I rapporti con Mosca. Quelli controversi con Berlusconi e la massoneria. Le relazioni oltreoceano con la Cia e i poteri atlantici. Nel libro “I panni sporchi della sinistra” (in questi giorni in libreria per Chiarelettere) i giornalisti Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara ricostruiscono, con retroscena inediti, la storia politica di Giorgio Napolitano. Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo ampi stralci del capitolo iniziale.
di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara
Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo.
Franz Kafka
-
Copertina flessibile: 382 pagine
-
Editore: Chiarelettere (14 novembre 2013)
-
Collana: Principioattivo
-
Prezzo: euro 13.90
Due pesi e due misure
Discutere il comportamento e le prerogative di un capo dello Stato non è mai agevole. E alla prima carica della nostra Repubblica va certamente tributato il rispetto che il ruolo istituzionale suggerisce e impone. Questo tuttavia non deve impedire di sviluppare un sobrio ragionamento sulla storia personale, i rapporti e le scelte di Giorgio Napolitano, figura centrale nella storia della sinistra italiana non soltanto per i due mandati da capo dello Stato, ma in quanto unicumnella storia della Repubblica. Soltanto investigando le cause a monte del fenomeno Napolitano e il caleidoscopico retroterra dell’uomo politico è infatti possibile risalire alle ragioni della mutazione antropologica del centrosinistra.
Napolitano è stato uno dei maggiori esponenti della «destra» del Pci, guidata e plasmata da due compagni di origini partenopee, Giorgio Amendola e Gerardo Chiaromonte. Il filosofo Salvatore Veca coniò per questa corrente ispirata ai principi del socialismo europeo il termine «migliorista»,[1] in quanto non si riprometteva di abbattere il capitalismo ma di operare all’interno del sistema per migliorarlo. Nella Prima repubblica Napolitano si è distinto come abile tessitore di relazioni: a livello internazionale è stato il primo dirigente comunista a tenere conferenze negli Stati Uniti; in Italia ha inseguito l’unità socialista non disdegnando il compromesso storico, poi ha alimentato il dialogo con la galassia di Bettino Craxi, compreso Silvio Berlusconi. Nelle sue diverse vesti istituzionali, Napolitano ha consentito di fatto al potere berlusconiano di perpetuarsi.
Nell’autunno del 2010, per esempio, la gestione della crisi della maggioranza che sosteneva il governo Berlusconi, seguita alla spaccatura in seno al Pdl, si è svolta in maniera quanto meno singolare, sia sul piano politico sia su quello tecnico-istituzionale. In novembre il Pdl aveva attraversato una grave crisi ed era nei fatti imploso: i membri del governo che si riconoscevano in Gianfranco Fini avevano rassegnato le dimissioni dalle loro cariche e il governo era stato messo in minoranza da diversi voti di commissione, mentre veniva annunciata la nascita di un partito antagonista a quello del premier, Fli (Futuro e libertà). Condizioni più che sufficienti perché – mancando una mag gioranza – Napolitano chiedesse a Berlusconi di salire al Colle e rassegnare le dimissioni, sciogliendo le Camere e indicendo nuove elezioni, o verificando se esistessero le condizioni per un mandato esplorativo, mirato a un governo tecnico. Invece il presidente della Repubblica aveva preso tempo per cercare altre vie.
Mentre Napolitano congelava la politica e le istituzioni per un mese, Berlusconi contrattava con singoli esponenti di vari partiti il voto di sostegno al suo governo, una vicenda che ha generato indagini giudiziarie e pesanti accuse – tuttora in fase di verifica giudiziaria – di compravendita di parlamentari. In meno di un mese il Cavaliere è riuscito a imbarcare parlamentari di opposizione di vari partiti, tra cui l’ex Idv Sergio De Gregorio, che in seguito avrebbe confessato di aver intascato circa tre milioni di euro per tradire il centrosinistra. [2]
Un anno dopo, nell’autunno del 2011, la gestione della crisi del governo Berlusconi è apparsa altrettanto singolare. L’Europa invocava cambiamenti politici radicali in considerazione del crescente spread tra Btp italiani e titoli tedeschi, giunto a un divario di 500 punti base. La situazione era allo stremo, l’ipotesi di un default tutt’altro che remota. Ma nemmeno le dimissioni di Berlusconi nel novembre del 2011, accelerate dalla «diaspora» di otto deputati che si aggiungevano alla fronda finiana, portarono a nuove elezioni. Il «pericolo» che il centrosinistra vincesse e che Berlusconi venisse definitivamente liquidato era concreto. Bisognava trovare una soluzione che «garantisse» lo statista Berlusconi, impegnato a difendersi dai suoi processi.
Napolitano ha evitato il ricorso alle urne e il 16 novembre 2011 ha optato per un incarico al professor Mario Monti, nominato pochi giorni prima (9 novembre) senatore a vita. Una scelta che negava al popolo la possibilità di esprimersi in un momento in cui vi sarebbero state le condizioni tecniche e politiche per farlo. Napolitano riusciva così a servire sul piatto a Monti una maggioranza Pd-Pdl, che appariva però segnata sin da subito da tensioni, immobilismo e diritto di veto reciproco. Berlusconi, pur se di fatto caduto, sconfitto sul piano della politica economica, screditato all’estero e sfiduciato dai mercati, continuava comunque a controllare il governo, con il potere di staccargli la spina nel momento a lui più opportuno.
Nel comportamento del capo dello Stato si notano significative discrasie, talvolta un utilizzo di due pesi e di due misure. Quando alla fine del 2007 il governo Prodi iniziò a traballare, Napolitano non fu tenero come lo è stato con Berlusconi. Il presidente pungolava l’esecutivo e chiedeva garanzie, continuando a ribadire quanto fosse importante avere numeri saldi in Senato. Così il ministro degli Esteri Massimo D’Alema poté allestire nei minimi particolari quella che a molti parve una trappola perfetta: la prima crisi del governo Prodi, scaturita dal voto contrario del Senato alla relazione di D’Alema. Dopo soli tre giorni Napolitano rinviò alle Camere per la fiducia. Il 24 gennaio 2008 il capo dello Stato deliberava le dimissioni di Romano Prodi per effetto del voto di sfiducia in Senato, provocato dall’abbandono di Clemente Mastella dell’Udeur e di tre deputati centristi. Come ha osservato l’allora portavoce di Prodi, Silvio Sircana, «sono state le dimissioni più veloci della storia, siamo arrivati al Quirinale e le formalità erano già tutte pronte». Il presidente conferì un mandato esplorativo a Franco Marini, già presidente del Senato ed esponente del Ppi. Fallito il tentativo, il 6 febbraio Napolitano firmava il decreto di scioglimento delle Camere, chiudendo così, dopo appena 22 mesi dal suo insediamento, la XV Legislatura, la seconda più breve della storia della Repubblica.
Si parlò in quei giorni di un progetto di Napolitano messo a punto da un uomo considerato vicino alla massoneria, Antonio Maccanico: un governo filo-Usa e filo-Confindustria. Il presidente della Repubblica – come vedremo in seguito – è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull’asse inclinato dal peso degli Stati Uniti. Ma una cosa è certa: così di fatto Napolitano è stato il garante politico di Berlusconi.
Il garante dell’impero mediatico di Berlusconi
Se si scorre con attenzione la storia dei rapporti tra Berlusconi e Napolitano, molti sono gli interrogativi che sorgono riguardo a scelte che di fatto hanno favorito l’impero mediatico di Silvio e rimandato la soluzione del palese conflitto di interessi. Il 28 novembre 1993, mentre l’imprenditore di Arcore scalda i motori per buttarsi in politica, Napolitano commenta così la sua «discesa in campo»: «In una fase come questa di transizione, di ricerca e anche di grande fluidità, possono anche entrare in campo dei nuovi soggetti che abbiano operato nella vita economica e non nella vita politica. A ciascuno spetta fare le proprie valutazioni di opportunità, di utilità, di credibilità nel momento in cui si assumono iniziative politiche».[3] In piena campagna elettorale, il 3 marzo 1994, Napolitano, candidato nella circoscrizione di Napoli, si dice «disponibile e pronto a un pacato confronto politico su questi temi con il capolista di Forza Italia nella circoscrizione di Napoli, Silvio Berlusconi».[4]
Dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 27-28 marzo 1994, Napolitano fa un gesto simbolico importante, congratulandosi subito con lui. E Silvio gliene rende merito pubblicamente, tanto da irritare il rifondatore comunista Armando Cossutta, il quale prevede l’avvento di «un’opposizione inadeguata a fronteggiare un governo che sta avviando un regime reazionario, restauratore; un’opposizione di stile anglosassone, l’opposizione di Sua Maestà che Berlusconi ha mostrato di gradire».[5] Il 20 maggio 1994 l’imperturbabile Napolitano ribatte alle critiche offrendo un assist a Silvio: «Non si tratta di lanciare ponti, ma di ricercare intese su base assai larga, perché questo è lo spirito della Costituzione, questo è il modo per rivederla».[6] Un affetto ricambiato, tanto che Vittorio Sgarbi pochi mesi dopo, il 20 ottobre 1994, ironicamente chiosa: «Bisogna capire: Napolitano è quel che Berlusconi, come uomo politico, avrebbe voluto essere: serio, elegante, riservato».7
Quando, a fine novembre dello stesso anno, Berlusconi riceve l’invito a comparire per l’inchiesta sulle tangenti di Milano durante il vertice di Napoli, Napolitano si affretta subito a difenderlo: «Le fondamentali forze politiche dell’opposizione non hanno chiesto le dimissioni del presidente del Consiglio in seguito all’avviso di garanzia. Non c’è stata quindi nessuna strumentalizzazione su questa vicenda giudiziaria. Che Berlusconi si dimetta attiene alla sua valutazione e sensibilità».8 Lasciata la presidenza della Camera a Irene Pivetti, nel marzo del 1995 il leader migliorista assume la presidenza della Commissione parlamentare sul riordino del sistema televisivo e sui problemi dell’informazione, dove si distingue subito per la politica di appeasement e di annullamento dei problemi. Il 25 settembre Napolitano si preoccupa di ribadire: «Non si vuole uccidere nessuna azienda e nessun gruppo. La commissione non ripropone il taglio delle reti Fininvest».9
Nei mesi successivi la commissione non produce alcun risultato, se non la proposta di creare un’authority di garanzia e di assegnare due reti alla Rai e due a Fininvest. L’ex direttore del Tg3 e di Tmc News, Sandro Curzi, la bolla come una «proposta ridicola, perché ne trarrebbe vantaggio solo la Fininvest. All’azienda di Berlusconi non servono più in questo momento le tre reti: gliene bastano due per il mercato pubblicitario».10
Un mirabile equilibrio
Nella primavera del 1996 Prodi vince le elezioni e nomina Napolitano ministro dell’Interno. Nel maggio 1998 il Viminale guidato da Napolitano non riesce a evitare la fuga all’estero del capo della P2 Licio Gelli dopo l’ennesima condanna per il crac dell’Ambrosiano. Nonostante le ingenti risorse informative del ministero dell’Interno, il Venerabile lascia l’Italia indisturbato. Per Napolitano «non c’è responsabilità della polizia né del governo nella fuga di Gelli. Ci si è comportati come la legge prescrive, il parlamento può decidere di cambiare le norme».
Già molti anni prima, nel 1983, i servizi segreti avevano avvisato il Viminale delle capacità di fuga di Gelli durante la sua detenzione nel carcere svizzero di Champ Dollon.11 Non è quindi pensabile che sotto la gestione di Napolitano la nostra intelligence non avesse informazioni sui movimenti del capo della P2. La situazione appare così paradossale da indurre Berlusconi a sfottere affettuosamente Napolitano: «Spero che Gelli sia andato a farsi una cura e che non sia una fuga vera e propria».
Ma Napolitano non si offende, anzi, il 15 agosto 1998 afferma, parlando dei guai giudiziari del Cavaliere, che «i problemi della giustizia vanno risolti depurandoli da ogni elemento personale. Le accuse formulate contro Silvio Berlusconi non si basano su nessuna attività svolta come capo dell’opposizione, bensì come capo di impresa. E questa duplice storia personale, agli occhi dell’opinione pubblica, costituisce un problema complesso e suscita opposte reazioni».12
Un mirabile equilibrio. Nella storia dei rapporti tra Berlusconi e Napolitano si possono rintracciare molte esternazioni di questo genere. Come presidente della Repubblica, il leader riformista ha acconsentito al passaggio di molte leggi che avrebbero meritato ben diversa sorte. È stato per esempio accusato di aver controfirmato molte leggi del governo fortemente criticate dall’opposizione e da molti osservatori neutrali. Tra queste la promulgazione del cosiddetto lodo Alfano che garantisce l’immunità alle alte cariche istituzionali, poi dichiarata incostituzionale dalla Consulta. In un’intervista a «la Repubblica» persino l’ex presidente Ciampi ha criticato espressamente la scelta di Napolitano di firmare subito il testo.13
Anche in occasione della promulgazione del cosiddetto scudo fiscale, molti tecnici della materia hanno rimproverato al capo dello Stato di aver firmato senza rinvio una legge accusata da esperti economisti di essere un mezzo per riciclare legalmente denaro sporco. E ancora: qualche settimana prima delle Regionali del 28-29 marzo 2010, a seguito dell’esclusione per palesi irregolarità delle liste del Pdl in Lazio e Lombardia, Napolitano firmava il decreto del governo per la loro riammissione.
Nell’aprile del 2010 il capo dello Stato concedeva il via libera alla legge sul legittimo impedimento del premier e dei ministri, mentre i pm di Milano si dicevano pronti a ricorrere alla Consulta. Nel gennaio del 2011 la Corte stabiliva che la legge era in gran parte incostituzionale. Altre promulgazioni di Napolitano criticate e discusse hanno riguardato il decreto Mastella per distruggere i dossier illegali raccolti dalle spie della security Telecom, la riforma dell’ordinamento giudiziario, la norma della finanziaria che raddoppia l’Iva a Sky e i due pacchetti sicurezza del ministro degli Interni Roberto Maroni accusati di contenere norme contro i rom e gli immigrati.
Il terreno d’intesa con il Cavaliere
In tutte queste vicende, e al di là degli scontri formali, esistono evidenti sintonie di fatto tra Napolitano e Berlusconi. Sintonie che vanno oltre i singoli provvedimenti e si riconoscono nelle visioni politiche di fondo, come la vicinanza agli Stati Uniti. Anche questo è un terreno di intesa importante con il Cavaliere, campione di un atlantismo prêt à porter che riemerge in situazioni critiche, come il sequestro di Abu Omar da parte della Cia. Persino nei confronti del Vaticano le posizioni di Giorgio e di Silvio coincidono: entrambi sono determinati a mantenere intatti tutti i privilegi della Santa Sede (dalle esenzioni fiscali all’otto per mille, che produce un gettito di un miliardo di euro l’anno per la Chiesa), tributando continue e deferenti manifestazioni di sottomissione al potere del Vaticano.
Dunque, il doppio mandato presidenziale del primo postcomunista della storia italiana è la summa di ragioni lunghe un trentennio. Un terreno di incontro è quello del rapporto con la magistratura. Napolitano ha spesso condiviso l’avversione berlusconiana per le indagini più scomode.
Non può dunque stupire l’atteggiamento del Quirinale riguardo all’occupazione del Tribunale di Milano da parte dei parlamentari del Pdl, pochi giorni dopo le elezioni politiche del febbraio 2013, contro il processo a Berlusconi sul caso Ruby.14 L’11 marzo 2013 Berlusconi lascia che i suoi invadano il tribunale per poi inviare Angelino Alfano, Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto al Quirinale. Al termine dell’incontro con la delegazione del Pdl, Napolitano rilascia questa dichiarazione: «Ho, negli anni del mio mandato, considerato e affrontato come problema essenziale quello del ristabilimento di un clima corretto e costruttivo nei rapporti tra giustizia e politica. […] È comprensibile la preoccupazione dello schie ramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio, di veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento, che si proietterà fino alla seconda metà del prossimo mese di aprile. Non è da prendersi nemmeno in considerazione l’aberrante ipotesi di manovre tendenti a mettere fuori giuoco “per via giudiziaria” – come con inammissibile sospetto si tende ad affermare – uno dei protagonisti del confronto democratico e parlamentare nazionale».15
Diversi membri togati del Csm protestano; il quotidiano «la Repubblica», in un articolo firmato dal vicedirettore Massimo Giannini, parla di «un premio ai sediziosi», di una richiesta da parte del Pdl di «provvedimenti punitivi contro la magistratura» e paventa un nuovo salvacondotto per Berlusconi. Napolitano è costretto a intervenire per negare le ricostruzioni:
«Nessuna richiesta di impropri interventi nei confronti del potere giudiziario mi è stata rivolta […], né la delegazione del Pdl mi ha “annunciato” o prospettato alcun “Aventino” della destra […]. L’incontro in Quirinale con i rappresentanti della coalizione cui è andato il favore del 29 per cento degli elettori era stato confermato dopo mie vibranti reazioni espresse direttamente ai principali esponenti del Pdl per la loro presa di posizione. Quel rammarico, ovvero deplorazione, è stato da me rinnovato, insieme con un richiamo severo a principi, regole e interessi generali del paese che, solo con tendenziosità tale da fare il giuoco di quanti egli intende colpire, Giannini ha potuto presentare come “riconoscimento al Cavaliere di un legittimo impedimento automatico” o di un “lodo Alfano provvisorio”».16
Una tela di rapporti avvolgenti
Nei primi anni Ottanta i compagni della «destra» del Partito comunista in cui si riconosce Napolitano dismettono l’abito grigio da burocrate e non disdegnano lo stile disinvolto di Bettino Craxi e dell’imprenditore di riferimento Silvio Berlusconi. I comunisti dal volto umano, o per meglio dire «di mondo», non hanno scrupoli morali nel dialogare col nuovo blocco di potere e non trovano nulla da ridire sugli esponenti socialisti massoni e piduisti che si affermano in quel periodo.
Ogni sezione del Psi – racconterà poi l’ex Gran maestro del Grande Oriente d’ Italia Giuliano Di Bernardo – avrebbe dovuto diventare, nei progetti di Licio Gelli, una dépendance della massoneria e della P2.17 Sono gli anni ruggenti del boom economico e della «Milano da bere», dei programmi sulle reti Fininvest che tengono incollati al piccolo schermo milioni di spettatori; gli anni dell’«onda lunga», la lenta crescita elettorale socialista. Nel 1983 Craxi, grazie al suo ruolo di ago della bilancia fra i due maggiori partiti italiani, diventa il primo presidente del Consiglio di sinistra con l’appoggio della Dc.
Gli ambienti legati a Napolitano si avvicinano al sodale di Craxi, Silvio Berlusconi, un costruttore dalle fortune di provenienza discussa, insignito del titolo di Cavaliere del lavoro e già iscritto alla loggia Propaganda 2 di Licio Gelli18 con la tessera 1816 da «apprendista muratore». La sua mossa vincente, peraltro già indicata nel «piano di rinascita democratica» della P2, è il controllo dei media, a partire dalla televisione. La rete via cavo fondata nel 1974 a Segrate, Telemilano-Canale 5, è un utile veicolo di consenso per il Psi e per la corrente andreottiana della Dc. Con un’offerta basata su commedia leggera, sport e bellezze procaci, la televisione berlusconiana inietta nei telespettatori un modello di intrattenimento che anestetizza l’impegno civico.
Berlusconi pensa in grande perché ha le coperture giuste. In pochi mesi compra «il Giornale» di Indro Montanelli e acquista tv locali per trasmettere lungo la penisola, nonostante il divieto della Corte costituzionale.19 La prima legittimazione della prassi illegale reca la firma del governo di Arnaldo Forlani (Dc), che nel 1980 acquista tramite la Rai i diritti televisivi europei del Mundialito, un torneo calcistico organizzato in Uruguay, paese che ospita il Maestro venerabile Licio Gelli e nel quale ha da poco preso il potere una giunta militare. Berlusconi aggira le sentenze mandando in onda su tutte le reti del network il contenuto di una serie di copie di videocassette preregistrate. I pretori di Roma, Pescara e Torino, ottemperando alla disposizione della Corte costituzionale, ordinano di impedire la diffusione nazionale a quegli impianti. Con la tecnica che Montanelli definirà in gergo napoletano «chiagne e fotte», Berlusconi spegne le tv facendo credere di essere stato costretto dalla magistratura, per poi gridare allo scandalo. A risultare decisiva in quei frangenti è l’amicizia con Craxi, conosciuto alla fine degli anni Settanta tramite l’architetto Silvano Larini, prestanome e collettore di tangenti per il segretario socialista.20
L’asse Milano-Mosca
Quando nel 1983 Craxi varca la soglia di Palazzo Chigi, l’evento rappresenta la ciliegina sulla torta per la posizione dominante dell’impero di Segrate. I comunisti lamentano la crescita del potere berlusconiano, ma sempre a cose fatte. D’altronde sono molto più interessati a rivendicare un ruolo nella tv pubblica, la terza rete della Rai. Nell’agosto del 1984, appena «Sua Emittenza» ingloba Rete 4 da Mondadori, il Pci diffonde un comunicato di denuncia della posizione di monopolio assunta da Berlusconi nel settore privato, ma nei fatti si predispone a patti segreti.21 Il 25 ottobre il parlamento approva, grazie al mancato ostruzionismo del Pci e ai voti del Msi che rimpiazzano i contrari della sinistra Dc, la prima legge ad personam della storia repubblicana, il decreto Craxi che consente alla Fininvest di trasmettere a livello nazionale in barba alla Consulta. Il desiderio inconfessato di alcuni dirigenti comunisti va oltre la lottizzazione della Rai: mira a ingraziarsi il magnate televisivo legato al Psi.
Alternare alti lai per le leggi pro Berlusconi a precedenti inerzie è una tattica degna della doppiezza di Palmiro Togliatti. E Giorgio Napolitano condivide la linea del partito senza sbavature, con la proverbiale prudenza che di fatto contribuisce ad aiutare l’emergente Silvio Berlusconi.
In quegli anni il capogruppo alla Camera Giorgio Napolitano si conquista il ruolo che ancora manca al suo arco: quello di «ministro degli Esteri» del Pci. È l’anello di congiunzione nei rapporti con i partner della sinistra nel mondo e con la stessa Urss, che aveva rifornito di rubli i partiti comunisti europei ufficialmente fino al 1978.
L’ex deputato parmigiano Gianni Cervetti (molto vicino a Napolitano), laureatosi in Economia a Mosca, poi segretario amministrativo e finanziario del Pci, fautore dell’alleanza coi craxiani nel laboratorio di Milano, ha ricordato in un suo libro l’esistenza di «una sorta di patrimonio di riserva costituito da investimenti in titoli e preziosi realizzati sulla base degli accantonamenti tratti dagli afflussi diretti […]. In vari ambienti circolava la voce secondo la quale un consistente accordo commerciale dell’Eni per l’importazione di gas dall’Unione Sovietica avrebbe garantito negli anni a venire a diversi partiti – tra cui il nostro – una percentuale sulla quantità effettivamente importata, in ragione dell’opera di intermediazione e dei buoni uffici frapposti per firmare l’accordo alle migliori condizioni».22
Napolitano vola più alto, funge da ambasciatore del partito. Torna in Urss nel giugno del 1986 dopo l’avvento di Michail Gorbaciov, il presidente che tenta di procedere verso il disarmo bilaterale e il graduale approdo alla democrazia. L’agenda si infittisce: incontra il presidente socialista spagnolo Felipe Gonzales, si reca in visita ufficiale in Israele, partecipa alle riunioni dell’Aspen Institute. In particolare lega con il leader del partito socialdemocratico tedesco (Spd) Willy Brandt, presidente dell’Internazionale socialista.
Mentre Napolitano ottiene riconoscimenti in ambito europeo facendo cadere altri steccati ideologici, il Cavaliere sigla con i compagni miglioristi il primo rapporto commerciale, finanziando generosamente il mensile della loro corrente, «Il Moderno». Oltre al denaro dei costruttori Giovanni Ligresti, Marcellino Gavio e Giorgio Simontacchi della Torno Costruzioni, arrivano i contributi di Fininvest, della concessionaria di pubblicità Publitalia e dell’assicurazione Mediolanum. Sul numero del febbraio 1986 si legge che «la rivoluzione Berlusconi [è] di gran lunga la più importante, cui ancora qualcuno si ostina a non portare il rispetto che merita per essere stato il principale agente di modernizzazione, nelle aziende, nelle agenzie, nei media concorrenti. Una rivoluzione che ha trasformato Milano in capitale televisiva e che ha fatto nascere, oltre a una cultura pubblicitaria nuova, mille strutture e capacità produttive».23
Nell’aprile del 1987 la rivista esce con un’intera pagina pubblicitaria della Fininvest, la prima di una lunga serie. Il direttore Ludovico Festa spiegherà molti anni dopo: «La Fininvest ci dava pubblicità, come anche a molte feste dell’Unità. In quel momento avere degli amici del Pci attenti alle ragioni di una televisione privata faceva comodo a Berlusconi».24 Insomma, i rapporti dell’anticomunista Silvio con il «diavolo rosso» sono buoni. Non solo perché «Il Moderno» è quasi un bollettino della Fininvest, ma anche perché Berlusconi riesce in ciò che è off limitsper la stragrande maggioranza dell’imprenditoria occidentale: un business nel cuore dell’Unione Sovietica. Mentre si disgregano una a una le dittature dell’Est Europa, i poteri della finanza si muovono oltre l’ex cortina di ferro, anticipando le mosse per gestire da una posizione privilegiata il trapasso comunista. Ma sarebbe impossibile farlo senza l’avallo del Pci. Il 4 maggio 1988 Silvio Berlusconi organizza una conferenza stampa a Roma per un clamoroso annuncio: il contratto stipulato tra la tv di Stato dell’Urss e Publitalia, da quel momento concessionaria esclusiva per la pubblicità di tutte le imprese europee sulla tv di Stato dell’impero sovietico. Sua Emittenza si attribuisce ogni merito, parlando di una trattativa andata avanti per un anno e mezzo, «senza interventi né del Pci né di altre forze politiche». Parola di Cavaliere.
Un altro affare invidiabile per il tycoon di Arcore si perfeziona grazie all’intercessione di Antonio Fallico, oggi presidente di Zao Bank (Banca Intesa Russia). Originario di Bronte (Catania), compagno di collegio del fondatore di Publitalia Marcello Dell’Utri, Fallico – un ex militante del Pci che ancora oggi si definisce comunista convinto25 – fu inviato in Urss a creare il primo avamposto del credito italiano, nella fattispecie della Banca cattolica del Veneto, poi assorbita dal Banco Ambrosiano e a sua volta da Intesa. In quarant’anni ha intrec ciato relazioni diplomatiche di altissimo livello, rimbalzando da Verona (dove insegna all’università) a Mosca, grazie alla nomina a console onorario di Russia dopo la fondazione della filiale di Gazprom per l’Italia. A Roma ha ospitato il Comitato italo-russo per il disarmo dei sottomarini nucleari ed è stato mediatore principe dell’incontro tra patriarcato ortodosso e ordine dei francescani, passando da un affare all’altro, dalla politica alla religione.26
Tre lustri dopo ritroviamo gli stessi personaggi – Fallico, Berlusconi e le forze di centrosinistra – uniti negli affari del gas con il Cremlino. L’ex craxiano Paolo Scaroni, presidente dell’Eni dal 2005, firma l’accesso diretto di Gazprom alla vendita in Italia e contratti pluriennali «take or pay».27 La modalità è un fardello per il Belpaese in quanto finisce per scaricare sulle bollette del gas i costi della riduzione dei consumi dovuti alla crisi economica.
Sin dagli anni Ottanta, gli interessi di Fininvest in Unione Sovietica riflettono un valore che va oltre il computo econo mico-finanziario. La campagna di Russia di Berlusconi, primo capitalista a violare il tempio del comunismo, resta un fattore significativo.
I miglioristi nella bufera di Mani pulite
Per un paradosso della storia, la corrente migliorista cui appartiene Napolitano perde credibilità proprio mentre gli eventi internazionali si incaricano di confermarne le ragioni. I riformisti, già accusati di intelligenza col nemico craxiano, entrano in crisi durante Tangentopoli. Una serie di inchieste giudiziarie che scoperchia il sistema di potere criminale annidato nel Pentapartito vede tra i protagonisti principali il Psi, ma lambisce anche il Pci.
Sono proprio i miglioristi a essere coinvolti nelle indagini di Mani pulite. Il pm Tiziana Parenti, scavando sugli appalti della Metropolitana milanese (Mm), scopre che, perlomeno dal 1987, la ripartizione delle bustarelle coinvolge tutti i partiti. A fianco del presidente in quota socialista Antonio Natali, il ruolo di collettori spettava al presidente di Legacoop lombarda Sergio Soave e al funzionario comunista Luigi Carnevale, numero due della Metropolitana milanese, incaricato di girare parte del denaro al segretario cittadino Roberto Cappellini. Scrivono i giudici nella sentenza, resa definitiva dalla Cassazione il 16 aprile 1998: «Mentre fino ad allora il Pci aveva ricevuto sporadicamente, per il tramite di Antonio Natali, delle contribuzioni illecite, a partire da questo momento una quota fissa fu destinata alle casse della federazione milanese del partito attraverso l’attività svolta da Sergio Soave e soprattutto da Luigi Carnevale. Per contro, proprio dal 1987 anche le cooperative legate al Pci, sino ad allora escluse, entrarono nel “sistema Natali” alle condizioni imposte alle altre imprese, cioè l’aggiudicazione di appalti attraverso il pagamento ai partiti di una quota percentuale al valore di commessa».28
La deposizione del testimone Franco Bassanini, della corrente occhettiana, fotografa il clima in un partito che nel 1990 aveva deciso con sofferenza di appoggiare il sindaco craxiano Paolo Pillitteri per evitare che passasse con la Dc: «Verso la nostra area c’era un clima di astioso disprezzo, ci consideravano i moralisti senza cultura di governo, che non hanno capito che la politica costa, che bisogna sporcarsi le mani».29
Giorgio Napolitano viene tirato in ballo quando Bettino Craxi, interrogato dal pm Antonio Di Pietro nel processo Enimont, divaga facendo allusioni pericolose: «Come credere che il presidente della Camera, onorevole Giorgio Napolitano, che è stato per molti anni ministro degli Esteri del Pci e aveva rapporti con tutta la nomenklatura comunista dell’Est a partire da quella sovietica, non si fosse mai accorto del grande traffico che avveniva sotto di lui, tra i vari rappresentanti e amministratori del Pci e i paesi dell’Est? Non se n’è mai accorto?».30
Anche i finanziamenti a «Il Moderno», proseguiti fino al 1990, danno origine a un processo che si chiude nel 1996 con un’assoluzione per i dirigenti Carnevale e Soave, poi annullata dalla Cassazione con rinvio in Appello. Le toghe di ermellino scrivono nelle motivazioni: «“Il Moderno” era diretta promanazione ed espressione della corrente migliorista del Pci-Pds […]. Il finanziamento della grande imprenditoria si traduceva in finanziamento illecito al Pci-Pds milanese, corrente migliorista». La nuova sentenza, depositata l’11 febbraio 1998, fa scattare la prescrizione del reato.
A Napoli invece l’imprenditore Vincenzo Maria Greco racconta ai pm di tangenti per la costruzione della metropolitana collinare. Il democristiano Paolo Cirino Pomicino viene accusato di aver intascato quattro miliardi di lire dal 1987 al 1990 da aziende che facevano parte del consorzio Metropolitana di Napoli Spa (Mn), concessionaria del Comune per i lavori. A verbale Greco parla del coinvolgimento del Partito comunista: «Pomicino ebbe a dirmi che aveva preso l’impegno con il capogruppo alla Camera del Pci dell’epoca, onorevole Giorgio Napolitano, di permettere un ritorno economico al Pci. Mi spiego: il segretario provinciale del Pci dell’epoca era il dottor Umberto Ranieri, attuale deputato e membro della segreteria nazionale del Pds. Costui era il riferimento a Napoli dell’onorevole Napolitano. Pomicino mi disse che già riceveva somme di denaro dalla società Metronapoli e che si era impegnato con l’onorevole Napolitano a far pervenire una parte di queste somme da lui ricevute in favore del dottor Ranieri».31
L’iscrizione nel registro degli indagati di Napolitano è un atto dovuto, seguito dall’archiviazione alla fine del 1993, così come per Ranieri. Pomicino nega di aver versato denaro a Ranieri, ma ricorda due fatti: che i comunisti votarono in parlamento a favore dell’articolo della finanziaria, pur contestata complessivamente, che prevedeva 500 miliardi di vecchie lire di finanziamento per Metronapoli; di aver saputo di tangenti ai compagni da un professionista della società, l’ingegner Italo Della Morte: «Mi disse che versava contributi anche al Pci. Tutto ciò venne da me messo in rapporto con quanto accaduto durante l’approvazione della legge finanziaria». L’ingegner Della Morte non ha potuto confermare né smentire perché scomparso alcuni anni prima. Solo Pomicino sarà condannato nel processo di primo grado a due anni per finanziamento illecito e assolto in Appello per intervenuta prescrizione.
Napolitano, all’epoca presidente della Camera, replicava duramente alla pubblicazione dei verbali: «Come ormai è chiaro, da qualche tempo sono bersaglio di ignobili invenzioni e tortuose insinuazioni prive di qualsiasi fondamento. Esse vengono evidentemente da persone interessate a colpirmi per il ruolo istituzionale che ho svolto e che in questo momento sto svolgendo. La dirittura morale testimoniata da tutti i miei comportamenti è troppo nota e riconosciuta per poter essere scalfita da qualsiasi menzogna. Valuterò con i miei legali ogni iniziativa a tutela della mia posizione».32
Il dato politico di una compartecipazione della corrente migliorista al sistema delle tangenti però resta, tanto che il filosofo Salvatore Veca, dopo anni di alte discussioni sulle frontiere del riformismo e del liberismo, ha sviluppato una severa autocritica: «Lo ammetto, potevamo, dovevamo fare di più e meglio. Abbiamo sottovalutato la vischiosità di un certo costume collusivo, dominante nel nostro paese, anche nell’ambiente intellettuale. Il fatto è che una cultura civile, etica e politica non si improvvisa a colpi di articoli, di seminari e di libri raffinati. Deve essere una motivazione diffusa, un valore condiviso».33
Il 7 novembre 1994, nel corso dell’ultima riunione a Botteghe oscure, Emanuele Macaluso sanciva la fine dell’esperienza migliorista.
Servitore delle istituzioni e «sponsor» di Silvio
Quando la corrente migliorista si scioglie, per Giorgio Napolitano è già iniziata una nuova fase, quella di servitore delle istituzioni. Da presidente della Camera mantiene la consueta freddezza in mezzo alla tempesta di Mani pulite, mentre deputati e ministri ricevono avvisi di garanzia e richieste di autorizzazioni a procedere da parte della magistratura. Napolitano stigmatizza le violente dichiarazioni di esponenti della Lega nord e del Msi e si dice fermamente contrario allo scioglimento del «parlamento degli inquisiti».
Due anni dopo, salito al governo Berlusconi, viene sostituito da Irene Pivetti della Lega nord. Nel dibattito sulla fiducia accade un fatto inconsueto. Al termine del ponderato intervento di Napolitano scatta un applauso da parte del gruppo di Forza Italia, sospinto dal ministro per i Rapporti col parlamento Giuliano Ferrara, collaboratore della Cia (per sua stessa ammissione), figlio del dirigente comunista Maurizio e già braccio destro di Craxi. Il neo premier Berlusconi si alza e va a stringere la mano al presidente della Camera uscente Napolitano.
Nel 1996, con la vittoria ulivista di Romano Prodi, Napolitano diventa il primo ministro degli Interni postcomunista. Le sue dichiarazioni sono messaggi rassicuranti al potere:
«Non vado al Viminale per aprire armadi […]. Non intendo rifare cinquant’anni di storia».34 Napolitano avrebbe preferito ricoprire il ruolo di ministro degli Esteri. Da sempre il suo orizzonte è internazionale: la via del socialismo europeo, l’atteggiamento da lord inglese, gli incontri coi principali leader mondiali da «ambasciatore del Pci». Si sente pronto per un grande incarico in ambito europeo.
Al Viminale tuttavia – a parte la già citata scivolata della fuga di Gelli – mette in pratica quelle doti di puntigliosa pragmaticità che avevano costellato anni di sofisticate teorie. Senza tema di essere bollato come law and order, si schiera dalla parte dei prefetti, avversati per anni dalla sinistra, avviandone la riorganizzazione; si occupa di sicurezza, predisponendo piani contro la microcriminalità e firmando assieme alla senatrice Livia Turco la legge che regolamenta l’immigrazione e istituisce i centri di permanenza temporanea (Cpt).
Alla caduta del premier Prodi si renderà di fatto indisponibile per nuovi ministeri, pur non sottraendosi al dibattito pubblico sulle istituzioni. Sospinto dai voti della Campania, ritorna a Bruxelles per andare a presiedere la Commissione affari costituzionali dell’Europarlamento. Nel 2004 è in prima fila in Campidoglio per la firma del Trattato europeo che resterà nella storia. Nel partito invece il suo impegno va diradandosi: l’approdo nella grande famiglia del socialismo europeo resta inattuato e il Partito democratico che va profilandosi non lo convince.
Nel 2005 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nomina Napolitano senatore a vita, un premio alla carriera che però è tutt’altro che finita. Quando il centrosinistra torna al governo, pochi s’immaginano che sia il momento di Giorgio Napolitano. Il 6 maggio 2006 «Il Foglio» di Giuliano Ferrara ospita il manifesto della candidatura di Massimo D’Alema alla presidenza della Repubblica al termine del mandato di Ciampi. È il segretario dei Ds Piero Fassino a dare il singolare annuncio: «La guerra è finita, perciò la candidatura di D’Alema al Quirinale deve essere il primo atto di una pace da costruire e non l’ultimo atto di una guerra che continua. Chiedo a Berlusconi e a tutta la Cdl di valutare alla luce del sole la possibilità di eleggere D’Alema».
Fra i punti programmatici spicca l’ossessione della gauche caviar: «Evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica». Il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, intervistato da Fabio Fazio nel programma Che tempo che fa, si dice favorevole, seguito da Marcello Dell’Utri: «D’Alema dica qualcosa di istituzionale e avrà spianata la strada del Colle […]. Riprendere il discorso di insediamento della Bicamerale sul sistema delle garanzie e, mentre andiamo verso il referendum, spiegare che la riforma costituzionale fatta dal centro destra è una legge da limare ma da lasciare nel suo insieme».35
Dell’Utri forse danneggia la candidatura al Quirinale di D’Alema, che tramonta per l’avversione di Italia dei valori, Fini, Casini e una parte del centrosinistra. A quel punto Ds e Margherita lanciano Giorgio Napolitano, che viene eletto il 10 maggio 2006, al quarto scrutinio e con la maggioranza semplice di 543 voti.
Silvio e Giorgio: affinità e «fratellanza»?
Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico.
Di Berlusconi è nota l’appartenenza massonica, che non si manifesta solo nella documentata affiliazione alla loggia P2 di Licio Gelli, ma anche nel sistema di simboli che costellano il cosiddetto mausoleo di Arcore, la tomba che il Cavaliere ha fatto realizzare per sé e per i propri cari dallo scultore Pietro Cascella.
Ma c’è dell’altro. Il discusso leader del Grande Oriente democratico Gioele Magaldi, noto per le sue dichiarazioni forti, ha affermato in un’intervista:36 «Il fratello Silvio Berlusconi, iniziato apprendista “libero muratore” nel 1978 presso la loggia P2, e diventato successivamente “maestro” in questa stessa officina, ha proseguito il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990. Successivamente, ha ritenuto di farsi una loggia segreta e sovranazionale autonoma. Uno dei nomi utilizzati per questa offi cina era “loggia del Drago”».37
Magaldi rivela: «L’attività massonica di Berlusconi e Marcello Dell’Utri è stata essenziale per costruire il consenso sociale e politico che ha condotto alla vittoria elettorale del 1994. Dell’Utri e altri fratelli della cerchia massonica di Villa San Martino hanno girato la penisola in lungo e in largo, come proconsoli massonici di Berlusconi, intessendo accordi con la maggioranza delle logge del Belpaese in favore della neonata Forza Italia. In anni successivi, le relazioni massoniche dell’autoproclamatosi Maestro venerabile di Arcore gli hanno consentito di risollevarsi in momenti di particolare difficoltà».
Dalla conversazione con Magaldi emergono altri dettagli degni di nota: «Più in generale, Berlusconi coltiva interessi esoterico-iniziatici da molti decenni. La qual cosa da un lato ha spinto lui e la sua seconda moglie Veronica Lario a iscrivere i propri figli a scuole di orientamento pedagogico antroposofico (cioè ispirate agli insegnamenti spirituali esoterizzanti di Rudolf Steiner), dall’altro ha determinato la sua ferma volontà di percorrere un sentiero massonico, ancorché riservato e dissimulato pubblicamente. Ma riservato fino a un certo punto: nella cerchia intima del padrone di Mediaset sono in molti ad aver praticato e a praticare officine libero muratorie o a frequentare circuiti di spiritualità esoterica». Tra questi, secondo Licio Gelli, l’ex governatore del Veneto ed ex ministro Giancarlo Galan, ex dipendente di Publitalia e poi tra i fondatori di Forza Italia, che il capo della P2 ha qualificato come massone.38
Sul «fratello» Berlusconi, Magaldi ha aggiunto: «Certamente, la sociabilità massonica è servita – a lui come ad altri – anche a facilitare obiettivi di potere e lucrosi affari, ma esiste nel “fratello Silvio” una vocazione autentica e genuina verso discipline esoteriche come l’astrologia, l’ermetismo egizianeggiante e la magia sessuale». Un’indicazione, quest’ultima, che richiama alcuni «rituali» delle notti del bunga bunga.
È la massoneria che orienta Berlusconi o Berlusconi che orienta la massoneria? Secondo Magaldi, «nessuna delle due ipotesi. Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che Magaldi non ha avuto timore di fare assumendosene la responsabilità.
Torniamo a Berlusconi, che ha rinnegato l’esperienza della P2: una volta affiliati si rimane massoni per tutta la vita? O essere in sonno significa interrompere ogni rapporto con l’Obbedienza? Secondo Magaldi, «l’iniziazione massonica è indelebile come quella sacerdotale: essa presuppone, secondo la Weltanschauungmassonica, una trasmutazione esistenziale e spirituale non reversibile. Mettersi in sonno non significa cessare di far parte della catena iniziatica libero-muratoria, la quale va persino oltre le singole “comunioni” o “obbedienze” territoriali, afferendo a una dimensione planetaria e universale. Spesso, il cosiddetto “assonnamento” equivale soprattutto a una presa di distanza da una determinata obbedienza, ma può significare l’avvicinamento ad altri cenacoli massonici più o meno ufficiali».
Molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano. È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un «fratello».
Dichiarazioni certamente insufficienti. Abbiamo perciò voluto approfondire questa pista. E abbiamo incontrato un’autorevole fonte, che ha chiesto di rimanere anonima: un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd.