Vocaboli del nostro dialetto di probabile origine bizantina
Minare:
Lanciare, scagliare.
Per il Racioppi (54) potrebbe derivare da amìno = respingere, allontanare.
‘Ndrace:
Grave infezione che si manifesta come una pustola per lo più sul collo; carbonchio.
Da anthráchion = tumore; a sua volta da anthrax = carbonchio.
‘Ngignare:
Cominciare, iniziare, inaugurare.
Da encainizo = inaugurare.
L’origine greca del vocabolo è attestata anche da S. Agostino (62), il quale, parlando della festa ebraica della dedicazione del tempio, festa detta “Encenia”, spiega così: “Encaenia festivitas erat dedicationis templi. Graece enim caenon dicitur novum. Quandocumque novum aliquid fuerit dedicatum, encaenia vocantur. Iam et usus habet hoc verbum. Si quis nova tunica induatur, encaeniare dicitur”.
Il vocabolo è, come tanti altri, comune in tutto il Meridione.
Ecco una strofa, in dialetto cosentino, tolta dalla celebre “Notte di Natale” di V. Padula:
Illa ‘u guarda e ginocchiuni
tutt’avanti li cadìa;
L’adurau: pu’ ‘na canzuni,
chi d’u cori li vinìa,
pe’ lu fari addurmentari,
‘ngignáu subitu a cantari.
‘Nzurà:
Sposare, sposarsi.
Lo si fa derivare da zéugnumi = legare, unire in matrimonio. Siccome, però, il suono della parola dialettale è piuttosto lontano da quello greco, si potrebbe pensare, forse con più sicurezza, a un’origine diversa: a una voce del latino popolare formatosi sulla parola “uxor” (moglie) come “uxorari, inuxorari“. Il verbo è comune a tutti i dialetti dell’Italia meridionale.
La strofe che segue è stata raccolta, in Basilicata, da E. de Martino. È molto significativa per comprendere l’antico mondo agricolo-pastorale della Basilicata. Il pastore che per mesi e mesi, è vissuto lontano dal centro abitato, “quando torna in paese, è come trasognato e balordo, in preda al sinistro incantesimo della solitudine e della fatica… tornato in paese, chiede alla madre di procurargli una moglie, incapace com’è di procurarsela da solo” e la madre cerca di accontentarlo, senza tacere, nella richiesta, con bonaria ironia, i difetti che lei stessa ha notati nel figlio e che cerca di far perdonare adducendo, come scusa, la vita di fatica, che il figlio ha dovuto sopportare:
Le pecuraro da la Pugghia vene
dici a la mamma ca s’adda ‘nzurà.
La mamma se ne va pi li vicini:
Ci tene belle figghie da marità?
Ci vole figghio mio senza difetto?
Nu picca gambe torte e bocca aperta:
Le gambe se l’è torte a camminà
la vocca se l’è torta a la cucchiara.
Ed ecco un antico canto in dialetto napoletano. È una scherzosa strofe a dispetto in cui si augurano al “ninno” che vuole “‘nzorarse” le più terribili disavventure e le più brutte disgrazie:
Aggio saputo vuò nzorarte, ninno!
La mala sorte, oje ni’, tu puozze avere;
quanno vaje a la chiesia pe sposare
se pozzana stutà torce e cannele,
e quanno vaje a ttavola a magnare
lo primmo muorzo te pozza affocare.
Quanno vaje a lo lietto per corcare
la casa ncuollo te pozza cadere.
Tutto il materiale che trovate in questa “categoria” è frutto del lavoro e dell’intelligenza di don Luigi Branco, un prete di Sant’Arcangelo di Lucania.
Io mi sono limitato a prendere ed integrare quanto serve a spiegare l’origine greca di alcuni vocaboli del dialetto orsomarsese.
A don Luigi ed ai giovani che l’aiutano nel suo lavoro tutta la mia gratitudine.
Nota: le parole greche sono scritte in caratteri latini.
(Continua)
Foto: ORSOMARSO