Solitudine: ambivalenze e opportunità
di Attilio Fabris
Aprirei questa nostra conversazione con un testo di K. Gibran, poeta libanese, che contiene preziosi luci (è la potenza del linguaggio poetico) per dare avvio al nostro discorso:
Cantate e danzate insieme e siate felici,
ma lasciate che ciascuno sia solo.
Anche le corde del liuto sono sole
pur se vibrano con la stessa musica.
State insieme ma non troppo vicini
perché i pilastri del tempio sono separati
e la quercia e il cipresso
non crescono l’uno all’ombra dell’altro.
La solitudine è qui descritta come condizione perché si possa crescere vicendevolmente divenendo pienamente se stessi, senza tentare di vivere “l’uno all’ombra dell’altro”.
Difficile scelta perché non ci rassicura, anzi innesca la paura di rimanere senza alcun tipo di appoggio: è per questo che solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie.
Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla – è il caso dell’esperienza delle grandi religioni e filosofie – con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità del mistero che ci abita, come luogo privilegiato in cui far esperienza dell’Assoluto.
Essa si presenta perciò come un’esperienza ambivalente-critica che può divenire occasione di di-sperazione come, al contrario, luogo di crescita e di riappropriazione di sé e di autentica apertura all’Altro.
1. L’inevitabile solitudine dell’Io
L’etimologia della parola può essere illuminante: la parola “solitudine” trova il suo etimo latino corrispondente nel verbo “se-parare”, parola che rimanda a quella iniziale separazione necessaria anche se dolorosa del nascituro dalla madre. In quel momento la persona inizia la sua avventura da “sola” nel mondo, non più collegata alla madre. Da quel momento la persona intraprende il suo cammino “solitario” nel mondo. E come la nascita segna l’inizio della nostra solitudine così pure l’ultimo respiro segna e conferma drammaticamente che ciascuno è solo al mondo. Consapevolezza faticosa e dolorosa da accogliere perché accettazione del fatto che ciascuno si ritrova “gettato” (per usare il termine haidegheriano) da “solo nel mondo” come essere unico e irripetibile.
Perciò alla solitudine – per il semplice fatto di nascere e di dover morire – non si sfugge! Sarebbe assurdo perciò rifiutarla e negarla. Con essa occorre “fare i conti” dal primo all’ultimo momento della vita.
Si prende consapevolezza della propria solitudine quando ci si incontra/scontra, in modo più o meno improvviso, con la propria unicità/diversità/responsabilità dinanzi alla vita. Si tratta di un’esperienza che emerge sempre più imperiosa e talvolta drammatica man mano che la persona avanza nel cammino della vita (la nascita, lo svezzamento, l’asilo, la scuola, l’adolescenza, la giovinezza con i suoi progetti, l’età adulta con le sue responsabilità e sconfitte, la vecchiaia, la malattia, la morte): “si diventa solitari quando si ha l’improvvisa percezione della propria inalienabile solitudine” scriveva il monaco trappista Thomas Merton nel libro intitolato “Pensieri dalla solitudine”.
Proprio perché inevitabile e situazione nella quale l’uomo si ritrova “solo” al mondo ecco che proprio nella solitudine egli è chiamato a dare una risposta alla domanda essenziale della vita: “Cosa ci sto a fare al mondo? Che senso ha la mia vita?”
Fonte: http://www.abbaziaborzone.it/index.php/2009/01/28/solitudine-ambivalenze-e-opportunita/
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