Che mani lunghe avevano i FRATELLI D’ITALIA!

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Ovunque si fermino, i fratelli d’Italia prendono possesso delle migliori residenze e usano portar via souvenir: i proprietari, a volte, non troveranno più manco le posate.
Quando Garibaldi si sistema nella reggia borbonica, i suoi garibaldini la spogliano di qualunque cosa si possa vendere.
Finiranno in fondo al Tirreno, con la nave su cui li trasportava Ippolito Nievo, dodici bauli di documenti sulla gestione dei quattrini razziati per l’impresa, e per agi, ozi e vizi del condottiero e della sua corte (da Alexandre Dumas alle donne, che daranno tutto alla causa, in ogni senso, e le saranno fedeli: Jessie White e una sua compagna si tolsero pure le mutande e ne fecero bende per i feriti, in uno scontro con gli austriaci, nel 1866).
Prematura e sospetta pure la fine dei due garibaldini siciliani, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, che avevano trattato con i picciotti per averne l’appoggio: il primo colpito alle spalle mentre avanza con le camicie rosse su Palermo; il secondo da falsi carabinieri, tre anni dopo, in un agrumeto (riconoscete lo stile?).
Su qualcosa si cerca di risparmiare, vedi la tragicomica vicenda del generale Francesco Landi che, a Calatafimi, mentre il comandante Sforza, con cinquecento uomini, sta battendo tremila garibaldini (lo stesso generale rischia di morire), rifiuta rinforzi e munizioni, poi, per fermare i suoi fa suonare la ritirata (succederà quasi ogni volta che Garibaldi è nei guai, tanto che Gulì scrive: «I trombettieri furono la rovina del Regno di Napoli»). Ma quando Landi tenta di incassare, in banca, una polizza, di quattordicimila ducati datagli, assicura, da Garibaldi, scopre che sulla sua copia ci sono tre zeri di troppo. E muore di crepacuore, si dice; potrebbe essere vero: l’età c’era, la fregatura anche e il dispetto era forte. Il figlio Nicola otterrà, poi, una smentita da Garibaldi, ma…
Napoli è uno scrigno; re Francesco se ne va a Gaeta lasciando tutto: l’oro del regno, opere d’arte, musei ricolmi di tesori, milioni di ducati del patrimonio personale e la dote della moglie (quando i Savoia furono costretti all’esilio, nel 1946, diciotto treni partirono per la Svizzera: solo bagaglio a mano…).

Francesco_II_e_Maria_Sofia_1965

Francesco_II_e_Maria_Sofia_1965

Angela Pellicciari riporta la denuncia del deputato Boggio, massone, amico e collaboratore di Cavour: «Somme ingenti, somme favolose scompaiono colla facilità e rapidità stessa colla quale furono agguantate dalle casse borboniche».
Che fine fa quella montagna d’oro? E quanto grande era davvero? Francesco Saverio Nitti, che ebbe accesso ai documenti, contò più di 443 milioni di lire-oro (dei 664 di tutta l’Italia messa insieme): quasi metà dello spaventoso deficit del Piemonte.
Per capire di cosa stiamo parlando, ho chiesto al professor Vincenzo Gulì (è l’argomento da lui maggiormente studiato): a cosa corrisponderebbero, oggi?
Ecco la sua risposta: «A circa duecento miliardi di euro, applicando la rivalutazione e l’interesse legale. Se poi si aggiungono i 33 milioni di ducati del conto personale del re Borbone si arriva a 270 miliardi di euro. In materia economica, però, è doveroso non fermarsi al mero interesse legale. Anche perché il tasso di rendimento per i capitali dell’ex regno era stato ben superiore, sino al 1861. Un plausibile raddoppio dei soli interessi dei capitali iniziali porta al valore più realistico di circa cinquecento miliardi. Non basterebbero le entrate del bilancio statale 2009 (“appena” 463 miliardi di euro), per estinguere questo primo debito con i popoli meridionali».
[…] Il conto è incompleto: non sono considerati i beni che vennero razziati in enti, case, chiese, regge (e quello, ormai, lo sanno Dio e i ladri). Ma, soprattutto, non viene calcolato l’oro circolante.
Di che si tratta?
Gli altri stati emettevano carta-moneta, il cui valore era garantito dalle riserve in oro accumulate. Il sistema si reggeva sulla convertibilità: quando vuoi, vai in banca, gli ridai la loro carta e ti prendi l’oro equivalente. In teoria. Nel regno delle Due Sicilie, la moneta in circolazione portava con sé il suo valore: era d’oro. E le riserve servivano al ripascimento del circolante che andava fuori dal giro, usato per altri scopi o perso. A quanto ammontava quest’altra quantità di oro? «Alcuni parlano del doppio dei famosi cento milioni di ducati-oro della riserva; e soltanto la metà (dato verificato) sarebbe poi passata per il cambio in lire. Si tratta, quindi, di circa altri mille miliardi di euro (e il totale dell’oro sottratto sale a millecinquecento; nda), che furono assorbiti dal Nord negli anni seguenti, con il drenaggio fiscale antimeridionale, come accadde pure alla nuova ricchezza prodotta a Sud in lire. Bisognerebbe andare a vedere le entrate fiscali del bilancio dello stato e la parte versata-dal Mezzogiorno; ma il tutto sarebbe molto approssimativo. Sono senz’ altro superiori altri danni; e lì si parla di migliaia di miliardi di euro.»
Un conteggio complesso, che il professor Gufi sta facendo.
Ne aspetteremo i risultati. Un’idea, non verificabile, del possibile totale, mi è stata data dall’erede dell’ultimo direttore generale del ministero dell’Interno borbonico. Ma posso dirne poco, perché quando ho chiesto di vedere i documenti, la corrispondenza è stata interrotta. Questo signore vive in Gran Bretagna e conserva il diario del suo avo, che dovrebbe finire nel patrimonio di una grande università, forse degli Stati Uniti, dopo un primo studio in quella di Cambridge.

Cavour

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Fra quelle pagine sarebbe riportata la direttiva di Cavour per trasferire l’oro al Nord; e ci sarebbero indicazioni sull’entità del furto. L’ordine di grandezza che mi è stato riferito è colossale; non credo abbia molto senso dirlo, senza spiegare in base a quali dati ci si arrivi. E mi attengo, per ora, al certo, l’oro delle riserve, più quello circolante:
1.500 miliardi di euro.
[…]Con la sua snobistica brutalità, Massimo D’Aizeglio aveva detto cos’era indurre, su incarico della massoneria (che glielo aveva chiesto), Carlo Alberto al Risorgimento: «Invitar un ladro a rubare».
Con l’Unità del paese si «realizza un enorme passaggio di ricchezza che fa la fortuna di un’esigua minoranza di borghesi, militari e nobili» scrive Angela PeIlicciari (I panni sporchi dei Mille). Una delusione atroce per i tanti idealisti del Sud e del Nord, che per il progetto di un’Italia unita spesero vita e beni propri.
In una lettera a Pasquale Villari, nel 1899, Giustino Fortunato, che ne fu tenace, quasi mistico sostenitore, sconfortato, confida che l’Unità «è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’Unità ci ha perduti». E per arrivare a dirlo lui! […]
Ma il paese era ormai uno. E parte dei soldi razziati doveva pur tornare, in qualche modo, al Sud. Pensatevi meridionali, se non lo siete. In I vinti del Risorgimento (o in altri testi) vi succede di leggere cose come questa: «In un anno, da Torino furono prelevati dalle casse dell’ex Regno delle Due Sicilie oltre ottanta milioni di lire». Reinvestiti al Sud: 390.625 lire, «oltre la concessione di dieci milioni alla Tesoreria di Napoli. Denaro concesso solo sulla carta, mai realmente versato» (la stirpe dei Tremonti, comunque si chiamino, viene da lontano…). Con la sola vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici (requisiti) dell’ex regno borbonico, la nuova Italia incassò 600 milioni di lire (altri 500 miliardi di euro, circa, rapportati a oggi), che presero la via del Nord.
Il paese è unificato solo da Nord a Sud, non il contrario: al Banco di Napoli si vieta di espandersi nel resto d’Italia (rimanga “delle Due Sicilie”), mentre da Torino le banche aprono filiali al Sud; al Banco di Napoli, per legge, potevi chiedere di convertire la moneta (davi carta, portavi via oro); la stessa operazione era proibita con la Banca nazionale di Torino, che poteva tenersi i suoi lingotti e prendersi quelli di Napoli (bastava stampare banconote e chiedere il cambio). E quando «nacque la Banca d’Italia,» scrive Di Fiore «al Mezzogiorno ne furono concesse 20.000 azioni contro le 280.000 del Centro Nord».
Curiosa Unità, secondo la quale: quello che è mio è mio; quello che è tuo, sempre mio, quasi tutto.

Pino Aprile – TERRONI – Piemme

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