La morte nella letteratura

Foscolo

 

Esattamente come l’eros, la morte è uno dei temi privilegiati dalla letteratura, che la descrive, la inserisce in un sistema complesso, la investe di valori etici e simbolici. Essa è caricata dall’uomo di tanti di quei significati (probabilmente anche più dell’eros) che sarebbe impossibile elencarli tutti, e che derivano dalla cultura e dalla coscienza collettive. In letteratura, il ventaglio simbolico che l’accompagna diventa forse anche più carico.

Thanatos

Nella mitologia greca, Thanatos è il dio della morte, ed è rappresentato come un anziano barbuto e alato, o avvolto da un nero mantello.

Thanatos è quasi sempre citato accanto a Eros, il dio dell’amore. Entrambi sono i poli di un meccanismo che regola l’intera esistenza, quello che Freud chiamerà il “principio di morte” e il “principio del piacere”. Eros crea la vita, Thanatos la distrugge; Eros avvicina, Thanatos allontana; Eros unisce, Thanatos separa per sempre. Ma nel gioco delle culture, o nel gioco della letteratura, i significati si possono anche ribaltare.

Vediamo come viene rappresentato il tema della morte in una piccola scelta di autori.

Ugo Foscolo

La visione foscoliana della morte si delinea in maniera sempre più chiara attraverso la lettura della sua poesia. Il sonetto Alla sera, scritto nel 1803, comincia ad abbozzare una convinzione materialistica che diventa poi esplicita nell’opera più importante, Dei Sepolcri. L’espressione usata per designare l’aldilà, chiamato il “nulla eterno”, indica che per il poeta dopo la morte non c’è più nulla.

Dei Sepolcri, del 1806-7, è un aperto dibattito sulle nuove leggi napoleoniche riguardo ai cimiteri (decreto di Saint-Cloud, 1804), che dovevano essere estese all’Italia. Trattando del tema della morte, Foscolo si inserisce nel filone settecentesco dei poeti inglesi “sepolcrali” (Thomas Gray), ma esprime un forte materialismo: l’uomo fa parte del ciclo naturale dove vi è un mutamento continuo delle cose, per cui tutto nasce ed è destinato a morire, continuamente. Il messaggio finale del poeta è quello di accettare la morte come naturale destino dell’uomo. Questa accettazione non deve però lasciare che l’uomo viva in maniera passiva, perché è comunque possibile indirizzare il percorso della storia verso una precisa evoluzione. In questo senso, la memoria (dell’uomo in particolare e della società in generale) è un importante elemento di riscatto contro l’oblio e il nulla a cui ci porta la morte.

«Ahi su gli estinti / non sorge fiore, ove non sia d’umane / lodi onorato e d’amoroso pianto» (Dei Sepolcri, vv. 88-90)

«I monumenti inutili a’ morti giovano a’ vivi perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene» (lettera del 26 giugno 1807 all’abate Aimé Guillon)

Alessandro Manzoni

La peste dei Promessi sposi rappresenta lo strumento di morte in tutto il romanzo. Riguardo a questa, personaggi e narratore assumono punti di vista che chiarificano il credo manzoniano, anche rispetto ai problemi etico-religiosi.

Classicamente, o meglio: biblicamente, la peste è un “flagello di Dio”, un fenomeno dalla funzione purificatrice che ciclicamente sopraggiunge per ripulire la terra dal male e punire gli uomini in peccato. Manzoni non contraddice affatto questa visione della morte nel suo romanzo, ma non la accetta nemmeno completamente. Infatti, a differenza di molte altri questioni sulle quali esprime direttamente le proprie opinioni, in questo caso lascia aperta la questione, mettendo solamente in bocca ai personaggi alcune interpretazioni. Così, per Don Abbondio, la peste è come una “scopa” che ripulisce la terra; per Padre Cristoforo è talvolta un “castigo”, talaltra una “misericordia”. I motivi di fondo della questione vengono però omessi, secondo un atteggiamento tipicamente illuministico, per cui vengono analizzate nel dettaglio le “cause prime” di un fenomeno, senza indagare le “cause seconde”.

Il narratore, dal canto suo, tende a ridurre la questione seguendo un’interpretazione provvidenziale, per cui “tutto è bene quel che finisce bene”.

 

«”È stata un gran flagello questa peste; ma è stata anche una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più”»

 

«Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utile per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia»

Giacomo Leopardi

La concezione leopardiana della morte traspare in maniera chiara dall’insieme delle sue opere, e si lega alla sua concezione della vita e del dolore.

Nello Zibaldone, il dolore moderno è contrapposto al dolore antico: se prima esso veniva interpretato come un castigo divino, ora è visto come un elemento fisso che accompagna la vita dell’uomo, un male inevitabile cui bisogna rassegnarsi. Si capisce perciò che, contrariamente alla vita dove dominano il dolore, la malattia e il senso della gratuità dell’esistenza, la morte assuma connotati positivi. Nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, il coro dei morti esprime proprio questo concetto: la morte è un punto indolore e quieto che segna, se non l’inizio della felicità, almeno la fine del dolore.

«In te, morte, si posa / Nostra ignuda natura, / Lieta no, ma sicura / Dall’antico dolor» (Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie)

«La esistenza non ha in niun modo per fine né il piacere né la felicità degli animali» (Zibaldone)

«L’esistenza è un male per tutte le cose che compongono l’universo» (Zibaldone)

Honoré de Balzac

La concezione cinica della storia e dei rapporti umani che Balzac illustra nella sua Comédie Humaine investe anche il tema della morte. Nei suoi romanzi, la maggior parte dei personaggi si muove con fine egoistici, di bieca lotta per la sopravvivenza, e il messaggio della sua intera opera, volente o nolente, è che la bontà, la generosità e il sentimento, benché siano dei valori altissimi, non hanno posto nella società umana e sono destinati ad essere schiacciati da altri valori. Tra questi: l’arrivismo, il potere, l’apparenza.

In un quadro così negativo dei meccanismi sociali, la morte non può che diventare uno dei momenti culminanti della narrazione, dove appare con maggior chiarezza la degenerazione del sistema sociale. Prendiamo un esempio: il romanzo Papà Goriot è la storia di un uomo, dalla mentalità tipicamente borghese, che riesce in qualche modo a far fortuna. Pur essendo di origini umili, ha due bellissime figlie che riesce ad inserire nell’alta società nobiliare  perché è ricco. Ma il modello di vita dato alle figlie lo ripaga della stessa moneta: quando muore, da solo in un’umile pensione, nessuna delle figlie accorre al suo capezzale; soltanto una delle due passa a trovarlo, ma unicamente per chiedergli dei soldi e andare a un ballo. Unico osservatore della contraddizione della vita del signor Goriot è il giovane Rastignac, che trae esperienza da questa vicenda per fortificare il proprio cinismo.

«Il denaro procura tutto, perfino le figlie. Oh! Il mio denaro, dov’è? Se avessi dei tesori da lasciare, mi curerebbero, mi assisterebbero. Le sentirei, le vedrei. […]. Hanno tutt’e due un cuore di pietra. Il mio amore per loro era troppo grande per essere ricambiato. Un padre deve essere sempre ricco, deve tenere i propri figli a freno come cavalli infidi»

Émile Zola

Nell’opera di Zola la morte assume rilievo in romanzi particolari più che nell’insieme della sua produzione. Uno dei più rappresentativi in questo senso è sicuramente Nanà. Questo romanzo, scritto nel 1880, è la storia di una ragazza viziosa e mantenuta che per la sua bellezza diventa uno dei personaggi più importanti e rappresentativi della vita sociale e mondana del periodo storico in cui vive, il Secondo Impero. Tutta la sua figura si fa quindi metafora dell’intera débauche della società francese sotto Napoleone III. La morte di Nanà, raccontata nelle ultime pagine, diventa metafora della fine dei quel periodo storico: il suo corpo è vegliato dalle prostitute di alto bordo del Secondo Impero, quando dalla finestra si odono le grida “A Berlino! A Berlino!” dell’imminente guerra franco-prussiana, che segnerà la terribile sconfitta francese a Sédan. Il messaggio di Zola è chiaro e inesorabile: la Francia, che sotto Napoleone III ha vissuto nello scandalo e nel piacere come una prostituta, è inevitabilmente sconfitta dalla Prussia. La morte diventa quindi veicolo di un messaggio che, come sempre in Zola, si carica di significati politici.

«Il gelo del cadavere le riprese, e smisero di parlare tutte insieme, imbarazzate, messe nuovamente di fronte alla morte, con la sorda paura della malattia. Sul boulevard il grido risuonava, roco, lacerante: “A Berlino! A Berlino! A Berlino!” […]. Nanà restò sola, col viso all’aria, nel chiarore della candela. Era un carnaio, un ammasso di pus e sangue, una palettata di carne marcia, buttata là, su un cuscino»

Camillo Boito

Come rappresentante della Scapigliatura, è interessante vedere in che maniera il tema della morte si leghi in Boito al problema artistico del Realismo e a quello scientifico del positivismo. La novella Un corpo, scritta nel 1876, racconta la storia di un giovane artista, perdutamente innamorato di Carlotta, una bellissima ragazza che gli fa da musa ispiratrice e che lo ricambia nel suo amore. La vita della ragazza è però minata dalla figura ossessionante di un losco personaggio, un anatomista che è interessato al corpo di Carlotta per capire l’origine materica della sua bellezza. Sconvolta da questa consapevolezza, la ragazza muore improvvisamente, cadendo in un fiume. Il suo corpo viene recuperato dallo scienziato, che lo apre per studiarne le forme e che spiega allo sfortunato fidanzato la predominanza della scienza sulle ragioni del sentimento e dell’arte. L’intera novella è così rappresentativa di un particolare gusto romantico, per cui la morte e l’orrido sono sempre accompagnati e legati all’amore e alla bellezza, nonché di una filosofia squisitamente positivistica.

«S’ella avesse amato uno spirito, l’amerebbe tuttavia, non foss’altro nella memoria; ma ell’ha amato una manifestazione fuggevole della materia, ed è naturale che, l’oggetto della passione cangiando figura, la passione svanisca.. Io amo invece questo corpo mille volte più adesso che prima, giacché contribuisce ad accostarmi al vero. Insomma, la sola cosa effettiva, la sola cosa reale, è la scienza. Il resto è illusione o fantasmagoria»

Lev Nikolaevic Tolstoj

Intorno al 1880 lo scrittore matura una riflessione sul senso della vita e i valori dell’esistenza, che sfociano nel racconto del 1886 La morte di Ivan Ilic. Il racconto è una sorda denuncia della menzogna e dell’ipocrisia della società borghese burocratica, che appare tutta regolata da meccanismi e da rapporti molto rigidi, ma che si rivela infine deludente e fasulla. Il protagonista è un funzionario che nel corso dell’esistenza assimila e fa propri quei meccanismi e quelle regole, fino a credere di trovarvi piacere e soddisfazione, ma che diventa cosciente, attraverso l’esperienza dolorosa della malattia e poi della morte, del suo grande errore. La morte in questo caso appare dunque come un momento liberatorio, benché non felice, perché permette di staccarsi dalle etichette e dalle opinioni che il mondo esterno ci affibbia, togliendoci genuinità e capacità di provare sentimenti autentici.

«”Forse, non ho vissuto come dovevo,” gli venne in mente all’improvviso. “Ma se ho sempre fatto tutto secondo le regole?” disse a se stesso e cacciò via immediatamente, come qualcosa di assolutamente impossibile, quell’unica soluzione dell’enigma della vita e della morte»

«E quando gli veniva di pensare che tutto questo succedeva perché non aveva vissuto come doveva […], subito si ricordava di aver vissuto sempre secondo le regole, e scacciava quella strana idea»

Marcel Proust

Nella Recherche la morte è un elemento che separa, che crea dolore e lascia un vuoto. Ma a questo significato della morte, che non è dei più originali, se ne affianca un altro, molto più interessante, che possiamo vedere esemplificato nel caso della morte di Bergotte, lo scrittore. La sua morte è descritta nel volume “La prigioniera”: lo scrittore, che soffre di digestione, si reca a una esposizione d’arte ma mentre osserva i quadri esposti un forte malessere lo porta a morire improvvisamente. Il passo di questa descrizione è interessante perché mostra come, per Proust, la figura dell’uomo e quella dell’artista sono due cose ben distinte: infatti, se l’uomo muore, in maniera anche poco dignitosa, magari per aver digerito male delle patate come nel caso di Bergotte, è pur vero che, al contrario, l’artista rimane in tutta la sua dignità, e continua a vivere in eterno, nella memoria degli uomini che lo hanno amato e nella sua opera. In altre parole, l’arte è capace di riscattare la vita dell’uomo, e in questo suo significato trova la sua più importante funzione per l’umanità.

 

«Lo si seppellì, ma durante tutta la notte funebre, dalle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a gruppi di tre, vegliavano come degli angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non c’era più, il simbolo della sua resurrezione»

 

Fonte: https://www.letteratour.it/altro/A01_letteratura_e_morte.asp

Foto RETE

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