La vita dopo la morte ed il seme di senape che non c’è

ORSOMARSO -Via Orto di Cesare

“Una giovane donna di nome Kisagotami perse il suo unico figlio di circa un anno, a causa di una malattia. Disperata girava il villaggio di casa in casa,  stringendosi al petto il cadavere del bambino e implorando una medicina  che lo facesse tornare in vita. I vicini pensavano che fosse impazzita, ne  avevano paura e cercavano di evitarla. Un uomo, invece, cercò di aiutarla indirizzandola al Buddha, dicendole che lui aveva la medicina che cercava. Kisagotami andò dal Buddha – come noi andiamo dallo psicoterapeuta – e lo implorò di darle quella medicina.

“Ne conosco una che potrebbe fare al caso tuo”, disse il Buddha, “ma ho bisogno di una manciata di semi di senape provenienti da case in cui non siano mai morti né bambini, né genitori, né coniugi, né servi”.

Mentre faceva il giro del villaggio, Kisagotami lentamente comprese che non era possibile trovare una casa di quel genere. Depose il cadavere del suo bambino nella foresta e tornò dal Buddha.

“Mi hai procurato i semi di senape?”

“No rispose lei. La gente del villaggio mi ha detto: i vivi sono pochi, ma i morti sono molti”.

“Pensavi di essere la sola ad aver perso un figlio?”, disse il Buddha, “ma la legge della morte vuole che nessuna creatura vivente duri in eterno”.

 

Qualche tempo dopo Kisagotami prese i voti e divenne una seguace del Buddha. Una sera si trovava in cima alla collina e lontano vide giù nel villaggio le luci che splendevano nelle case.

“La mia condizione è simile a quelle lampade”, rifletté.

Si narra che il Buddha le comparisse in una visione, confermando questa sua intuizione. “Tutti gli esseri viventi somigliano alle fiamme di queste lampade”, le disse, “ora splendono, l’attimo dopo sono spente; solo coloro che raggiungono il Nirvana sono al sicuro” (Epstein, 1998, p. 17).

 

 

Questa storia è una parabola sulla morte, sull’impermanenza e sulla trasformazione del dolore. Kisagotami guarì nel momento in cui si rese conto che il suo problema non era unico, ma universale. Spostando l’attenzione dal proprio trauma alle luci vacillanti del villaggio aveva compiuto un salto percettivo: aveva visto con chiarezza che la sua tragedia era la più comune delle esperienze. Accettando la sua perdita, e non più negandola o rifiutandola, Kisagotami aveva potuto scoprire una realtà più grande.

Il dolore, accettato come parte della realtà, e attraversato volontariamente, ci rende dolci e gentili. Il dolore rifiutato, ci rende duri e crudeli, con noi stessi e con gli altri (Pierrakos, 1989).

Egocentrismo, alienazione e disumanizzazione

Perché rifiutiamo il dolore? Perché ne abbiamo paura. La paura ci assale nel momento in cui ci identifichiamo nel nostro piccolo ego, ci sentiamo separati dal mondo, divisi dagli  altri, e quindi frammentati al nostro interno (Elenjimittam, 1990). Come una foglia che ha perso consapevolezza di essere parte di un grande albero. In tal modo ci rendiamo impotenti. L’identificazione nell’ego è espressione di orgoglio: “Io, io, io”. “A me non deve succedere”, “I miei genitori non mi hanno dato sufficiente affetto”, “La società mi ha tarpato le ali”, “Io meritavo di più”.

La persona egocentrata sviluppa una volontà personale in continua opposizione alla coscienza-volontà del sistema più ampio di cui fa parte. Nuota contro corrente. Non può rilassarsi: deve sempre controllare, lottare, contrapporsi alla sorte. Non si affida, ma sviluppa la tendenza a forzare. Perde sempre più connessione e integrità. Soffre per un dolore non necessario, un dolore sterile, distruttivo. In quel dolore non c’è senso alcuno: diqui la crescente disperazione, il senso di inutilità e fallimento. Tutto ciò che ottiene è precario, perché si attacca alla superficie delle cose, alle apparenze, a ciò che non è veramente importante.

A fronte di questa malattia comune, la società edonistica in cui viviamo offre i suoi rimedi: la ricerca della felicità attraverso il possesso di beni materiali, il potere sulle persone, l’identificazione in un ruolo di prestigio, la carriera, il successo. E’ la via dell’alienazione dal vero sé. E’ la via delle dipendenze – cibo, alcol, sesso, droga, denaro, potere – una via distruttiva, che aggrava il male che pretende di curare. La nostra società ha orrore per ciò che non può controllare e assoggettare ai suoi schemi. Così incoraggia la soluzione più facile: alimentare il narcisismo perseguendo la soddisfazione immediata dei bisogni. Di fronte al vuoto esistenziale, alla mancanza di significato, ci propone un continuo carosello di stimoli: alimentari, acustici, visivi, cinestesici. Ci culla dal mattino alla sera in un mondo falso e illusorio. Non c’è più luogo in cui si possa stare in silenzio, senza radio, senza musica, senza televisione, senza rumore del traffico.

Meditare, riflettere, stare in intimità con se stessi e con gli altri è sempre più difficile. L’uomo di oggi ha paura della solitudine e del silenzio (Fromm, 1941). Nella solitudine affiorano alla sua coscienza i demoni che ha cercato disperatamente di affossare nell’ombra. Per fuggire ai demoni, sfugge a se stesso e alla propria umanità.

 

Da blog.libero.it/

 

 

Foto: ORSOMARSO   –  Via Orto di Cesare

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One Reply to “La vita dopo la morte ed il seme di senape che non c’è”

  1. Gabriella Redolfi ha detto:

    Bellissimo articolo grazie

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