La Merica.
Si dice ancora oggi: “Ha truvato a Merica”. Come dire: ha trovato la Terra Promessa dove scorre latte e miele, ha fatto fortuna.
Tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento, milioni di italiani emigrarono in America. Solo nella città di San Paolo si stima che circa sei milioni di persone abbiano almeno un ascendente italiano nella loro famiglia.
Si partiva per trovare un lavoro dignitoso, per procurare il necessario alla famiglia, per garantire un futuro ai figli.
C’era un sogno che, nella notte fredda delle privazioni, riscaldava il cuore e regalava promesse. Aveva un nome: la Merica.
Si riempiva una valigia delle poche cose di cui si disponeva e si andava, con i mezzi e le difficoltà del tempo.
Al porto c’era una nave ad attendere. Chi veniva dal centro – sud abitualmente s’imbarcava da Napoli. Il viaggio durava settimane.
Alcuni non avevano i soldi per pagarsi il viaggio. Andavano a chiederli in prestito. Davano in pegno la casa dove abitavano e dove lasciavano moglie, figli e, a volte, i genitori. Entro un certo numero di anni dovevano restituirli con gli interessi, altrimenti il creditore si prendeva la casa.
Raccontavano i miei nonni che il saluto dei vecchi genitori e delle donne, al momento della partenza, era straziante. Al dolore per il distacco ed al grumo, inesprimibile e nascosto, che quello poteva essere l’ultimo abbraccio, si univa la paura di perdere la casa e ritrovarsi senza niente.
“Figghiu, simu ‘nti manu tuja”, sospirava il papà tra le lacrime, mentre stringeva forte il figlio.
La maggior parte di quelli che partivano non avevano un mestiere. Solo alcuni sapevano leggere e scrivere.
S’imbarcavano per un paese sconosciuto, senza conoscerne la lingua, senza sapere cosa li aspettava. Giunti a destinazione, masticando solitudine e fatica, si adattavano a fare i lavori più umili e a vivere in abitazioni piccole e disadorne.
Quando potevano, mandavano quel poco che erano riusciti ad accumulare. Una volta travato un lavoro sicuro, facevano arrivare in America moglie e figli.
Alcuni non sono mai più tornati ad Orsomarso.
L’emigrazione dell’ultimo dopoguerra (quella degli anni ’50 e ’60 per intenderci) è diversa. E’ stagionale e si dirige soprattutto verso l’Europa. Solo una piccola percentuale va in America. Abitualmente si ha come punto di riferimento un parente, emigrato all’inizio del secolo.
La maggior parte degli orsomarsesi si è inserita bene nei paesi che li ospitano. Alcuni discendenti dei primi emigranti oggi occupano posti prestigiosi nella gerarchia sociale.
Nell’economia italiana le rimesse degli emigranti hanno risolto molti problemi. Sarebbe bene che l’Italia se lo ricordasse.
Oggi mette tristezza vedere i nostri giovani migliori strappati alle loro case e costretti a partire per un paese lontano. Come un tempo. La logica brutale del profitto ha piegato tutto al suo servizio e le nostre vite sono tornate ad essere ingranaggi d’una macchina infernale che non ha patria e non ha cuore.
Questa foto è del 1923. Alcuni orsomarsesi partono per per l’America. Amici e conoscenti li accompagnano alle porte del paese. Alla stazione ferroviaria di Marcellina si va con un carro trainato da buoi, perchè la strada per mezzi motorizzati è del ’24