Il pane

Maria Nepita, meglio nota come Maria a Piamuntisa, prepara le pagnotte sul bordo della mattra e le mette a lievitare sul letto

Maria Nepita, meglio nota come Maria a Piamuntisa, prepara una pitta sul bordo della mattra. Sul letto sono già poggiate alcune pagnotte

 

«La nostalgia è una coscienza involontaria, una coscienza morale, positiva più che proibitiva. Essa richiama alla mente di una persona, in modo da dargliene esperienza, i beni che ha conosciuto e perduto. La nostalgia non è illusione né ripetizione; è un ritorno a qualcosa che non abbiamo mai avuto. Eppure la sua vera forza sta proprio nel fatto che in essa quel che è perduto è riconosciuto, diviene familiare. Attraverso la nostalgia non solo conosciamo quello che ci è più caro, ma anche la qualità di esperienze che ci neghiamo abitualmente. Per questo la nostalgia è un sentimento morale. È anche il sentimento morale di questo secolo».

Mi è tornata in mente la concezione filosofica di Ralph Harper (che qui cito) che mi sembra una delle più originali per ripensare il concetto della nostalgia anche in questa nostra epoca. Come Harper penso che il nostalgico «guarda al passato non perché non vuole il futuro, ma perché vuole un presente autentico». La nostalgia, in questa accezione, è rigenerativa e richiede l’inizio di una vita nuova.

Vito Teti

Vecchio forno

Vecchio forno in un’abitazione di Orsomarso

 

Un vecchio forno.

Torna alla memoria il rito del pane, che aveva qualcosa di sacro. E tornano anche volti, gesti, odori, sapori, affetti. Il sentimento dell’essenziale, che dava valore alle cose e regolava sogni e bisogni.

Il pane era materia prima. Non tutti ne avevano a sufficienza. I corpi erano asciutti, per le fatiche, certo,  ma anche per le calorie che scarseggiavano. I volti, però, mostravano una pacatezza bonaria ed i segni della pace ritrovata; il tunnel della guerra era stato lungo e doloroso.

Da ragazzo si apprendeva che la vita era lotta,  ed  il pane bisognava sudarselo, e, spesso, bisognava andare lontano per poterne dare un tozzo a tutta la famiglia.  Era nel conto. Ma averne, sentirne  il profumo, il sapore regalava un senso di benessere, appagava un  bisogno primario, dava sicurezza. Ecco perché farlo era come celebrare una liturgia profondamente sentita. Perché il pane era la vita.

Il rito aveva i suoi gesti,  i suoi tempi.

 Il giorno prima ci si procurava u livato. Circolava nel vicinato come bene comunitario. Ogni donna che faceva il pane, ne conservava un po’ in una scodellina. Di primo mattino si acconciava la mattra su alcune sedie legate o su una panca e si  setacciava  la farina.  Intanto si  intiepidiva  l’acqua con un po’ di sale;  a parte si scioglieva u livato.

 L’impasto era faticoso. I pugni chiusi affondavano nella pasta che veniva rivoltata di tanto in tanto, finché l’amalgama non era perfetto.

Si formavano  piccole pagnotte, si faceva una croce sopra e si mettevano a lievitare sul letto, tenute calde dalle povere coperte di cui si disponeva.

Con l’aiuto di  frascedde e pezzi di legno si accendeva il fuoco nel forno, per portarlo alla temperatura giusta.

Verso mezzogiorno s’infornava. Prima pitte e piatuli, poi il pane. Per ultimi tangaredde e frisiddi (ricavati da piatuli divisi a metà).

A sera si sfornava.

Ed era bontà.

 

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