Ma se la vita umana si fonda sulla trasformazione della natura per mezzo del lavoro, che include gli utensili e le conoscenze, questo significa che un solo individuo non può bastare a se stesso senza il lavoro degli altri. Io non posso contemporaneamente arare, fabbricarmi l’aratro, cercare e forgiare gli elementi di questo aratro, allevare i buoi, tessermi i vestiti, fabbricare il telaio e i fili, costruirmi la casa, creare gli elementi di questa casa e cosi via. Ogni lavoro presuppone dunque la divisione dei compiti e lo scambio dei prodotti. Allo stesso modo, ogni tecnica e ogni conoscenza che il lavoro presuppone non possono essere trovate e reinventate da ogni individuo: la sopravvivenza umana presuppone una trasmissione del sapere, scambi linguistici, il passaggio delle acquisizioni.
Mentre i mezzi di sopravvivenza dell’animale si trovano nel suo corpo, dunque sono innati (cioè nati con lui), l’uomo si libera dalle costrizioni naturali producendo lui stesso i propri mezzi di sopravvivenza, collettivamente, socialmente. In altre parole, l’uomo è, nella sua essenza, un essere sociale e culturale.
Cosicché, se non vogliamo confondere l’uomo e l’animale, dobbiamo per forza modificare il modo in cui generalmente viene posta la questione dei rapporti tra individui e società.
Nella lingua di tutti i giorni, si qualifica come « concreto» ciò che si può vedere e toccare, e « astratto » ciò che esiste solo nel nostro pensiero. Per esempio, Pietro, Paolo o Mario sono « concreti », mentre consideriamo «astratta » l’idea di « umanità », dato che non posso afferrare l’«Uomo» in generale. Allo stesso modo, l’idea di cane in generale, che vale per tutti i tipi di cane, non può abbaiare. Non bisogna confondere le due cose: da una parte questo cane, che vedo concretamente abbaiare, mordere e correre, e dall’altra l’idea generale di cane, che è associata all’idea generale dell’abbaiare, ma che non corre il rischio di abbaiare né di mordere. È un’astrazione.
Nella vita quotidiana, si ritiene che ciò che è concreto sia l’individuo umano, il suo lavoro e così via, mentre la «società», il «lavoro sociale» sono considerate astrazioni. Tuttavia, abbiamo appena visto che non è possibile spiegare la sopravvivenza di alcun individuo senza il lavoro collettivo e gli scambi che ne derivano.
Dunque, in questo senso, l’uomo è, per essenza un essere sociale, ed è assurdo tentare di spiegarlo partendo da individui isolati, dato che questi non possono esistere che in società. Così risulta che l’individuo (che posso vedere e toccare) è un’astrazione, mentre ciò che in realtà è concreto è la «società», che in quanto tale nessuno può vedere.
Conseguenza: se, in un senso, la società è la somma degli individui che la compongono, in un altro senso ciò che ogni individuo è dipende dalla società nella quale vive. Per esempio, non è perché molti individui sono schiavi che una società è schiavista, ma è perché un individuo nasce in una tale società che può essere ridotto in schiavitù.
Ecco perché ogni individuo può e deve porsi il problema del tipo di sistema sociale nel quale vive. Questo è l’oggetto di ciò che si chiama politica (dal greco polis, città).
Questo genere di riflessione è costitutivo dell’idea di cittadinanza, e permette di impostare il problema della «politica» al suo livello essenziale, come dimensione culturale fondamentale della civiltà umana.
Da “A che cosa serve la filosofia?” di J.P. Jouary, Salani
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