatibili con il fascismo.
    Cassandra mio malgrado, agli inizi del 2011 avevo scritto “ nel trentesimo anniversario della morte dei dieci hunger strikers, sarebbe inconcepibile dover assistere alla partecipazione di neofascisti e neonazisti alle commemorazioni. Dopo la presentazione ufficiale del libro“Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese” (comunque un buon libro) da parte di Roberta Angelilli, tutto diventa possibile”. Purtroppo avevo ragione: nel maggio 2011 alle manifestazioni in memoria di Bobby Sands e degli altri hunger strikers hanno partecipato i neofascisti di Casa Pound, a fianco degli inconsapevoli militanti del Sinn Fein, ostentando il manifesto con la foto di Bobby Sands e diffondendo poi le immagini su Internet.
    Ripeto, nessun dubbio sull’onestà intellettuale dei tre autori, ma forse qualcuno dovrebbe aggiornare i repubblicani irlandesi. Fermo restando che queste ambiguità e contaminazioni restano, purtroppo, un fenomeno tipico del nostro Paese, almeno dagli anni sessanta.
    Gianni Sartori (osservatore internazionale, per conto della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, al processo di Madrid del 1997 contro Herri Batasuna)

    * Per quanto riguarda Rao, va aggiunto che il titolo stesso dei suoi libri (“La fiamma e la celtica”,“Il sangue e la celtica”…) contribuisce ad alimentare l’equivoco.

    **dati i rapporti intercorsi tra fascisti italiani latitanti a Londra e servizi segreti inglesi, non si escludono tentativi di infiltrazione nel movimento repubblicano.

    *** Oltre agli interventi non richiesti di Borghezio, noto estimatore dell’ascia bipenne, va ricordato un episodio legato alla Falange (la versione italica, non libanese o spagnola). La misteriosa organizzazione parastatale, responsabile negli anni novanta di operazioni che puzzavano di provocazione e servizi segreti, diffuse un comunicato (l’originale mi venne fornito dall’allora senatore Francesco Bortolotto, dei Verdi) in cui si minacciavano i sindaci veneti contrari all’Alta Velocità. Era firmato con la sigla della Falange e una strana aggiunta, un inesistente “gruppo Veneto-Euscadi”, scritto con la “C”. Da notare che in euskara, la lingua basca, questa lettera non esiste, sostituita regolarmente con la “k”. All’epoca, in un articolo cofirmato con Giovanni Giacopuzzi, feci notare la stranezza e suggerii la natura provocatoria del testo (“strategia della tensione a bassa intensità”?). Altra evidente incongruenza, la sinistra abertzale basca si è sempre mobilitata contro l’Alta Velocità (“AHTrik EZ, emaiezu botea!!”).

    ****Pare che il commando responsabile dell’azione del 20 ottobre contro Karl Hotz provenisse da Parigi e fosse composto da Gilbert Brustlein, Marcel Bourdarias e da un ex membro delle Brigate Internazionali, Spartaco Guisco.
    In precedenza il 21 agosto, a Parigi alcuni membri dei Bataillon de la Jeunesse, guidato da Pierre Georges (comandante Fabien), avevano ucciso un esponente della Kriegsmarine, Moser, alla stazione del métro Barbès per vendicare due compagni fucilati il 18 dopo aver partecipato ad una manifestazione del P.C.F.

    *****breve nota quasi storica
    Dopo Alesia e l’imprigionamento di Vercingetorix (assassinato a Roma sei anni dopo), la resistenza organizzata dei Galli contro Roma sembrò esaurirsi nel 51 a.C. A Uxellodunum, Giulio Cesare fece tagliare le mani agli ultimi irriducibili. Gutuater, considerato il capo religioso della ribellione, venne ucciso dopo atroci torture. Nel 21 d.C. scoppiò una rivolta guidata da Julius Sacrovir che, sconfitto, morirà gettandosi tra le fiamme per non consegnarsi ai romani. Nel 69 d. C. è Civilis a ribellarsi con la propria guarnigione. Al suo fianco, oltre a molti druidi, una profetessa, Velléda e due eminenti cittadini di Langres, Julius Sabinus e la sua sposa Eponina. Divisioni interne tra i Galli, oltre alla diffidenza della popolazione nei confronti di Civilis e degli altri capi della rivolta, porteranno all’ennesima sconfitta. Trascinati a Roma, Sabinus e la moglie verranno fatti uccidere da Vespasiano e i loro figli affidati a famiglie romane. Per altri due secoli in Gallia regnerà la “pax romana”. Nel 258 franchi e alemanni, popolazioni germaniche, varcano il Reno e invadono la Gallia. A migliaia i contadini fuggono nelle foreste dove per sopravvivere costituiscono gruppi armati, le bagaudes. Tra i loro capi emerge Elien. Quando l’imperatore Diocleziano invia truppe con l’incarico di sterminare questi ribelli, Elien stringe un’alleanza con Amandus, comandante di origine gallica della guarnigione di Bourges. Dopo la morte di Elien, anche Amandus viene sconfitto e ucciso nel corso di una battaglia sulle rive della Loira. Mentre l’impero romano va disgregandosi, la Gallia subisce nuove invasioni di vandali, burgundi, visigoti e ancora franchi. Nell’ultimo giorno dell’anno 406, vandali, svevi e alani valicano il Reno ghiacciato. Entrati in Gallia, devastano Tournai, Amiens e Arras. Dietro di loro, ancora burgundi e alemanni. Nel 451 anche gli unni superano il Reno, dopo averne “trasformato le foreste della riva in barche” invadendo la Gallia settentrionale. Guidati da Attila, saccheggiano Colmar, Strasbourg, Reims, Besancon e Arras. A Lutezia, la popolazione invece di fuggire organizza la resistenza. Attila si allontana e si dirige verso Orleans che per più di un mese resisterà all’assedio. Il 14 giugno 451, mentre inizia il saccheggio, arriva l’esercito del generale romano Aetius, formato in gran parte da mercenari e da alleati visigoti. Sconfitto, Attila si rifugia a Chalons-sur-Marne (Campi Catalaunici). Con questa battaglia (21 giugno 451) rimangono sul terreno circa sessantamila cadaveri (secondo alcuni autori quasi il triplo) e comincia il declino del “flagello di Dio”. In Occidente si formano vari regni romani-barbarici: visigoti, ostrogoti e, in Gallia, il regno dei franchi.
    Il resto è storia nota. Da Childerico (capostipite dei Merovingi) a Clovis (Clodoveo I, 465-511). Dopo la sua morte il regno venne diviso in Austrasia, Neustria e Burgundia. Da Charles (Carlo, “dux et princeps francorum”, soprannominato Martello per aver sconfitto pesantemente i saraceni a Poitiers nell’ottobre 732), figlio del maggiordomo d’Austrasia Pépin d’Heristal (Pipino II capostipite dei Carolingi) a Pépin nominato re da un’assemblea di nobili e vescovi nel novembre 751 e morto nel settembre 768. Nel 772 suo figlio Carlomagno organizzerà la sua prima spedizione contro i sassoni. Dieci anni dopo, la più sanguinosa. Oltre alla decapitazione di 4500 sassoni che rifiutavano di abbandonare la religione tradizionale e convertirsi al cristianesimo, almeno 10mila saranno deportati in Gallia e in altre regioni della Germania.
    G.S.

  2. Gianni Sartori ha detto:

    GIU’ LE MANI DALL’IRLANDA
    (Gianni Sartori)

    …dove, compatibilmente con le possibilità dell’autore, si cercherà di spiegare come la soi disant “croce celtica” sia stata adottata dalle formazioni di estrema destra in quanto simbolo dei collaborazionisti francesi (per cui sarebbe opportuno definirla “croce cerchiata delle ss francesi”) dando nel contempo qualche indispensabile informazione sulla Resistenza del popolo francese all’occupazione nazista…
    L’ambigua vicenda del “sidro Bobby Sands” messo in commercio un paio di anni fa da Casa Pound, non era certo il primo (e nemmeno, temo, l’ultimo) tentativo di appropriazione indebita della causa repubblicana irlandese.
    Un libro pubblicato nel 2010 aveva fornito ad alcuni personaggi di destra l’occasione per strumentalizzare le lotte del popolo irlandese. Si tratta de “Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese” (Castelvecchi ed.) di Silvia Calamati, Laurence McKeown e O’Hearn.
    Sciopero della fame fino alle estreme conseguenze. La forma di lotta adottata da Sands e altri nove prigionieri repubblicani, come mi spiegava nel 1986 Domhnall De Brun (insegnante di gaelico a Derry, anarchico e figlio di un internazionalista irlandese volontario in Spagna) “più che un richiamo al diritto tradizionale, rappresentava un atto politico all’interno di un processo collettivo di liberazione”. L’introduzione dell’internamento a tempo indeterminato risaliva al 1971. Nel 1976 venne revocato lo status di prigionieri politici e da quel momento i repubblicani arrestati finirono segregati nei Blocchi H. Nel 1978, vedendo lo stato di degradazione in cui vivevano, l’arcivescovo Tomàs O’Fiaich dichiarò che “lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni”. Il 27 ottobre 1980 iniziava uno sciopero della fame che, dopo una sospensione in dicembre, riprenderà nel marzo 1981. Bobby Sands muore il 5 maggio. Tra maggio e agosto del 1981 la stessa sorte toccherà ad altri nove prigionieri: Francis Hughes, Raimond McCreesh, Patsy O’Hara, Joe Mc Donnel, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kieran Doherty, Thomas McIlwee, Micki Devine. Sette hunger strikers appartenevano all’Irish Republican Army (Ira), gli altri tre all’Irish National Liberation Army (Inla). Uno dei tanti diffusori di retorica benevola sui fascisti nostrani, Nicola Rao, scrive impropriamente “Bobby Sands e dopo di lui altri 15 detenuti dell’Ira morirono di fame…”. Almeno due dati imprecisi, l’appartenenza all’Ira di tutti i prigionieri e il numero dei morti. Poco più avanti, alimentando l’equivoco sulle affinità tra neofascismo e lotta di liberazione irlandese, riporta che nel 1981“i muri di molte città italiane furono coperti da manifesti e scritte, tutti firmati rigorosamente con una croce celtica, di solidarietà e di appoggio alla causa dei repubblicani irlandesi”. Falso. Manifesti e scritte erano soprattutto di sinistra (autonomi, “Lotta continua per il comunismo” etc). Quelli di Terza Posizione (TP, estrema destra), erano firmati con la runa “dente di lupo” (detta anche “nodo di rune”). E’ disponibile in proposito un’ampia documentazione fotografica.
    La runa “dente di lupo”, di origine germanica, non celtica, esiste sia in versione verticale (in araldica) che orizzontale (quella di TP). Nella seconda guerra mondiale venne utilizzata da varie bande criminali naziste: 2° divisione SS Das Reich; 4° Divisione SS Polizei; 34° Divisione SS Volunteer Grenadier landstorm Nederland, oltre che dalla Hitlerjugend e dal NS-Volkswohlfahrt. Oltre che da TP, è stata adottata da altri gruppi neonazisti: Aktion nationale Sozialisten/nationale Aktivisten (ANS/NA); Junge Front (JF) del Volkssozialistische bewegung deutschalands (VSBD); Wiking-Jugend; Vitt Ariskit Motstand (la svedese “Resistenza Bianca Ariana”). *

    Uno dei tre autori de “Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese”, Laurence Mc Keown, è rimasto per sedici anni prigioniero a Long Kesh. Destinato a diventare l’undicesima vittima, il suo sciopero della fame si interruppe al settantesimo giorno. Quando ormai era già in coma, i familiari acconsentirono a farlo alimentare artificialmente (dopo che le richieste dei prigionieri erano state accettate nella sostanza).

    Nel 1994 lo avevo incontrato durante un dibattito organizzato dalla “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli” (Fondazione Lelio Basso). Ci aveva spiegato che “sarebbe praticamente impossibile capire perché siamo arrivati a questa decisione senza conoscere cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti. Le condizioni dei prigionieri erano brutali e nessuna forma di protesta sembrava in grado di modificarle. Vedere con i nostri occhi la dura repressione subita dai detenuti non faceva altro che rafforzare le nostre convinzioni. Dato che il governo britannico tentava in tutti i modi di criminalizzarli, di farli apparire come delinquenti comuni “dovevamo ribellarci per dimostrare che le nostre scelte e le nostre azioni erano politiche, non criminali”. Una decisione che non fu certo presa alla leggera. “Per quanto mi riguarda -aveva concluso – ero ben consapevole che questo sciopero sarebbe stato portato fino alle estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista dei volontari non sapevamo quando sarebbe venuto il nostro turno, chi sarebbe morto e chi sarebbe sopravvissuto…”.
    I tentativi della “nuova destra” di appropriarsi della lotta di liberazione nazionale del popolo irlandese non si esaurirono nel 1981. E’ noto che alcuni neofascisti (Walter Sordi, Enrico Tommaselli…) vennero arrestati con in casa manifesti e giornali repubblicani (“An Phoblacth”) e libri su Bobby Sands. Sdoppiamento della personalità o semplice confusione ideologica? ** Nelle loro latitanze britanniche venivano aiutati da elementi del National Front (partito razzista di estrema destra) sostanzialmente schierato con le squadre “lealiste”, protestanti-filoinglesi, quelle che periodicamente si rendevano responsabili di omicidi settari nei confronti di qualche cattolico. Inoltre i “lealisti” erano in ottimi rapporti anche con la Ruc (Royal Ulster Constabulary), la polizia nordirlandese che forniva gli elenchi dei sospetti militanti repubblicani da eliminare. I legami tra l’estrema destra inglese (oltre al Nf, il British National Party, il Greater British Movement, la League of St. George e C18) e l’estrema destra protestante dell’Ulster si resero evidenti il 15 febbraio 1995, a Dublino, durante un’amichevole tra le nazionali di calcio di Inghilterra e Irlanda. La partita si svolse tra saluti nazisti, slogan contro l’Ira e cori contro gli accordi di pace. Si concluse con lanci di oggetti contro il pubblico irlandese e violenti scontri. Bilancio: una cinquantina di feriti e la morte di un tifoso irlandese. Molti hooligans, i tifosi britannici più esagitati, facevano parte di organizzazioni neonaziste (compresa C18; C per Combat, mentre il numero indica la prima e l’ottava lettera dell’alfabeto, le iniziali di Adolf Hitler). Ma, oltre alle organizzazioni britanniche, i “lealisti” nordirlandesi ne frequentavano anche altre di estrema destra. Esistono prove fotografiche di miliziani dell’Ulster volunteer force (Uvf) presenti a qualche manifestazione in Belgio insieme a neonazisti fiamminghi e a quelli francesi di Ordre Nouveau.
    LA CROCE CERCHIATA DELLE SS FRANCESI
    Riconoscibili questi ultimi perché usavano la cosiddetta (tre volte cosiddetta quando è quella adottata dai fascisti) “croce celtica”. In realtà il simbolo (denominato “celtica” solo in epoca recente, non alle origini) ricorda una runa (anche se i neofascisti lo escludono) e venne utilizzato dai francesi collaborazionisti della brigata, poi divisione, Charlemagne durante la seconda guerra mondiale. Forse sarebbe più corretto denominarla “croce cerchiata delle ss francesi”. Nessuna parentela con le vere croce celtiche che svettano sulle antiche tombe irlandesi (espressione di un sincretismo tra cristianesimo e religione tradizionale gaelica) e anche su molte tombe di volontari dell’Ira e dell’Inla morti in combattimento.
    Utilizzata dal Fronte della gioventù (Fdg) negli anni settanta, ben sapendo quale fosse il riferimento al nazismo e al collaborazionismo (un simbolo di continuità), venne proibita dallo stesso leader del MSI, Giorgio Almirante.
    In Italia la “croce cerchiata delle ss francesi” era stata adottata nei primi anni sessanta da Giovane Europa (in precedenza Giovane Nazione), filiale italiana del movimento Jeune Europe (in precedenza Jeune Nation) fondato da Jean Thiriart che aveva combattuto nelle waffen-ss . A questo movimento, nel 1963, aderirono un gruppo di missini fiorentini (Attilio Mordin, Franco Cardini, Marco Bersacchi, Amerino Griffini…) e qualche ordinovista (Massimo Marletta…). In quello che sembra un attacco di autorevisionismo, uno dei soci fondatori sosteneva che fu per “allontanarsi dalla lugubre e bellicosa simbologia neofascista e neonazista” (…e per questo adottavano un simbolo delle waffen ss?!?). In realtà sembrerebbe piuttosto un modo per rivendicare proprio quelle origini, quella appartenenza, senza insospettire l’opinione pubblica e nel contempo strizzare l’occhio agli iniziati. In precedenza il simbolo sarebbe stato inalberato dalle italiche Formazioni Nazionali Giovanili. Sempre di destra, ovviamente. Attorno al 1975 venne sistematicamente adottato dalle organizzazioni giovanili missine (Fdg e Fuan), mentre qualche anno prima i rautiani lo avevano proposto al MSI con l’aggiunta di una fiamma tricolore sullo sfondo.
    Cardini suggeriva un legame anche con la “francisca” stilizzata del Parti populaire francais (Ppf ) di Jacques Doriot. Facendo il finto tonto, lo storico sorvola sul fatto che la Francisque nella versione bipenne, con lame tricolori e manico costituito dal baton de marèchal (quello di Petain, ovviamente) venne prescelta come emblema del regime collaborazionista di Vichy. Nelle intenzioni, forse, avrebbe dovuto ricordare l’iconografia dei fasci littori mussoliniani. E di sicuro non venne adottata per caso come logo da Ordine Nuovo (quello italico, mentre i loro omologhi francesi di Ordre Nouveau usavano, come già detto, la “croce cerchiata delle ss francesi”). Per gli amanti della storia, va ricordato che la “francisca” era la scure da lancio dei germani occidentali (in pratica un grande tomahawk), introdotta in Gallia dai Franchi (così chiamati, pare, dal nome dell’arma e non viceversa), da cui il nome Francia. Fermo restando che i Franchi erano “germani” e non “celti”, come invece i Galli. Nessuno metterebbe in discussione il fatto che i celti britanni furono invasi dai germanici angli e sassoni. Analogamente, dopo quella romana, i celti della Gallia subirono l’invasione di varie popolazioni germaniche.**** La più duratura fu quella dei Franchi, definitivamente consolidata con Clodoveo, Carlo Martello e Carlo Magno.
    Mentre le vere croci celtiche testimoniano della relativamente pacifica diffusione del cristianesimo tra le popolazioni irlandesi, il Carlomagno è passato alla storia per aver sterminato alcuni popoli (come i Sassoni) che non volevano convertirsi al cristianesimo. E sorvoliamo su Roncisvalle, sacrosanta ritorsione dei Baschi al saccheggio di Irunea (Pamplona) operato dai soldati di Carlomagno. Altro che “paladini della cristianità” contro i musulmani (che a Roncisvalle non c’erano proprio). Ma questa è un’altra storia. Così come sarebbe un’altra storia il ruolo dei fascisti italiani nelle squadre della morte parastatali (Ate, Battaglione vasco-spagnolo, Gal…) contro la sinistra indipendentista basca. Sia in epoca franchista che dopo.***
    Tornando a Cardini, lo storico fiorentino ammetteva, bontà sua, “un legame sentimentale con il fascismo letterario francese, ma – minimizzava – si tratta di quello a cui aderì Pierre Drieu la Rochelle”. Un noto scrittore collaborazionista. Definirlo, come si inventa Cardini “molto vicino all’estrema sinistra” è demenziale, oltre che vergognoso. Basti ricordare che nell’ottobre del 1941, insieme a Brasillach, Chardonne, Jouhandeau e altri scrittori francesi, Drieu la Rochelle accolse l’invito di Goebbels e prese parte ad un “Congresso degli intellettuali europei” in Germania. L’incontro si concluse con una visita-premio alla Cancelleria del Reich. Nel 1945, arrestato dalla Resistenza francese, l’autore di Socialisme fasciste, preferì il suicidio alla fucilazione.

    “CHANTEZ, COMPAGNONS, DANS LA NUIT LA LIBERTE’ NOUS ECOUTE”
    Scrivendo queste righe non vorrei aver dato l’errata impressione che la terra di Vercingétorix, Saint-Just e Louise Michel abbia contribuito ad alimentare il fascismo in proporzioni analoghe a quanto seppero fare Italia e Germania. In verità la resistenza del popolo francese contro le truppe tedesche di occupazione fu immediata, estesa e ampiamente condivisa, nonostante gli inevitabili casi di collaborazionismo.
    E la repressione, ovviamente, fu durissima.
    Tra i tanti massacri di cui si resero responsabili i nazisti e le milizie collaborazioniste, risalta per efferatezza quello dei “50 otages”, ricordati dall’omonimo monumento sull’Erdre a Nantes.
    Qui 48 francesi subirono la fucilazione per ordine di Adolf Hitler e del generale Otto von Stuelpnagel, comandante del “gross Paris”, come rappresaglia per l’uccisione del tenente colonnello tedesco Karl Hotz avvenuta il 20 agosto 1941 in place Louis XVI davanti alla Kommandantur. ****
    La lista degli ostaggi venne preparata dall’Alto comando tedesco insieme al governo collaborazionista di Vichy. Il ministro dell’Interno di Pétain, Pierre Pucheu, presentò una lista di 200 nomi di presunti comunisti internati nel campo di concentramento di Chateaubriant a cui il generale von Stuelpnagel aggiunse i nomi di alcuni esponenti della resistenza nantese. A Nantes, la Gestapo e la polizia francese collaborazionista rastrellavano da tempo decine di persone (giovani comunisti e socialisti, sindacalisti cattolici, membri della Jeunesse Ouvrière Catholique, senza partito…) per rinchiuderle nel campo di Chateaubriant. Il gruppo definitivo dei 50 ostaggi sarà composto da 27 comunisti, 18 resistenti detenuti a Nantes (prigione des Rochettes, prigione Lafayette…) e 5 nantesi incarcerati a Parigi.
    Il 22 ottobre del 1941, rifiutando di essere bendati, gli ostaggi vennero fucilati a gruppi di quattro; la maggior parte nel “champ de tir du Béle” di Nantes, altri nella cava della Sablière (all’uscita da Chateaubriant) e cinque al Mont-Valérien (Parigi) dove la medesima sorte era toccata il 29 agosto all’ufficiale di marina Honoré d’Estienne d’Orves e dove verrà giustiziato, il 15 dicembre, anche il giornalista comunista Gabriel Péri.
    Per un disguido nel coordinamento tra i servizi segreti, due ostaggi scamparono all’esecuzione.
    Una successiva esecuzione di altri 50 ostaggi, già prevista, venne sospesa per ordine di von Stuelpnagel preoccupato per l’indignazione suscitata in tutta la Francia. Negli stessi giorni altri cinquanta ostaggi venivano passati per le armi a Bordeaux come rappresaglia per un attentato.
    Sempre al Mont-Valérien, il 17 aprile 1942 vennero fucilati 23 resistenti dei Bataillons de la Jeunesse, giovani comunisti arrestati dalla polizia francese collaborazionista e consegnati ai tedeschi. Una loro compagna, Simone Schloss, in quanto donna venne invece decapitata il 2 luglio. Iniziato il 7 aprile alla Maison de la Chimie, il processo si era concluso con la richiesta di 26 condanne a morte. Uno degli imputati venne giudicato passibile soltanto della prigione in quanto non ancora sedicenne, ma suo padre e suo fratello vennero considerati “otages” e fucilati. Il verdetto venne salutato con favore dalla stampa collaborazionista che in precedenza aveva ripetutamente insultato gli accusati. Gli stessi giornali su cui scrivevano Drieu la Rochelle, Chardonne, Jouhandeau, Céline…Quanto a Robert Brasillach, divenne addirittura direttore di uno dei giornali riapparsi con la loro vecchia testata, ma al servizio dei tedeschi. Altri direttori di giornali collaborazionisti: Marcel Déat, Jacques Doriot, Jean Luchaire, Lucien Rebatet…
    Tutti complici dell’occupante nazista che intanto applicava anche in Francia la “soluzione finale” per gli ebrei. Il 16 e il 17 luglio 1942, alle quattro del mattino, circa 13mila ebrei vennero arrestati dalla Gestapo a Parigi. Radunati al “vélodrome d’hiver”, vennero poi inviati in Germania per finire nei campi di sterminio.
    Il 15 gennaio 1943 si apriva il “processo dei 42”. Temendo di alimentare ulteriormente lo sdegno con cui l’opinione pubblica aveva reagito alle fucilazioni del 1941, sia il governo servile e collaborazionista di Vichy (guidato dal marèchal Pétain) che gli occupanti tedeschi cercarono di dare una qualche legittimità a questo ennesimo massacro. Alcuni dei 143 arrestati vennero rilasciati, altri deportati, mentre 45, accusati di essere francs-tireurs e membri di un’organizzazione comunista, compariranno davanti al tribunale militare tedesco di Nantes. Il verdetto (37 condanne a morte) viene reso pubblico il 28 gennaio. Alla lettura della sentenza Henri Adam intonò la Marseillaise ripresa con vigore da tutti i condannati. Il giorno dopo (senza attendere il ricorso degli avvocati) al champ de tir du Béle vennero fucilati i primi nove prigionieri poi sepolti a Sautron.
    Il 13 febbraio 1943 altri 25 dei condannati del 28 gennaio vennero giustiziati, mentre gli ultimi tre (Le Paih, Brisson e Coiffé) cadranno sotto i colpi di un plotone di esecuzione tedesco il 7 maggio.
    In agosto è la volta di Marcel Hatet, morto per le torture subite nell’hotel de Charette, place Louis XVI, a Nantes. Nel gennaio 1943 era stato invece decapitato in una prigione tedesca (a Colonia) il religioso Jean-Baptiste Legeay, condannato a morte con 27 bretoni nel luglio dell’anno precedente.

    Contemporaneamente a quello dei “42”, un processo analogo si era svolto a Rennes contro 29 comunisti guidati da Edouard Hervé, fratello di Raymond. Entrambi verranno fucilati a circa un mese di distanza l’uno dall’altro.
    In piena occupazione tedesca di Parigi, il poeta armeno Missak Manouchian, ex operaio alla Citroen, venne incaricato dalla Internazionale comunista di costituire un gruppo clandestino nella capitale. Ne faranno parte giovani polacchi, ungheresi, italiani, cechi, spagnoli, rumeni. Dopo una prima fase dedicata alla distribuzione di volantini contro traditori e collaborazionisti, il gruppo (definito a posteriori un “fronte popolare di immigrati”) iniziò a colpire direttamente le truppe di occupazione. Di questi resistenti (oltre a Manouchian, Simon e Marcel Raynan, Thomas Elek…) 22 verranno fucilati al Monte-Valérien il 21 febbraio 1944. Quindici giorni dopo una donna membro del gruppo sarà decapitata a Stoccarda.
    Come hanno ricordato Ramòn Chao e Ignacio Ramonet (Guide de Paris rebelle, Plon 2008) dal febbraio 1999 in rue Groupe-Manouchian 36 (Parigi, 20° arrondissement) è possibile leggere il “Manifesto rosso”scritto da Louis Aragon per celebrare questi martiri della Resistenza. Il nome deriva dal manifesto rosso (stampato in più di 15mila esemplari) affisso sui muri di Parigi il 1 marzo 1944 dalla propaganda nazista dove i partigiani fucilati venivano definiti “armèe du crime”.
    Sulla vicenda della 35° Brigata Ftp-Moi (Francs-Tireurs et Partisans-Main-d’Oeuvre Immigrée) Marc Levy, figlio di un esponente della brigata, ha scritto “I figli della libertà” (Rizzoli, 2008).
    Da Lucie Aubrac a France Bloch-Sérazin (decapitata il 12 febbraio 1943 a meno di 30 anni), da Charles Tillon alle deportate nacht und nebel Charlotte Delbo (arrestata dalla polizia francese collaborazionista nel 1942) e Germaine Tillion…, è una lista infinita quella dei cittadini francesi appartenenti al “peuple de la nuit” che osarono ribellarsi in nome della loro coscienza contro l’ordine imposto dagli invasori nazisti. Basti pensare a Jean Moulin, presidente del Consiglio nazionale della Resistenza e Compagnon de la Libération, torturato e assassinato dai nazisti nel 1943; a Bertie Albrecht già sostenitrice del Fronte popolare. Arrestata una prima volta nel 1942, riuscì ad evadere, ma venne nuovamente catturata nel maggio 1943 e morì nel carcere di Fresnes dopo essere stata torturata; allo studente Libertaire Rutigliano, torturato e assassinato sotto gli occhi del padre, nella sede della Gestapo in place Marèchal Foch, a Nantes (aprile 1944).
    Victor Basch, presidente della “Ligue des droits de l’homme”, presidente del “Comité pour le Rassemblement populaire” (da cui nacque il “Front Populaire”), venne assassinato con la moglie il 10 gennaio 1944 da alcuni miliziani collaborazionisti (tra cui Lécussan). In quanto ebreo e “franc-macon”, una sintesi di quanto i nazisti e i loro servi- come appunto i già citati Drieu la Rochelle e Brasillach – odiavano maggiormente.
    Tra i criminali di guerra si distinse l’ufficiale nazista Klaus Barbie. Il “macellaio di Lione” si rese responsabile della morte di centinaia di ebrei e di partigiani. Dopo la guerra fuggì in Sudamerica dove collaborò con vari regimi e con la CIA (avrebbe avuto un ruolo non secondario nella cattura di Ernesto Che Guevara) fino a quando nel 1983 non venne estradato in Francia e condannato all’ergastolo.
    Non mancarono poi stragi indiscriminate in stile Marzabotto. Nel giugno del 1944 a Oradour-sur-Glane la divisione di èlite SS “Das Reich” fece radunare tutti gli abitanti nella piazza. Vennero poi rinchiusi nella chiesa data alle fiamme.
    Mentre nel Vercors (luglio del 1944) era in corso una dura battaglia tra circa 8mila maquisards e più di 30mila tedeschi, coadiuvati dalle milizie collaborazioniste di Darnand, le SS distrussero Vassieux massacrando un’ottantina di abitanti. Qualche giorno dopo i nazisti scoprirono alcuni sopravvissuti nascosti in una grotta e completarono l’opera. Tra le vittime anche un gesuita e due medici che curavano i feriti.
    Nel febbraio 1945 i combattenti francesi guidati da De Lattre entreranno nel “campo di rappresaglia” di Struthof (nei Vosgi) completamente vuoto. In quello che sarà definito “l’enfer de l’Alsace” erano stati sterminati migliaia di resistenti.
    Come antidoto ai “legami sentimentali con il fascismo francese” rivendicati da qualche esponente nostrano della “Nuova Destra”, direi che può bastare.

    UN SIMBOLO DEI COLLABORAZIONISTI
    Si ritiene che la “croce cerchiata delle ss francesi”, adottata nel 1944 come mostrina speciale per i volontari francesi nelle waffen-ss della futura divisione Charlemagne, sia stata scelta in quanto “simbolo imperiale” usato prima da Costantino e poi da Carlomagno. Quindi, volendo cavillare, di origine o romana o germanica, non celtica. Comunque ottimo per il Terzo Reich!
    Fu adottata dalla “Compagnia Flak”, una unità della Charlemagne quando questa era ancora una brigata. La Flack venne impiegata a Monaco nella difesa contraerea e la Charlemagne combatté a Berlino attorno al bunker di Hitler. A voler essere pignoli, non è il simbolo in quanto tale ad essere scippato, ma la sua denominazione. Chiamarla “celtica” rappresenta un mascheramento sulla sua vera origine, oltre che un’offesa nei riguardi dei Celti. Brave persone, tutto sommato, in quanto si opposero valorosamente all’imperialismo romano.
    Chi ha scelto quel simbolo (insisto: la “croce cerchiata delle ss francesi”, abusivamente chiamata “celtica”) sapeva bene cosa rappresentava! Con il precedente storico della Charlemagne posta a difendere il bunker di Hitler, appare chiaro perché nell’immediato dopoguerra diventasse l’emblema preferito delle organizzazioni francesi neonaziste e neofasciste che, idealmente, da quel bunker intendevano ripartire. Un ex appartenente alla Charlemagne, René Binet, editore del bollettino Le combattant europeèn (un esplicito richiamo alla pubblicazione dei volontari francesi nelle SS) e di testi apertamente razzisti come Thèorie du racisme e Contribution à une èthique raciste,lo riesumò per identificare alcuni movimenti via via fondati. Nel 1946 il Parti republicain d’union populaire e successivamente l’ambiguo (anche nel nome) Mouvement socialiste d’unité francaise sciolto nel 1949 per “incitamento alla violenza razzista”. Nello stesso anno divenne il logo di Jeune Nation. Fondata dai fratelli Sidos, Jeune Nation propugnava uno stato totalitario inspirato al fascismo e si distinse per le sue spedizioni squadristiche contro le sedi dei partiti di sinistra. Negli anni cinquanta rappresentò l’approdo di molti veterani della guerra coloniale di Indocina. Venne sciolta dal governo nel 1958 dopo un attentato contro l’Assemblea Nazionale. Il simbolo venne utilizzato anche in Belgio dal Pnf. In Francia venne ripreso dal Parti Nationaliste costituito nel 1958 dai reduci di J.N. e in seguito dal Front de l’Algerie francaise e dal Front national pour l’Algerie francaise sotto la guida di Jean- Marie Le Pen. La maggior parte degli aderenti entrerà poi nell’Organisation de l’armèe secrète (Oas), l’organizzazione dei pieds-noirs, i coloni francesi in Algeria. Il gruppo terroristico contrario alla decolonizzazione, venne fondato a Madrid nel 1961 da Jean-Jacques Susine e Pierre Lagaillarde. Passerà alla storia, tra gli altri misfatti, per il putsch d’Algeri (v. il generale Salan). Ogni slogan tracciato dall’Oas sui muri di Algeri era regolarmente accompagnato dalla “croce cerchiata delle ss francesi”. A causa degli attentati dell’Oas, tra il maggio 1961 e il settembre e il settembre 1962, vennero uccise circa 2700 persone, di cui 2400 erano algerini. Da una costola dell’Oas nacque a Lisbona l’Aginter Press che operò soprattutto in Africa inviando fascisti francesi, belgi e italiani (tra cui Concutelli) e agenti segreti (portoghesi e statunitensi) in Congo, Angola e Namibia (invasa dall’esercito del Sudafrica che vi aveva introdotto l’apartheid) contro le lotte di liberazione di Frelimo, Paigc, Anc, Mpla, Swapo…
    In collaborazione con la CIA e con il regime portoghese, l’Aginter Press si rese responsabile nel 1969 dell’assassinio di Eduardo Chivambo Mondlane, presidente del Frente de Libertacao de Mocambique (Frelimo) e nel 1973 di quello di Amilcar Cabral, segretario generale del Partido Africano da Independencia da Guiné Bissau e Cabo Verde (PAIGC). Dopo il 1975, miliziani europei presero parte ai massacri operati dall’esercito di Pretoria in Namibia e Angola e non si esclude poi una partecipazione dell’Aginter Press all’assassinio delle esponenti antiapartheid Ruth First e Janette Curtis (entrambe con un pacco-bomba) che si erano rifugiate, rispettivamente, in Mozambico e Angola. Come è noto l’Aginter Press svolse un ruolo non indifferente nella “strategia della tensione” che insanguinò l’Italia da Piazza Fontana in poi.
    Intanto nell’Esagono il controverso simbolo veniva ereditato da Ordre Nouveau. Attualmente quella che andrebbe sistematicamente definita “croce cerchiata delle ss francesi” viene chiamata Keltenkreuz (“croce celta”) dai gruppi tedeschi che la utilizzano al posto della svastica con l’aquila nazista sovrapposta. Esistono poi altre denominazioni, più o meno pittoresche e new age. Per quanto mi riguarda, ripeto, l’autentica “croce celtica”, è solo quella storica di cimiteri, chiese, manoscritti e murales irlandesi.
    Nelle manifestazioni di Forza Nuova (erede di Terza Posizione ?) sono ricomparsi altri simboli inseriti nel cerchio bianco della bandiera rossa (identica a quella nazista e a quella dei razzisti sudafricani con svastica a tre braccia). Oltre alla “croce cerchiata delle ss francesi” sono state riesumate la runa “dente di lupo” (wolf sangel) già usata da Tp e quella adottata da Avanguardia nazionale (l’organizzazione di Stefano Delle Chiaie). Il simbolo di Avanguardia nazionale sarebbe la “runa Othala” (Runa di Odal, Odalrune, di matrice scandinava, non celtica). Nell’originale, un rombo con i lati inferiori allungati. I seguaci di Delle Chiaie la disegnavano con i lati inferiori allungati e ritorti, nella versione già utilizzata dalle Waffen-ss “SS Gebirg-Division Prinz Eugen”, mentre i fascisti cileni degli anni settanta (quelli che favorirono il golpe di Pinochet) la utilizzavano nella forma originale.
    Una runa identica a quella di Avanguardia nazionale, ma rovesciata con le punte verso l’alto, identificava il Rassemblement national populaire (RNP) di Marcel Déat (fucilato dopo la Liberazione) che, insieme al Parti populaire francais di Jacques Doriot (v. l’osservazione di Cardini sulla “francisca”), costituì nell’agosto 1941 la Légion des volontaires francais contre le bolchevisme per inviare combattenti francesi sul fronte dell’Est a fianco dei nazisti. Come ho detto, anche l’ascia bipenne adottata da “Ordine Nuovo” (Rauti, Signorelli, Concutelli) era un simbolo del collaborazionismo francese (identica a quella del maresciallo Petain e di Vichy), sebbene gli ordinovisti cercassero di nobilitarla con richiami agli etruschi o all’antica civiltà cretese. Probabilmente, vietati l’uso della svastica e del fascio littorio, i nostalgici nostrani ricorrevano ad una forma di mimetismo (camouflage) prendendo in prestito la simbologia dei loro camerati d’oltralpe. L’origine di questa importazione andrebbe cercata nei rapporti tra neofascismo italiano e gruppi della destra francese (oltre a Jeune Europe anche Lutte du Peuple), specializzati nell’opera di “intossicazione” a sinistra usando la carta dell’antimperialismo e della liberazione nazionale. Niente male per gente che aveva collaborato con l’OAS contro gli indipendentisti algerini!
    FASCISTI CON “AL KATAEB”
    Stando a quanto scrivono gli interessati, alcuni esponenti di Jeune Europe sarebbero andati in Libano per combattere con l’OLP. Invece, come è noto, i fascisti italiani (non solo quelli dei NAR, i Nuclei armati rivoluzionari, di estrema destra, legati ai servizi e, forse, braccio armato della P2.) in genere si schieravano con al-Kataeb (la Falange), il partito dei maroniti di destra, fondato nel 1936 da Pierre Gemayel al suo ritorno da un viaggio nella Germania nazista. Secondo Stuart Christie (“Stefano delle Chiaie – Portrait of a black terrorist“, anarchy magazine/refract publications, London 1984) avrebbero preso parte ad azioni contro i palestinesi (viene citato Walter Sordi). Mario Caprara e Gianluca Semprini, autori di “Destra estrema e criminale” (Newton Compton ed. 2009), nel capitolo dedicato ad Alessandro Alibrandi, riportavano un’intervista di Panorama a Signorelli, recentemente scomparso. Secondo Signorelli: “i valorosi camerati italiani hanno aiutato la milizia di Gemayel combattendo al loro fianco nella battaglia di Tel Znatar (sic)”.
    E’ possibile che i due autori abbiano fatto un po’ di confusione e citato l’intervista sbagliata. Probabilmente Signorelli parlava degli avvenimenti di Tel al Zaatar (nel settore cristiano di Beirut) che risalgono al 12 agosto 1976. All’epoca dell’intervento militare della Siria in Libano (in favore dei falangisti) Alibrandi si trovava ancora in Italia. Comunque, più che di una battaglia bisognerebbe parlare di assedio (durato 52 giorni) e di un brutale massacro. Anche nei confronti dei feriti, nonostante l’intervento della Croce Rossa. A Tel al Zaatar l’esercito siriano (penetrato in Libano nel giugno 1976) si comportò come qualche anno dopo quello israeliano a Sabra e Chatila, con un ruolo di copertura e appoggio ai miliziani maroniti cui toccò il lavoro sporco. Resta l’incertezza sul numero esatto delle vittime, da 1500 a 3000. Con i falangisti, oltre ai neofascisti italiani, militanti francesi dei Groupes d’Action Jeunesse, spagnoli di Fuerza Jòven, fiamminghi del Vlaamsa Militantenorde (Vmo) e tedeschi di estrema destra dell’organizzazione di Karl Heinz Hoffman. Dalla parte dei palestinesi, baschi e irlandesi, presumibilmente legati all’Eta e all’Ira. Durante l’operazione “Pace in Galilea” alcuni combattenti irlandesi vennero catturati dall’esercito israeliano e consegnati alla Corona britannica.
    Molti repubblicani irlandesi avevano combattuto nelle Brigate Internazionali durante la Guerra Civile spagnola. Alcuni sono ricordati nella lapide per i caduti della battaglia di Brunete (8-9 luglio 1938), altri (come Tommy Patten, caduto a Madrid verso la fine 1936, quasi contemporaneamente a Buenaventura Durruti) al memoriale dell’isola di Achill in Irlanda.
    Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Irish Republican Army addestrava militarmente, contro gli inglesi, gli ebrei scampati all’Olocausto. Tutto questo va ribadito per ridimensionare l’entità, ampiamente sovradimensionata dalla destra, sui rapporti (in chiave anti-inglese) intercorsi tra alcuni elementi repubblicani e i servizi segreti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. Due esponenti dell’Ira, catturati dai franchisti mentre combattevano con le Brigate internazionali, sarebbero stati rimpatriati grazie all’intervento tedesco (forse con un sommergibile). Alcune azioni dell’Ira a Londra durante la “battaglia d’Inghilterra” hanno alimentato l’ipotesi di una possibile collaborazione con la Germania.
    L’ossessione di certa destra (da On a Tp, fino a “Forza nuova”) di accreditarsi nei confronti delle lotte di liberazione nazionale è stata, in genere, mal corrisposta. Ancora nel 1985, avevo chiesto a Bernadette Devlin la sua opinione in merito alla simpatia dimostrata dalla cosiddetta “destra radicale” per la causa irlandese. Mi rispose che “di sicuro sono simpatie a senso unico”.
    Con la presentazione ufficiale del libro di Calamati, McKeawn e O’Hearn sotto le insegne del Parlamento europeo la vecchia questione è tornata di attualità. A fare gli onori di casa la vicepresidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli, in gioventù vicina a Terza posizione, poi Segretaria del Fronte della gioventù e deputata europea di An dal 1994. Angelilli è grande amica di Andrea Insabato, il personaggio che il 22 dicembre 2000 rimase ferito nell’esplosione della propria bomba davanti alla redazione de il Manifesto sulle scale della vecchia sede di via Tomacelli.
    Un episodio che evocava un altro attentato fascista dell’aprile1973. Nella toilette del treno, il sanbabilino Nico Azzi (con doppia militanza nel Msi e ne “La Fenice” di Rognoni, legata a ON) si fece esplodere un ordigno tra le gambe. Non prima di essersi fatto notare in giro per il treno con Lotta continua in mano. Ai suoi funerali, nel 2007 in Sant’Ambrogio di Milano, erano presenti sia Forza Nuova che i fratelli Larussa.
    Durante la sua permanenza al Policlinico Gemelli e in carcere (molto breve, anche perché quelli del Manifesto, forse mossi a compassione, non si costituirono parte civile), Insabato ha scritto un memoriale dove trova il tempo per vantarsi delle sue “duecento conquiste di letto”. Numerose, precisa, anche durante la latitanza londinese (vedi sopra).
    Il “paladino di Dio” (per autodefinizione) ricordava affettuosamente l’amica Roberta Angelilli, la sua “prima tifosa di tutte le udienze” nei processi che lo vedevano imputato in quanto esponente di Terza Posizione (capozona alla Balduina).
    L’Angelilli è nota per aver definito i partigiani “assassini”, non riuscendo evidentemente a cogliere l’analogia tra la lotta di liberazione del 1943-45 contro i nazisti e quella irlandese contro l’occupazione britannica (e nemmeno l’analogia tra i fascisti repubblichini e i collaborazionisti “lealisti” protestanti). Dal libro di Caldiron “La destra plurale” (manifestolibri 2001), si ricava che porta al collo una “croce cerchiata delle ss francesi”. D’argento, noblesse oblige.
    Nel memoriale Insabato ricordava altri amici suoi: Morsello (cofondatore di Forza nuova), Rauti, Gasparri, Bontempo, oltre a qualche esponente dei Nar come Alessandro Alibrandi e Giorgio Vale.
    L’attentato a il manifesto potrebbe essere stato diretto in particolare contro Stefano Chiarini che si occupava della questione palestinese e con cui Insabato cercava da tempo di entrare in contatto. In precedenza Chiarini si era dedicato all’Irlanda, sia come editore che come giornalista. La sua Gamberetti Editrice ha pubblicato “Strade di Belfast” di Gerry Adams e alcuni romanzi (“La seconda prigione”) di Ronan Bennet, un ex prigioniero politico repubblicano.
    Oltre ad aver pubblicato sul “quotidiano comunista” decine di articoli riguardanti la questione irlandese, Chiarini aveva collaborato alla realizzazione di un dossier (“La verità la prima vittima”, supplemento al n.1 de “I diritti dei popoli”, 1985) sulle violazioni dei diritti umani in Irlanda del Nord. Insieme a Gianni Palumbo, Giovanni Bianconi e Silvia Calamati, autrice di Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese.

    Sempre in materia di coincidenze. Alla presentazione del libro su Bobby Sands, insieme all’Angelilli, presenziava l’esponente di “Azione giovani” Tommaso della Longa, collaboratore di varie pubblicazioni di estrema destra tra cui “Area” e “Rinascita” (in qualità di capo servizio esteri). Sul giornale della soi disant “Sinistra nazionale” (in realtà di estrema destra), si ironizza su clandestini, immigrati e sindacati di base. Elogi nostalgici invece per la “leggendaria” marcia su Roma del ’22. Della Longa collaborava anche a “Il Riformista”, almeno durante la direzione di Antonio Polito. Grazie ai buoni rapporti con Rocca, era diventato portavoce della Croce Rossa (v. i comunicati dell’Ufficio stampa della C.R). Se ne era parlato all’epoca dell’assunzione di alcuni neofascisti alla C.R. (segnalo su Indymedia “Sembra un ministero, è la Croce Rossa…uncinata”). Altra coincidenza, nel 2008 arrivava alla dirigenza della C.R. la moglie del Polito, Patrizia Ravaioli. .
    A questo punto, visto che qui si parla di hunger strikers, ricordo che l’Antonio Polito, ex direttore de “Il Riformista”, è quel personaggio che durante lo sciopero della fame del prigioniero antispecista Barry Horne (anarchico e negli anni ottanta militante dei gruppi di solidarietà con i prigionieri politici irlandesi) faceva dell’ironia nei suoi articoli pubblicati su “la Repubblica”. In sostanza diceva che stava fingendo, che mangiava di nascosto, che era un esaltato… Poi Barry Horne è morto nel modo che sappiamo. E Polito, che io sappia, non ha mai chiesto scusa. Ancora prima della morte di Barry, i suoi articoli mi erano apparsi “pilotati”. Coincidenze. O, forse, analogie.
    La vicenda di Sands e degli altri nove repubblicani morti nel 1981 ha rappresentato nel tempo una testimonianza contro le carceri speciali, contro la tortura e contro la legislazione d’emergenza. Un“grido contro l’ingiustizia”, così come la resistenza popolare, in tutte le sue molteplici forme, nei quartieri proletari di Derry e Belfast, dal Bogside a Falls road, tra gli anni sessanta e novanta.
    Le destre hanno tentato di appropriarsene come avevano fatto con le lotte contro il nucleare e contro la globalizzazione, con l’ecologia e, più recentemente, anche con la liberazione animale. Un gruppo animalista del nord-est, fondato da un ex di Forza Nuova, tentava di appropriarsi della memoria di Barry Horne, antispecista anarchico morto in carcere per le conseguenze di alcuni scioperi della fame contro la vivisezione. Al di là del folclore, a naso, si riconosce un metodo che ricorda le infiltrazioni degli anni sessanta. Ricorda anche alcune ambigue posizioni dei “Corpi franchi” in Germania nel primo dopoguerra,
    Sia ben chiaro. Siamo in democrazia, (anche se certamente non per merito dei fascisti) e, per quanto mi riguarda, ognuno è libero di usare i simboli che vuole. Ma senza ambiguità e chiamando le cose con il loro nome. Bobby Sands era comunque uno di sinistra, un compagno. I suoi riferimenti, oltre a Connolly e Pearse, sono stati Che Guevara, Malcom X e George Jackson (quello dei fratelli di Soledad), gli antifranchisti baschi come Txiki e Otaegi fucilati nel 1975. Non certo Codreanu o Degrelle. Non si può escludere che qualche militante di destra sia in buona fede quando esprime ammirazione per gli hunger strikers. In questo caso dovrebbe riconoscere che l’antimperialismo, l’amore per la giustizia e la libertà, il rispetto per le lotte di liberazione degli oppressi (di tutti gli oppressi, s’intende) sono incompatibili con le idee totalitarie, autoritarie e gerarchiche (anche quando si dicono “di sinistra”, Stalin docet). E quindi incompatibili con il fascismo.
    Cassandra mio malgrado, agli inizi del 2011 avevo scritto “ nel trentesimo anniversario della morte dei dieci hunger strikers, sarebbe inconcepibile dover assistere alla partecipazione di neofascisti e neonazisti alle commemorazioni. Dopo la presentazione ufficiale del libro“Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese” (comunque un buon libro) da parte di Roberta Angelilli, tutto diventa possibile”. Purtroppo avevo ragione: nel maggio 2011 alle manifestazioni in memoria di Bobby Sands e degli altri hunger strikers hanno partecipato i neofascisti di Casa Pound, a fianco degli inconsapevoli militanti del Sinn Fein, ostentando il manifesto con la foto di Bobby Sands e diffondendo poi le immagini su Internet.
    Ripeto, nessun dubbio sull’onestà intellettuale dei tre autori, ma forse qualcuno dovrebbe aggiornare i repubblicani irlandesi. Fermo restando che queste ambiguità e contaminazioni restano, purtroppo, un fenomeno tipico del nostro Paese, almeno dagli anni sessanta.
    Gianni Sartori (osservatore internazionale, per conto della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, al processo di Madrid del 1997 contro Herri Batasuna)

    * Per quanto riguarda Rao, va aggiunto che il titolo stesso dei suoi libri (“La fiamma e la celtica”,“Il sangue e la celtica”…) contribuisce ad alimentare l’equivoco.

    **dati i rapporti intercorsi tra fascisti italiani latitanti a Londra e servizi segreti inglesi, non si escludono tentativi di infiltrazione nel movimento repubblicano.

    *** Oltre agli interventi non richiesti di Borghezio, noto estimatore dell’ascia bipenne, va ricordato un episodio legato alla Falange (la versione italica, non libanese o spagnola). La misteriosa organizzazione parastatale, responsabile negli anni novanta di operazioni che puzzavano di provocazione e servizi segreti, diffuse un comunicato (l’originale mi venne fornito dall’allora senatore Francesco Bortolotto, dei Verdi) in cui si minacciavano i sindaci veneti contrari all’Alta Velocità. Era firmato con la sigla della Falange e una strana aggiunta, un inesistente “gruppo Veneto-Euscadi”, scritto con la “C”. Da notare che in euskara, la lingua basca, questa lettera non esiste, sostituita regolarmente con la “k”. All’epoca, in un articolo cofirmato con Giovanni Giacopuzzi, feci notare la stranezza e suggerii la natura provocatoria del testo (“strategia della tensione a bassa intensità”?). Altra evidente incongruenza, la sinistra abertzale basca si è sempre mobilitata contro l’Alta Velocità (“AHTrik EZ, emaiezu botea!!”).

    ****Pare che il commando responsabile dell’azione del 20 ottobre contro Karl Hotz provenisse da Parigi e fosse composto da Gilbert Brustlein, Marcel Bourdarias e da un ex membro delle Brigate Internazionali, Spartaco Guisco.
    In precedenza il 21 agosto, a Parigi alcuni membri dei Bataillon de la Jeunesse, guidato da Pierre Georges (comandante Fabien), avevano ucciso un esponente della Kriegsmarine, Moser, alla stazione del métro Barbès per vendicare due compagni fucilati il 18 dopo aver partecipato ad una manifestazione del P.C.F.

    *****breve nota quasi storica
    Dopo Alesia e l’imprigionamento di Vercingetorix (assassinato a Roma sei anni dopo), la resistenza organizzata dei Galli contro Roma sembrò esaurirsi nel 51 a.C. A Uxellodunum, Giulio Cesare fece tagliare le mani agli ultimi irriducibili. Gutuater, considerato il capo religioso della ribellione, venne ucciso dopo atroci torture. Nel 21 d.C. scoppiò una rivolta guidata da Julius Sacrovir che, sconfitto, morirà gettandosi tra le fiamme per non consegnarsi ai romani. Nel 69 d. C. è Civilis a ribellarsi con la propria guarnigione. Al suo fianco, oltre a molti druidi, una profetessa, Velléda e due eminenti cittadini di Langres, Julius Sabinus e la sua sposa Eponina. Divisioni interne tra i Galli, oltre alla diffidenza della popolazione nei confronti di Civilis e degli altri capi della rivolta, porteranno all’ennesima sconfitta. Trascinati a Roma, Sabinus e la moglie verranno fatti uccidere da Vespasiano e i loro figli affidati a famiglie romane. Per altri due secoli in Gallia regnerà la “pax romana”. Nel 258 franchi e alemanni, popolazioni germaniche, varcano il Reno e invadono la Gallia. A migliaia i contadini fuggono nelle foreste dove per sopravvivere costituiscono gruppi armati, le bagaudes. Tra i loro capi emerge Elien. Quando l’imperatore Diocleziano invia truppe con l’incarico di sterminare questi ribelli, Elien stringe un’alleanza con Amandus, comandante di origine gallica della guarnigione di Bourges. Dopo la morte di Elien, anche Amandus viene sconfitto e ucciso nel corso di una battaglia sulle rive della Loira. Mentre l’impero romano va disgregandosi, la Gallia subisce nuove invasioni di vandali, burgundi, visigoti e ancora franchi. Nell’ultimo giorno dell’anno 406, vandali, svevi e alani valicano il Reno ghiacciato. Entrati in Gallia, devastano Tournai, Amiens e Arras. Dietro di loro, ancora burgundi e alemanni. Nel 451 anche gli unni superano il Reno, dopo averne “trasformato le foreste della riva in barche” invadendo la Gallia settentrionale. Guidati da Attila, saccheggiano Colmar, Strasbourg, Reims, Besancon e Arras. A Lutezia, la popolazione invece di fuggire organizza la resistenza. Attila si allontana e si dirige verso Orleans che per più di un mese resisterà all’assedio. Il 14 giugno 451, mentre inizia il saccheggio, arriva l’esercito del generale romano Aetius, formato in gran parte da mercenari e da alleati visigoti. Sconfitto, Attila si rifugia a Chalons-sur-Marne (Campi Catalaunici). Con questa battaglia (21 giugno 451) rimangono sul terreno circa sessantamila cadaveri (secondo alcuni autori quasi il triplo) e comincia il declino del “flagello di Dio”. In Occidente si formano vari regni romani-barbarici: visigoti, ostrogoti e, in Gallia, il regno dei franchi.
    Il resto è storia nota. Da Childerico (capostipite dei Merovingi) a Clovis (Clodoveo I, 465-511). Dopo la sua morte il regno venne diviso in Austrasia, Neustria e Burgundia. Da Charles (Carlo, “dux et princeps francorum”, soprannominato Martello per aver sconfitto pesantemente i saraceni a Poitiers nell’ottobre 732), figlio del maggiordomo d’Austrasia Pépin d’Heristal (Pipino II capostipite dei Carolingi) a Pépin nominato re da un’assemblea di nobili e vescovi nel novembre 751 e morto nel settembre 768. Nel 772 suo figlio Carlomagno organizzerà la sua prima spedizione contro i sassoni. Dieci anni dopo, la più sanguinosa. Oltre alla decapitazione di 4500 sassoni che rifiutavano di abbandonare la religione tradizionale e convertirsi al cristianesimo, almeno 10mila saranno deportati in Gallia e in altre regioni della Germania.
    G.S.

  3. Gianni Sartori ha detto:

    “VIDI QUEL VOLTO E MI PARVE FAMILIARE…” (in memoria di Nelson Mandela)

    “Il giorno dopo, con la giacca a vento e il baschetto verde, stavo in piedi davanti a un muro. Papà mi scattava una foto e io feci un’espressione simile a quella di una tigre che ruggisce o a una foca che sbadiglia. Dietro di me, il vero soggetto della foto: due manifesti formato gigante. Nel primo si vedeva una donna con due grandi ali che diceva: “Diritti per tutti”. Il secondo mostrava una faccia nera che occupava tutto il manifesto. Stavamo camminando per quelle strade larghissime di Parigi fatte apposta per far passare i carri armati. Vidi quel volto e mi parve familiare. Sotto, c’era scritto: LIBERTE’ POUR NELSON MANDELA!”. Ecco chi era! Uno di quelli della mostra. Uno dei capi di tutta la faccenda. Uno del paese senza nome. Vederlo così, con la barba e gli occhi tristi, mi faceva dispiacere. Mio papà provò a staccare il manifesto per portarselo via.”.
    Così Leonora ricordava (in “La forma incerta dei sogni” PM editore) il suo primo giorno nella capitale francese, a sette anni. Nella sua personale interpretazione della Marianne (la “donna con le ali”) e dei boulevards (le avevo spiegato la demolizione del tessuto urbano originario nella Parigi dell’800 per impedire la costruzione di barricate e permettere all’artiglieria di manovrare), aveva prontamente riconosciuto il volto del prigioniero di cui in famiglia si discuteva spesso e per la cui liberazione si raccoglievano firme. Era il 1986, probabilmente l’anno più drammatico per il Sudafrica dove la popolazione nera si stava ribellando contro il sistema dell’apartheid.
    Il 19 febbraio ad Alexandra (Johannesburg) la polizia sudafricana si rese responsabile dell’ennesimo eccidio uccidendo una ventina di manifestanti. A tre giorni di distanza gli scontri proseguivano nella città assediata, circondata dall’esercito e isolata dal resto del paese.
    Il governo di Pretoria stava cercando in ogni modo di impedire il dilagare delle proteste, non solo attraverso la repressione, ma anche innescando con provocazioni “da manuale” conflitti interni ai diversi gruppi politici per scatenare faide e regolamenti di conti. Con l’intento di alimentare nell’opinione pubblica l’idea che i neri non fossero in grado di autogovernarsi e legittimare quindi l’intervento della polizia definita “imparziale”.
    L’anno prima, il 1985, era stato attraversato da un grandioso ciclo di lotte contro l’apparato burocratico-militare statale. Il 21 marzo a Langa (Uitenhage-Port Elisabeth) la polizia celebrava a modo suo l’anniversario della strage di Sharpeville del 1960: aprendo il fuoco con fucili da caccia grossa su un corteo funebre (composto prevalentemente da donne e bambini) e provocando una ventina di morti. Altrettanti neri erano stati ammazzati in circostanze analoghe nella settimana precedente. A fine aprile 1985 le vittime della repressione dall’inizio dell’anno erano oltre centocinquanta. In maggio il “Comitato di sostegno ai parenti dei detenuti” (DPSC) informava che “nelle ultime settimane 21 persone sono morte nelle mani della polizia in seguito a interrogatorio, cinque dall’inizio di aprile”. Negli ultimi venti anni i morti accertati nelle stazioni di polizia risultavano essere 63 (24 nel solo 1984), la maggior parte per ferite alla testa. Il DPSC denunciava poi la scoperta di una fossa comune di almeno cinquanta cadaveri sepolti clandestinamente dalla polizia in marzo nella township di Zwide.

    La mobilitazione degli abitanti dei ghetti neri si fondava sulla tattica di aggregarsi, attaccare e disperdersi, contemporaneamente in più punti del paese. Ferma restando la disparità incolmabile tra chi lanciava pietre e chi sparava. Altrettanto efficaci le innumerevoli azioni di lotta nonviolenta (dal boicottaggio dei negozi di proprietà dei bianchi alla partecipazione di massa ai funerali dei militanti caduti), determinanti per la ricomposizione della comunità oppressa.
    A venir messo in discussione ormai non era soltanto il monopolio del potere da parte dei bianchi, ma anche il ruolo delle multinazionali occidentali (o meglio, delle loro succursali) che realizzavano enormi profitti grazie allo sfruttamento intensivo della manodopera indigena. Tra le altre, a futura memoria: Coca Cola, IBM, Generals Motors, Alfa Romeo, Union Carbide, Olivetti, IRI, Ford, Siemens, Wolkswagen, Bosch, Renault, Leyland, Goodyear, Toyota, Nissan, Ciba, Nestlé, Spie-Batignelles, Pechiney, Rio Tinto Zinc, Barklays, Gec, BP, Shell, Mobil, Control Data Mark. Caltex ecc. Nel settembre del 1985, con l’assalto congiunto di neri e meticci ai quartieri residenziali della ricca borghesia bianca, si era giunti a livelli di scontro fino a qual momento impensabili.
    Contemporaneamente il movimento sviluppava una capillare azione contro le “quinte colonne” dell’apartheid nei quartieri neri: collaborazionisti, funzionari locali, “quisling”, spie e infiltrati. In questa drammatica spirale di lotte, repressione e nuove lotte e nonostante le stragi, gli squadroni della morte, le torture, i licenziamenti di massa e le conseguenti deportazioni (a fine aprile più di 17mila minatori per uno “sciopero illegale” nelle miniere della Anglo-American e della Anglo-Waal), le masse popolari sudafricane sembravano avviate autonomamente verso l’insurrezione. E’ significativo che soltanto alla fine del giugno 1985, dopo mesi di scontri e rivolte, l’ANC lanciasse un suo appello a prendere le armi contro il governo segregazionista.
    Questo nuovo ciclo di lotte (determinante dopo le sconfitte degli anni sessanta e settanta -v. Soweto- e di cui si possono individuare le origini nei tumulti scoppiati quasi contemporaneamente in otto città-satellite nere il 3 settembre 1984) aveva conosciuto naturalmente anche i suoi fallimenti. Era clamorosamente naufragata la manifestazione del 28 agosto 1985 al carcere di Pollsmoor, impedita con centinaia di soldati, poliziotti, cani, blindati, fucili e fruste. Organizzata e preannunciata con clamore da alcuni leader religiosi (immediatamente arrestati) come un decisivo confronto tra governo e movimento antiapartheid (Boesak aveva dichiarato che avrebbero “rivoltato dalla testa il paese”), nella sua spettacolarità aveva assunto forse troppa importanza, esponendo i manifestanti alla repressione più totale e indiscriminata. Per tutto l’85 sarà un crescendo di lutti. In agosto, dopo tre giorni di scontri, tra i neri si contano oltre trenta morti. E il massacro della popolazione nera in rivolta proseguirà inesorabilmente anche negli anni successivi.
    Contro cosa si erano ribellati i neri del Sudafrica, oltre che contro la discriminazione razziale?
    Un lungo elenco di buone ragioni: lo sfruttamento bestiale nelle miniere, nelle fabbriche, nelle fattorie-prigioni; l’alto livello di mortalità infantile (ufficialmente, 15% nei ghetti neri metropolitani, 25% nelle homelands, ma in realtà molto superiori, secondo l’ANC, arrivando al 50%); i lager per prigionieri politici come l’isola di Robben; le campagne di sterminio fuori dei confini contro i campi profughi (un migliaio di vittime a Kassinga nel 1977 e altri attacchi in Botswana e Leshoto tra il 1984 e il 1985 ); le condizioni di vita subumane per donne, vecchi, bambini, disoccupati e per tutti coloro che restavano esclusi dal mercato della forza lavoro; gli omicidi bianchi nelle miniere (nel 1985 a Secunda con decine di vittime), spesso per trascuratezza e cinismo da parte dei capisquadra bianchi; sempre nelle miniere la media di un morto ogni venti ore; la morte precoce dei minatori che estraevano l’uranio in Namibia, occupata dalla RSA che vi aveva introdotto l’apartheid;
    le torture, le uccisioni in carcere, le esecuzioni, le “sparizioni” di oppositori (un caso fra tanti, quello dei tre militanti del “Port-Elisabeth Black Civic Organisation” nel marzo 1985 e di altri esponenti del PEBCO, Sipho Hashe, Qaquvuli, Godolozi e Champion Galela) e gli squadroni della morte statali e parastatali (nel solo mese di giugno 1985 l’uccisione di quattro dirigenti dell’UDF a Cradok e di otto esponenti del COSAS); l’arresto e talvolta anche la tortura di bambini (come gli 800 dai 6 ai 13 anni a Soweto nell’agosto 1985) per non essere andati a scuola o per aver violato le norme dello stato di emergenza; i più di cento bambini morti di fame ogni giorno in quello che è uno dei paesi più ricchi del mondo. Oltre, naturalmente, al sacrificio di migliaia di “dannati della terra” caduti nelle lotte degli ultimi anni, da Sharpeville a Soweto.
    Ora, appare evidente che in Sudafrica, nonostante la fine dell’apartheid, molte di tali questioni rimangono drammaticamente aperte. Va ricordato che ancora negli anni ottanta, il regime di Botha aveva finanziato e favorito la nascita di una borghesia clientelare nera (permettendo a qualche imprenditore di costituire società al di fuori dei bantustan). Attualmente anche molti esponenti dell’ANC si sono trasferiti nelle aree di lusso, con ville e campi da golf. Con il risultato che mentre sono diminuite le disparità tra bianchi e neri, sono vertiginosamente aumentate quelle all’interno della comunità nera. E naturalmente le multinazionali (in particolare quelle anglo-statunitensi) hanno potuto conservare il loro potere quasi inalterato. Ma sarebbe comunque ingiusto attribuire troppe responsabilità a Mandela. Un uomo che aveva dignitosamente fatto la sua parte contro l’ingiustizia istituzionalizzata. Sicuramente molti tra i suoi seguaci e successori – in particolare Zuma – non si sono mostrati all’altezza e il cammino da percorrere è ancora lungo (a cominciare da quella ridistribuzione delle terre che era nel programma originario dell’ANC), ma questo sopravvissuto a 27 anni di prigione (e, moralmente, anche alla “sfilata degli ipocriti” intervenuti al funerale) se ne è andato con il suo carisma di combattente della libertà praticamente intatto. Alle future generazioni il compito di completarne l’opera. Quanto alla sua eredità ideale e politica, più che dal presidente statunitense Obama, penso sia oggi rappresentata da “Apo” Ocalan, il leader curdo rinchiuso nelle galere turche.
    A chi scrive, con la morte di Nelson Mandela sono tornati alla mente i nomi delle innumerevoli vittime del regime dell’apartheid. Alcuni sono comunque passati alla Storia: Steve Biko (militante della SASO, morto sotto tortura), Victoria Mxenge (avvocato dell’UDF, uccisa da una squadra della morte), Joe Gquabi (oppositore, assassinato dai servizi segreti), Ruth First e Janette Curtis (entrambe con un pacco-bomba dei servizi segreti di Pretoria), Benjamin Moloise (poeta, impiccato), Neil Aggett e Andreis Radtsela (sindacalisti, morti sotto tortura), Dulcie Septembre (esponente dell’ANC, assassinata in Francia dai servizi segreti)…). Ma per un gran numero di assassinati il rischio è di essere definitivamente dimenticate. Chi si ricorda ancora di Saoul Mkhize, Samson Maseako, Taflhedo Korotsoane, Elias Lengoasa, Sonny Boy Mokoena, Mvulane, Bhekie…?
    Per ognuno, una piccola storia di sofferenze e umiliazioni ancora da raccontare.
    E un commiato affettuoso vada anche alle tante persone conosciute all’epoca del maggiore impegno per “strappare le radici dell’ingiustizia” e che nel frattempo ci hanno lasciato: Benny Nato, Alberto Tridente, Edgardo Pellegrini, Beyers Naudé…
    Un esempio per chi li ha conosciuti e per chi non ha avuto questo onore.
    Gianni Sartori (dicembre 2013)

    P.S. Quanto a Leonora, anni dopo, nel 2004, partì per Sharpeville (città-martire dove nel 1960 la polizia aveva aperto il fuoco con le armi automatiche contro una folla inerme che protestava contro il sistema dei lasciapassare, almeno una settantina di vittime) per incontrare di persona alcuni sopravvissuti alla prigione, alla tortura e alla condanna a morte sospesa soltanto il giorno prima dell’esecuzione (I “Sei di Sharpeville”: Duma Joshua Khumalo, Theresa Machabane Ramashamole, Oupa Moses Diniso, Mojalefa Reginald Sefatsa, Francis Manentsa Mokhesi e Reid Malebo Mokoena) perché “una vocina leggera mi disse che forse una generazione non basta. Le battaglie sono più lunghe e forse funzionano con il sistema della staffetta. Ci si passa il testimone”.
    Ma questa è già un’altra storia…

  4. Gianni Sartori ha detto:

    1944-2014: a settanta anni di distanza, un ricordo di
    SARA CHE NON VOLEVA MORIRE…

    (Gianni Sartori)

    Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono…
    Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
    Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. La bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo, forse per timore di rappresaglie. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano.
    Il tragitto dei 43 Ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è ormai noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto.
    Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri di Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
    Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e, questo l’ho saputo solo recentemente, venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (in alcuni scritti viene definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
    In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Sembra anche che la madre riuscisse a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Purtroppo invano. Sara venne immediatamente ripresa dagli sgherri nazifascisti.
    In Polonia la maggior parte dei 47 deportati (tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
    Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944.
    La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.
    Gianni Sartori (settembre 2014)

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