Le parole hanno una loro vita: nascono, vivono e muoiono. Un po’ come le persone. Non solo, come tutti gli esseri viventi entrano in simbiosi con l’ambiente in cui si trovano, ne subiscono gli influssi e si adattano a costumi e valori dominanti.
La CANTINA, per esempio, nel linguaggio corrente indica il locale dove si vinifica e si conserva il vino.
Ad Orsomarso invece, fino a qualche decennio fa, rimandava ad un locale pubblico dove gli uomini si ritrovavano per giocare a carte e bere un bicchiere.
Erano spoglie e piccole: quattro o cinque tavoli, un po’ di sedie, un lavandino e tanti fiaschi e damigiane. Non c’era molta scelta. Oltre al vino si trovavano birra, anice, aranciate e poco altro. Per gustarsi meglio il vino provvedeva Carmela col suo lupino: 5/10 lire un bicchiere.
In genere non erano dotati di bagni ed erano rigidamente riservati ai maschietti di una certa età.
Quando andai a lavorare nel Veneto rimasi spiazzato nel vedere giocare a carte, allo stesso tavolo, uomini e donne.
Oggi le cantine, nel senso che ho appena detto, sono scomparse, come è scomparsa la civiltà contadina che le alimentava.
Il CATUJO invece è il locale dove si vinifica e si conserva il vino.
Chi ha una certa età lo cura ancora con passione e lo frequenta con gli amici.
È come coltivare le radici. È la fotografia di chi non c’è più che ci portiamo appresso nella tasca della giacca, un po’ sgualcita, ma carica di affetti e di ricordi.
Foto: da sx Zecco, Attilio Pandolfi, Salvatore Bottone, mio nonno, Angelo Candia (di spalle), ed Angelo Corbelli in una cantina, per giocare a carte e bere un bicchiere