Dio scende in terra assai più spesso che non si creda, e se noi non ce n’accorgiamo, è per due principalissime ragioni. La prima, perché i nostri occhi son fatti per vedere le cose terrene e non le soprannaturali e anche le formiche non scorgono gli uomini. La seconda, perché Dio, avendo da amministrare milioni di miliardi di mondi, ch’egli ha evocato dal nulla, non arriva che una volta, ogni tanti secoli, a rivedere lo stesso pianeta o lo stesso sole, che ha visitato già una volta. Figuratevi poi, quando si tratta di quell’atomo impercettibile e insignificante, che è il nostro pianeta!
Ad onta di queste difficoltà, che rendono rarissime e invisibili ai nostri occhi le visite di Dio sulla Terra; una volta vi scese per vedere, se essa fosse contenta delle tante vite, che vi aveva sparso nel giorno già tanto lontano della creazione.
“Ben tornato, ben tornato!” – esclamò la Terra, lieta e sorridente, appena si accorse della presenza di Dio – “Qual buon vento, dopo tanti secoli, ha portato la vostra Divina Maestà su questo minuscolo atomo del suo vasto impero?
“La voglia di sapere, se siete contenti delle innumerevoli creature, di cui ho popolato la superficie del pianeta e le profondità dei mari”.
“Maestà, se il molto fosse sinonimo di bene, io non potrei di certo lamentarmi, perché, a quanto sento dire dagli astronomi e dai filosofi, forse in nessun altro mondo la vita formicola, serpeggia e brulica con più feconda moltitudine”.
“E ciò non ti piace? Non sei tu felice di sentirti sulla pelle e nelle viscere il solletico di tante zampine, di tante ali; di tanta vita, che ti accarezza e ti riscalda?”
“Non nego, che questo solletico sia qualche volta gradevole e che non mi distragga dalle noie di una lunghissima vita; ma tutte quelle creature più spesso mi fanno da parassiti, che da ospiti cortesi; e spesso devo grattarmi, perché il loro continuo muoversi e salticchiare mi dà prurito”.
Dio si mise a ridere a questa osservazione poco pulita e volgare della Terra, e soggiunse:
“Ma, Terra mia, è appunto nel solletico la prima fonte del piacere. Ameresti forse meglio di essere come la luna, una scoria di vulcani spenti, una lava raffreddata, che rotola negli spazi dell’infinito; senza un filo d’erba che la rinfreschi, senza una sola creatura viva, che le tenga compagnia?
“Oh no, no, giammai!”
“E dunque?”
“Ma, io non mi lamento dell’eccessiva moltitudine di creature, delle quali hai voluto popolare questo pianeta, per conto mio; ma per pietà di esse. Perché mai le hai costrette a divorarsi tra di loro? Perché mai tutto quanto il mio territorio non è altro che una grande macelleria, dove gli erbivori mangiano le erbe, e i carnivori divorano gli erbivori e l’uomo divora ogni cosa; finché poi, con ironia crudele, i piccolissimi fra tutti gli esseri vivi, i microbi, uccidono anche l’uomo, che è il più grande?”
A questa domanda Dio non rise, ma sorrise mestamente, come chi ha per interlocutore un uomo molto al disotto di lui e che non lo intende.
“Vedo, che tu dividi cogli uomini il difetto della miopia e tu non vedi più in là d’una spanna del tuo naso. Per me tutte le creature di un mondo, dalle piccolissime alle gigantesche, dalle più deboli alle più robuste, dalle più stupide alle più intelligenti non sono che organi, che cellule d’un organismo solo; ed esse si scambiano i succhi e le vibrazioni della forza, sicché una serve all’altra e dà e riceve nello stesso tempo. La morte non è che un riposo della vita stanca e la culla d’una nuova vita che incomincia”.
La Terra crollava il capo, come chi vuol negare, ma per rispetto vuol occultare modestamente il diniego. Solo osò dire:
“Ma l’uomo, che tu hai collocato sulla vetta delle creature planetarie e che dovrebbe dominare il proprio mondo ed essere felice, piange e muore come tutti gli altri esseri vivi, che gli stanno tanto lontani per gerarchi d’intelletto”.
“Si, anche l’uomo piange e muore, ma la morte per l’uomo savio e filosofo non è un male, e se piange è per colpa sua. Ha voluto esser libero, ha voluto poter scegliere fra il male e il bene, e novanta volte su cento sceglie il male e perciò soffre e piange. Il suo pianeta non gli basta e vuol sempre varcare le frontiere dell’alto e del profondo, e ciò non può fare senza storpiarsi i piedi, senza esporsi ai fulmini del cielo e ai reumatismi della terra. Tutta la sua storia è una continua ribellione contro di me. Prometeo invola un raggio di sole, i Giganti mettono monte sopra monte e voglio scalare l’Olimpo. Oggi ancora questi poveri vermi d’un giorno si dichiararono immortali e mi nominano fattore dei loro beni, cassiere delle loro ricchezze…. E vorresti tu che con tanta goffa superbia gli uomini non avessero a soffrire?”
La Terra non sapeva che replicare a queste savie osservazioni di Dio. Essa li conosceva molto bene, questi poveri bipedi implumi, tanto deboli e tanto orgogliosi; tanto ignoranti e tanto pretensiosi, e non poteva difenderli.
Un moto irresistibile di poetà la fece però replicare: “Ma, Dio onnipotente e onniscente, tutto ciò che tu dici, è vero; ma su questo mondo tu hai seminato troppo dolore e lo dai anche a chi non ne ha colpa. Per uno scoppio di riso io sento cento singhiozzi; e vedo l’uomo nascere piangendo da una madre, che urla di dolore e lo vedo morire con dolore framezzo a uomini, che lo circondano piangendo. Anche i pochi felici, quando appressano alle labbra la coppa della gioia, vi trovano nascosta la paura della morte; e anche la paura è dolore”.
Dio sospirò profondamente e si raccolse in una profonda meditazione. I papi di Roma si son dichiarati infallibili; non così Dio, che sa di errare qualche volta e se ne pente.
E forse in quella visita fatta alla Terra, dopo averne sentito i lamenti, parve pentirsi della sua fattura; ma poi quasi si ravvedesse, soggiunse:
“Si è vero, su questo pianeta del Sole, si soffre troppo; ma nell’uomo ho deposto una scintilla della mia onnipotenza, ed egli saprà, nel lungo giro dei secoli, che ha ancora da venire, guarire il dolore. Ha voluto essere libero… deve subirne le conseguenze”.
“Ma, prima che giunga quel giorno lontano, lontano, dà agli uomini qualche rimedio, qualche calmante; perché il dolore non sia così vario, così molteplice, così costante, così omicida”.
Dio pensò un istante, e diede alla Terra un piccolo seme, dicendo che lo spargesse nei campi coltivati e nelle strade battute dall’uomo.
E la Terra lo seminò e ne nacque il papavero, che d’allora in poi apre la sua corolla porporina fra le spighe del grano e nei sentieri per dove cammina l’uomo e nei prati sui quali si adagia per riposare.
Nel biondo dei campi, nel verde dell’erbe, fra le zolle della terra incolta fiammeggia quel fiore come una macchia di porpora e invita l’uomo a coglierlo e a spremerne e a libarne il succo viroso e narcotico.
Il papavero è una correzione di bozze fatta da Dio sul pianeta degli uomini. In una visita fatta da lui, tanti secoli or sono, ha sentito il bisogno di seminare accanto al pane e al vino un fiore, che dia le delizie dell’oblio e calmi gli strazii del dolore e faccia tollerare la vita, finché la sapienza umana avrà colle proprie forze cancellato il dolore dal libro dell’esistenza.
E quale sarà il nuovo dono che ci darà Dio, quando rivisiterà la Terra, quando si ricorderà che quaggiù si soffre ancora?
Quien sabe?
In: Paolo Mantegazza, 1890, Le leggende dei fiori, Fratelli Dumolard Editori, Milano, pp. 353-358.
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