TRA I REDUCI

 

Da leggere questo racconto di Angelo Rinaldi di Verbicaro. Ci fa capire molto dell’ultima guerra, del fascismo, delle sofferenze che uomini e donne hanno patito, a causa della follia della monarchia e di una classe politica ed economica che, tramite Mussolini, sognava l’impero.

Il racconto è preso dal libro “TRA I REDUCI DELL’ALTO TIRRENO COSENTINO”

Cognome e nome : RINALDI ANGELO SALVATORE
Classe: 1910
Arma o corpo: 47° REGGIMENTO FANTERIA – LECCE SOLDATO
Fronte: IN PATRIA

MEMORIE
Le notizie che informavano l’esercito italiano erano “spicciole”, ha detto il signor Rinaldi, ma quelle poche che il regime diffondeva erano false e tese a sollevare il morale dei giovani soldati italiani.

“Buscie cum’a terra!” è l’espressione che ha usato; ma in italiano (bugie come la terra) perde, a mio avviso, il suo significato permeante; cioè di bugie piene di ipocrisia, di aridità e di demagogia proprie della propaganda fascista. Pochi i giornali che arrivavano e che si potevano leggere, molto più diffusa invece la radio alla quale, per associazione di idee, ha dato il nomignolo di “coraggio” per il gran numero di volte che quella parola ha sentito ripetere dall’altoparlante.

Del tutto assente era al contrario il cinema, udito soltanto nominare da qualche compagno d’arme della capitale.

Molto più affidabili invece erano, secondo lui ed i soldati tutti, le notizie date da tutti coloro i quali tornavano dal fronte o per le ferite riportate o, più fortunatamente, per i congedi che di rado venivano concessi. Le voci rimbalzavano da un battaglione all’altro ed erano oggetto di interesse sia del semplice soldato che di chi stava ben più in alto!

Il pessimismo tra i militari era diffusissimo. Anche tra gli ufficiali, come colonnelli, tenenti, ufficiali medici e graduati. Tutti evidenziavano che l’Italia non era preparata per affrontare una simile guerra, anche se alleata della Germania.
Mi ha detto che le cose più belle che ricorda del conflitto sono le lettere e i congedi per tornare a casa. A tutti i soldati veniva data una busta lettera a forma di telegramma con la quale si riusciva a trovare un po’ di tranquillità e di pace, potendo inviare proprie notizie ai familiari. Mi ha fatto notare, però, che le lettere che spediva e riceveva non “parlavano” mai di chi fosse stato ferito, o addirittura ucciso, per non scoraggiare le famiglie al paese e, quest’ultime, i cari al fronte.

Si faceva molta attenzione anche a cosa si scrivesse del regime e dell’andamento della guerra, poiché se accidentalmente ne fossero venuti a conoscenza i superiori di spudorata fede fascista, le missive sarebbero state censurate e il mittente punito.

Paura e terrore erano gli “ingredienti” quotidiani della “ricetta” di guerra, ecco perché moltissimi soldati non esprimevano esplicitamente le proprie idee ed opinioni riguardanti il Duce e il regime. Ma gran parte dei circa seicento uomini, che formavano il 359° battaglione, era anti-fascista, ma la paura di non poter più ritornare dai propri cari, ha ribadito, li faceva tacere ed obbedire.

Pochi erano coloro i quali apertamente manifestavano il proprio dissenso; tra questi un certo colonnello Calò, che teneva contatti con gli antifascisti d’oltralpe. Lo ricorda particolarmente per l’argento vivo, che aveva addosso e, soprattutto, per alcune manifestazioni contro il Duce e i tedeschi di cui fu protagonista. Come quando nel ’43 dopo varie promesse (non mantenute, naturalmente) prese un quadro con l’effige del Duce e lo buttò a mare.

Vi era però un altro graduato un certo Palumeri, accanito fascista, che più volte “tormentò” i militari, e in occasione dello sbarco degli alleati disse queste parole: “Se i miei soldati dovranno combattere contro i tedeschi, farò buttare le armi in mare!”.

Il signor Rinaldi rimase impressionato dalle idee contrastanti che avevano i suoi ufficiali sul prosieguo della guerra.
La cosa che più mi ha meravigliato della intervista è stato quando ho domandato dell’equipaggiamento. “In Puglia c’era tutto e di tutto”, mi ha risposto l’intervistato, dalle magliette intime alle giubbe a vento, dalle calze alle sciarpe, dalle mitragliatrici antiaereo al fucile chiamato “moschetto tromboncino” per il fatto che fosse in grado anche di lanciare una specie di bomba. Ma quando mi ha detto che fra Brindisi e Tarante si faceva una sorta di spola con le navi in modo tale che apparissero il doppio in entrambi i porti, ho capito dove era arrivata la propaganda. “Si cercava di far apparire quel poco materiale in dotazione più che sufficiente o addirittura superfluo, quando invece i nostri avversari erano militarmente e tecnologicamente qualche anno luce più avanti di noi!

L’unica cosa che si poteva fare per venir meno a questo inconveniente era naturalmente quella di enfatizzare le nostre armi e vittorie, e tacere di tutto ciò che riguardasse il nemico”.

Rinaldi mi riferì ancora che gli uomini non venivano mai informati né dell’equipaggiamento nemico, né delle loro vittorie.
Per quanto riguarda gli episodi particolari, mi sono soffermato sugli anni vissuti precedentemente, e durante la guerra, a Verbicaro.

Vista la penuria dei viveri, il regime fu costretto a introdurre la “Carta Annonaria”, ma per un paese come il mio questo provvedimento si rivelò un vero e proprio disastro economico. Ecco perché quegli anni si intensificarono i rapporti con i paesi limitrofi, grazie all’opera dei “mulattieri”. Questi erano dei veri e propri contrabbandieri che, provvisti di “muli”, mantenevano l’attività di “import-export” di olio, pane, fagioli, legumi, uva, vino, frutta, sale, latte, ecc… Il signor Rinaldi era uno di questi e mi ha descritto come avvenivano gli scambi.
Gli incontri tra i vari contadini produttori e contrabbandieri si tenevano in piena montagna, in località “Tavolare” lontano da occhi indiscreti e dai carabinieri. Era poi la moglie, una volta riempito il “catuoio” (cantina) di tutte le provviste, a trovare gli acquirenti non solo in paese ma anche fuori. La mercé più richiesta era l’olio che al negozio veniva pagato £.700, mentre ne occorrevano £.1000 per averlo di contrabbando.

La cosa di cui era fiero il signor Carmine, e anche i miei compaesani credo, è il fatto che i Verbicaresi non hanno mai avuto simpatia per il fascismo, tranne alcune eccezioni.

Da “TRA I REDUCI DELL’ALTO TIRRENO COSENTINO”

Il primo da dx è Attilio Pandolfi. La foto me l’ha data suo figlio Enzo, che ringrazio.

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