Le sponde della memoria e il ruolo dell’oblio

“SÓLO UNA COSA NO HAY. ES EL OLVIDO”

La poesia di Borges intitolata Everness (1) si apre con un’affermazione sconcertante, difficile da comprendere: l’oblio non esiste. Si ha la sensazione che il primo verso di questa poesia esprima una verità, a cui non è legittimo opporre semplici verità di fatto. Perché, come negarlo? Di fatto, si dimentica. Si dimentica continuamente: moltissimo, quasi tutto. O forse, non si dimentica affatto – perlomeno, nulla di essenziale. Viene dimenticato solamente ciò che, nel momento in cui lo si viveva, non ha avuto la forza di entrare nel ricordo.

Dunque l’oblio non sarebbe una forza, che indebolisce, erode, cancella; ciò che chiamiamo oblio appartiene piuttosto al non-essere. Come il male è l’assenza del bene, agostiniamente, così l’oblio sarebbe solo l’assenza o meglio l’impotenza della memoria.

Ma anche ammettendo che l’oblio abbia una potenza d’azione, la tesi di Borges potrebbe venire intesa come una negazione non del verificarsi dell’oblio, cioè di singoli, innumerevoli atti di oblio, bensì della sua inesorabilità. Non c’è niente che non possa essere ricordato – prima o poi. Niente che non possa essere rievocato, che non possa risalire in superficie (se si è perduto in ignote profondità).

L’oblio come apparenza – uno strato di polvere su una realtà imperitura. Il fiume che scorre tra le sponde della memoria sarebbe un fiume immobile, paragonabile alla freccia nel paradosso di Zenone. “Tutto è presente” (Ya todo está), dunque, niente fluisce davvero.

All’opposizione metafisica tra una realtà imperitura e l’apparenza del fluire dovrebbe forse subentrare un’articolazione più ricca: dovremmo distinguere i diversi modi di intendere l’oblio, in corrispondenza con i modi della memoria. Quanto alla memoria, Platone distingueva due tipi: la dimenticanza può venir pensata come l’opposto di mneme, oppure come l’opposto di anamnesis. La mneme è registrazione, ordinamento, catalogazione di dati; l’anamnesis è attività, ricerca. Per Platone l’anamnesis non è solo un rammentare ciò che è stato, non è un semplice regredire nel tempo. (2) Non è un ritorno a un’anteriorità fattuale, la cui percezione verrebbe duplicata nel presente. In che senso, però, l’anamnesis sarebbe un’attività? Nel ricordo autentico, il passato si rivelerà incompleto – in qualche modo, virtuale?

Proviamo a trarre alcune conseguenze. Se ci sono diversi modi della memoria, l’incapacità di ricordare potrebbe essere causata non dal conflitto tra memoria e oblio, o da un processo non conflittuale di indebolimento della memoria, ma dal conflitto tra modi della memoria. Ciò significa che, oltre a dimenticare dati o idee, ci si può dimenticare di qualche modo del ricordare.

Comunque sia, il conflitto tra la memoria e l’oblio appare davvero troppo semplice. La filosofia ci invita a diffidare dell’articolo determinativo: tuttavia l’eterogeneità che viene celata dal determinativo la non diventa immediatamente accessibile. Non i molti, ma i modi, saranno la via d’accesso.

Proviamo almeno per un po’ a seguire il filo di una riflessione che muova non dal ‘troppo poco’ della memoria – cioè dalla perdita di memoria come perdita di un passato prezioso, di un’identità, di insegnamenti e ammonimenti che potrebbero evitare terribili ripetizioni -, ma, all’opposto, da un ‘troppo’ della memoria. Da un eccesso patologico.

Potremmo introdurre il problema con un riferimento alla cultura ebraica:

“se non ci fosse la dimenticanza l’uomo penserebbe continuamente alla propria morte e non costruirebbe e non intraprenderebbe nulla. Perciò Dio ha posto negli uomini la dimenticanza. Perciò un angelo è incaricato di insegnare al bambino così che non dimentichi nulla e un altro angelo è incaricato di battergli sulla bocca perché dimentichi quello che ha imparato”. (3)

Qui i due impulsi, personificati dai due angeli, non sono in conflitto tra loro: sembrano piuttosto cooperare, per il bene dell’uomo. Da questa micro-allegoria si potrebbe inferire che memoria e oblio non sono necessariamente in contrasto, e che, forse, è necessario dimenticare per poter ricordare meglio – ciò che merita di venir ricordato.

Il problema qui raffigurato trova un grande interprete nel giovane Nietzsche, e più precisamente nella Seconda Inattuale, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874). E’ sufficiente sostituire ‘storia’ con memoria – e la sostituzione è legittima – perché il testo appaia pertinente.

In effetti Nietzsche inizia con la difficoltà o meglio con l’impossibilità di dimenticare: la prima immagine è quella (di chiara matrice leopardiana) di un gregge che pascola, indifferente al trascorrere del tempo, “attaccato al piolo dell’istante”.

“Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né tra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò dipende dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato”. (4)

Nietzsche indica una patologia, a cui più avanti darà un nome: la malattia storica (die historische Krankheit). (5)Questa malattia consiste nell’incapacità di selezionare, e dunque di dimenticare; si viene così a creare un ingorgo della memoria, che appesantisce e indebolisce la vita, uno stato di paralisi.

La terapia non potrà essere troppo semplice; certamente desiderabile è la capacità di dimenticare, a condizione però che non implichi l’assenza completa della facoltà contraria. O dobbiamo davvero invidiare una condizione che non è la nostra e che, ai nostri occhi, non può non manifestare qualcosa di involontariamente comico? Non un modo di vivere rigidamente non storico, bensì la capacità di sentire in modo non storico è desiderabile.

“Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura , in modo non storico (unhistorisch zu empfinden) ”.

Immaginiamo un esempio estremo, un uomo totalmente privo della forza di dimenticare: egli vedrebbe ovunque un divenire, non crederebbe più al suo stesso essere: “alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito. Per ogni agire ci vuole oblio (Zu allem Handeln gehört Vergessen)”. (6)

O meglio – Nietzsche si corregge subito – un certo grado di oblio. Come determinarlo? Il criterio è la plasticità:

“Per determinare questo grado … si dovrebbe sapere con esattezza quanto sia grande la forza plastica (die plastische Kraft) di un uomo, di un popolo o di una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e di incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate”. (7)

Occorrono due capacità correlative, o, se si preferisce, la capacità di intrecciare due forze opposte: perché “Ciò che è non storico e ciò che è storico sono egualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo, di una civiltà”. (8) Occorre mettere la storia al servizio della vita (che è una forza non storica), nella consapevolezza però che la vita ha bisogno del servizio della storia. Da tre punti di vista, che Nietzsche chiama monumentale, antiquario, critico. (9)

In ciascuna di queste prospettive, decisiva è la flessibilità. La storia monumentale esorta a grandi azioni: se la grandezza fu possibile una volta, sarà ancora possibile. Ma può anche intimidire, venir giudicata irripetibile, e venir chiamata a giustificare la mediocrità del presente. La storia antiquaria guarda con fedeltà e amore al passato: preserva e venera l’identità di un popolo; ma può degenerare in una cieca furia collezionista, non conservare bensì mummificare la vita. La storia critica autorizza a giudicare e a condannare il passato; ma il suo verdetto può essere inclemente, ingiusto, fanatico. (10)

Ecco perché la flessibilità è decisiva: ciò che conta è saper discernere – “immediatamente con forte istinto quando è necessario sentire in modo storico e quando in modo non storico” -, e saper mescolare: infatti ciò che è storico e ciò che non è storico sono egualmente necessari alla nostra salute.11

Patologica non è la memoria, ma la rigidità: nelle tre forme descritte da Nietzsche, così come in quelle che verranno descritte da Freud. La nostra psiche si ammala perché non sa dimenticare ferite troppo dolorose: i nevrotici si ammalano di reminiscenze, i melanconici non riescono a elaborare il lutto. Nel caso della melanconia – a cui vorrei riferirmi brevemente – l’oggetto perduto invade la psiche del soggetto, e determina un’immobilizzazione del tempo. L’ombra dell’oggetto è caduta sull’io, secondo la celebre e suggestiva espressione di Freud. (12)

L’incapacità di dimenticare genera un delirio di indegnità. Il melanconico si sente colpevole, si autoaccusa della perdita dell’oggetto amato, si tormenta e si rimprovera incessantemente. Non trova consolazione in nessun luogo. Un esempio: in Cime tempestose, l’ombra di Catherine è caduta su Heathcliff. Il selvaggio protagonista del romanzo di Emily Brontë non può dimenticare il suo grande amore, tutto glielo ricorda: “The entire world is a dreadful collection of memoranda that she did exist, and that I have lost her !”. (13)

Non c’è oblio. Dunque Borges ha ragione. Tuttavia sarebbe assurdo interpretare il verso di Borges come una celebrazione della melanconia; al contrario, nella poesia di Borges il tempo sembra un’illusione per chiunque crede di percepirlo. Il tempo è un fiume – che però scorre in direzione degli archetipi (“dall’altra parte del tramonto vedrai gli Archetipi e gli Splendori”). Nei termini di Lacan, ci troviamo nel dominio dell’Immaginario, di un Immaginario sottratto però all’ambivalenza e dominato da grandi presenze benefiche. Qui il resto – quel frammento di indegnità che il melanconico ritiene di essere – viene amorosamente preservato: “Dio salva col metallo anche la scoria”.

Nel registro dell’Immaginario risulta quasi incomprensibile la nozione di ‘tempo perduto’ – non ci sono vere perdite dove c’è everness.

Diventa quasi inevitabile fare riferimento allo scrittore del tempo perduto, a Marcel Proust, autore di un’opera immensa che rappresenta anche, come ha detto Deleuze, una sfida per la filosofia. (14) Il punto di partenza può senz’altro essere costituito dalla distinzione tra memoria volontaria e involontaria – distinzione assai nota, il che non implica che sia compresa.

In prima istanza la memoria volontaria è la memoria dell’intelligenza, in grado di conservare soltanto ricordi sbiaditi, un passato impoverito, morto: morto come l’Io che abbiamo smesso di essere, e che è stato sostituito da un altro Io. Quanto alla memoria involontaria, essa viene messa in moto dal caso, e da oggetti o stimoli apparentemente di poca rilevanza.

Sono cose futili e non cose importanti a determinare la resurrezione di un Io, che diventa il protagonista del ricordo. Rileggiamo un passo di Proust:

“i ricordi d’amore non fanno eccezione alle leggi generali della memoria, rette a loro volta dalle leggi più generali dell’abitudine. Siccome questa affievolisce tutto, quel che meglio ci rammenta una persona è proprio ciò che avevamo dimenticato (perché era insignificante e gli abbiamo lasciato tutta la sua forza).

Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, nel soffio d’un vento di pioggia o nell’odore di richiuso di una camera o nell’odore di una prima fiammata, dovunque ritroviamo di noi stessi quel che la nostra intelligenza, non sapendo come impiegarlo, aveva disprezzato: l’ultima riserva del passato, la migliore, quella che, quando tutte le nostre lacrime sembrano esaurite, sa farci piangere ancora.

Fuori di noi? In noi, per meglio dire, ma sottratta ai nostri stessi sguardi, in un oblio più o meno prolungato. Solo grazie a quest’oblio possiamo di tanto in tanto ritrovare l’essere che fummo (…) Nella piena luce della memoria abituale le immagini del passato impallidiscono a poco a poco, si cancellano, non ne rimane più nulla, non le troveremo più. O piuttosto, non le troveremmo più, se qualche parola (…) non fosse stata accuratamente rinchiusa nell’oblio (si quelques mots … n’avaient été soigneusement enfermés dans l’oubli), allo stesso modo che si deposita alla Biblioteca Nazionale l’esemplare di un libro che rischierebbe altrimenti di diventare introvabile”. (15)

La comprensione intellettuale di questo passo esige una messa a fuoco di vari aspetti:

– il rapporto paradossale tra memoria e oblio: la forza del ricordo sta in ciò che è stato dimenticato;

– il ruolo della categorizzazione: l’intelligenza esclude ciò che non riesce a categorizzare, perciò una parte essenziale della memoria (la parte migliore, secondo Proust) è fuori di noi, in un sapore (come quella della madeleine), in un odore, e comunque in una percezione che i processi del pensiero non sono riusciti ad articolare e a catturare;

– l’estimità dei ricordi: essi si trovano contemporaneamente dentro e fuori di noi. (16)

Perciò la fonte del ricordo non si trova in uno spazio estraneo all’oblio, ma all’interno dell’oblio: i nostri ricordi sono stati depositati nell’oblio, come la copia di un libro alla Biblioteca Nazionale, e proprio questo ci consente di ritrovarli.

Infine, consideriamo più attentamente il meccanismo del tempo ritrovato. Si è detto che ricordare non è semplicemente duplicare una percezione, riproporla nell’esattezza della coscienza: il tempo perduto è piuttosto il tempo che la coscienza ha assimilato solo parzialmente. E’ il tempo non interamente vissuto, perché la vita era troppo intensa per essere adeguatamente categorizzata. La memoria involontaria mantiene un rapporto essenziale con gli aspetti non intellettuali dell’esperienza; ecco perché un sapore, un profumo, svolgono un ruolo così determinante nel processo di resurrezione.

Prendendo alla lettera alcune formulazioni di Proust si rischia però di contrapporre alla memoria dell’intelligenza una memoria dei sensi, come se la memoria involontaria fosse estranea ai meccanismi di pensiero. La vera differenza, invece, riguarda gli stili di intelligenza, i modi della logica. L’intelligenza svalutata da Proust è l’intelligenza separativa, orientata inevitabilmente verso un linguaggio referenziale, e che sfocia nella memoria fattuale (mneme), nella registrazione di dati e di fatti. Il meccanismo della memoria involontaria funziona invece in modo congiuntivo.

Nella prima fondamentale descrizione della memoria involontaria, cioè l’episodio della madeleine, domina la forza d’espansione del ricordo: un intero mondo emerge dal sapore di una tazza di tè, lo scenario sopravvissuto nella memoria cosciente – due piani riuniti da un’angusta scala, alle sette di sera – si allarga, si distende, si colora, diventa Combray e i suoi dintorni; (17) e questa espansione potrebbe venire paragonata a uno zoom all’indietro che, a partire da un dettaglio, permette di avere una visione sempre più ampia. In altri punti della sua opera, Proust ha descritto il rapporto tra il momento passato e quello presente richiamando il meccanismo della metafora: ebbene, una metafora non è una duplicazione. E non è semplicemente uno zoom all’indietro! E’ una rielaborazione.

Ancora più enigmatica è l’espressione ‘piaceri identici’ (plaisirs identiques) mediante cui il Narratore designa le emozioni provate per tre volte, in pochi istanti, prima nel cortile di palazzo Guermantes, a causa di due ciottoli mal livellati che rievocano le lastre diseguali del battistero di San Marco a Venezia, e poi, entrato in un salottino, a causa del rumore di un cucchiaio contro un piatto e della rigidezza inamidata di un tovagliolo, che evocano rispettivamente il rumore della martellata di un ferroviere sulla ruota di un vagone e l’asciugamano dell’hotel di Balbec. In che senso si parla qui di ‘identità’?

Proust non avrebbe dedicato tante pagine, nell’ultimo volume della Recherche, a questo meccanismo se non ne avesse colto la complessità. In queste pagine l’intuizione filosofica emersa nell’episodio della madeleine viene sviluppata con straordinaria intelligenza; non per questo dobbiamo limitarci a duplicare Proust, rinunciando ad approfondire la direzione da lui indicata.

Nell’esperienza del tempo ritrovato un istante del passato e un istante del presente vengono misteriosamente a congiungersi. La loro congiunzione non è semplicemente una connessione: i due istanti si sovrappongono fino a coincidere. Ma questa sovrapposizione o coincidenza non ha un carattere empirico: viene a sprigionarsi “qualcosa che, comune sia al passato sia al presente, è molto più essenziale di entrambi”. (18) Ne risulta un effetto di spaesamento, che il Narratore descrive così: “le diverse impressioni di felicità … avevano in comune questo: che io le provavo a un tempo nel momento presente e in un momento lontano, sì da far interferire il passato sul presente, da rendermi titubante nello stabilire in quale dei due mi trovassi”. (19) Quest’esperienza viene descritta come un’esperienza in qualche modo ‘extratemporale’, come un affrancamento dall’ordine temporale. Essa permette al soggetto “di cogliere, di isolare, di fermare, per la durata di un lampo, ciò che di solito esso non cattura mai: un frammento di tempo allo stato puro”. (20)

È a partire da questa espressione, così suggestiva ma anche enigmatica, che appare necessario tentare un’analisi. Per evidenti ragioni di spazio, qui possiamo soltanto abbozzarla.

Un frammento di tempo allo stato puro è l’effetto della sovrapposizione tra due momenti identici, tra due piaceri identici, l’uno appartenente al passato, l’altro al presente. Ma questi due momenti sono davvero identici?

Sembra di no. La sensazione di felicità che Proust descrive viene provata nel secondo momento, e non nel primo: viene provata nell’atto di ricordare. Si direbbe dunque che il passato sia accaduto e insieme non accaduto. Un passato incompleto, virtuale, trova il suo completamento nel presente: è il rapporto tra i due momenti a suscitare quella sensazione quasi estatica che nessuno dei due momenti, preso nella sua singolarità, contiene.

Proviamo a riformulare questa descrizione sul piano logico. Nel tempo separativo (o empirico), quello della comune esperienza, ogni istante coincide con se stesso: se dichiaro che un istante T1 (il presente) è la riproduzione esatta di un istante T2 (nel passato), e dunque che i due istanti sono identici, non faccio nulla di diverso dal dichiarare identiche due copie di un libro, ad esempio due copie di “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, disponibili nella scaffale di una libreria. Supponiamo ovviamente che si tratti della medesima edizione. I due esemplari sono indistinguibili dal punto di vista delle proprietà (dimensioni, colore della copertina, ecc), mentre sono distinguibili numericamente. Riprendo una distinzione, tra identità qualitativa e numerica, che gode di ampio consenso in filosofia, e che certamente è valida – ma anche non esaustiva.

Più importante, più essenziale – comunque si intenda quest’aggettivo -, è la distinzione tra modi dell’identità. Infatti l’identità non si manifesta soltanto (come ritengono dogmaticamente i separativi) nella forma della coincidenza con sé, ma anche nella forma della non-coincidenza.

Nel tempo separativo, ogni istante coincide con se stesso: è il tempo della memoria volontaria, che confronta il passato e il presente senza riuscire a gettare alcun ponte – che non sia quella della duplicazione, della copia – tra i due. Con le parole di Proust: “il ricordo … non ha potuto contrarre nessun legame, gettare nessun ponte tra sé e il momento presente: se ne è rimasto nel proprio luogo, alla sua propria data, ha conservato le sue distanze “.21 Nel tempo ritrovato, invece, ciascuno dei due istanti non coincide più con se stesso in quanto coincide con l’altro istante. Un’altra temporalità, un’altra logica: la logica del tempo allo stato puro.

Dobbiamo temere una violazione del principio di non contraddizione? Sarebbe così se tra gli opposti esistessero solo relazioni di tipo separativo (i contraddittori e i contrari). La non-coincidenza è fondata invece su un rapporto tra correlativi, dove gli opposti si presuppongono reciprocamente: una relazione paradossale, agli occhi dei pensiero separativo. Indubbiamente. Ma il testo di Proust è comprensibile mediante forme di pensiero rigidamente separativo, oppure esige una diversa logica?

Scrive ancora Proust: “un’ora non è soltanto un’ora: è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti e di climi”. (22) Per il pensiero separativo, un’ora è precisamente un’ora, e nient’altro; non così per il pensiero della non-coincidenza.

Questa eterogeneità logica ci invita a ripensare la distinzione tra volontario e involontario come modi della memoria. La memoria involontaria non è semplicemente la memoria della non-volontà o della non-volontarietà, bensì la memoria della non-coincidenza. Ci sono due modalità del ricordare: quella in cui restiamo coincidenti con noi stessi, recuperiamo un frammento del passato che rimane isolato atomisticamente e che, nella sua identità qualitativa con una sensazione attuale, rimane ancorato alla sua data, al suo contesto; e quella in cui ricordare è non-coincidere con se stessi. L’effetto di spaesamento descritto dal Narratore, il non sapere più a quale dimensione del tempo si appartiene, l’affrancamento dall’ordine temporale – tutto ciò equivale a essere trascinati oltre se stessi. Il soggetto sperimenta se stesso nella sua modalità più autentica, quella ‘oltrepassante’. Ciò che definisce la nostra condizione, per Nietzsche come per Sartre, o per Freud, è proprio là. Dunque l’oblio non consiste solo nel dimenticare, nel cancellare, ma anche nel ricordare con una memoria separativa, che non conserva nulla. (23) Il vero contrasto non è tra memoria e oblio, bensì tra modi della memoria.

Dunque c’è oblio, contrariamente a quanto scrive Borges. O forse, rileggendo le pagine di Proust, questa strana affermazione ha acquistato un senso nuovo: non c’è oblio, non c’è oblio definitivo, perché nei processi della dimenticanza è stata celata la possibilità del ricordo. Qualcosa è stato rinchiuso nell’oblio – fuori di noi, o meglio in noi, ma sottratto ai nostri stessi sguardi.

Se i dettagli inessenziali e insignificanti della memoria involontaria possono svolgere un ruolo così importante, è perché in quei dettagli è rimasta una traccia del desiderio. La memoria involontaria è la memoria del desiderio, e il desiderio è ciò che non si lascia cancellare. Un esempio, semplice ma plausibile: nel film Eternal Sunshine of the Spotless Mind i due protagonisti si reincontrano, e benché ogni ricordo del loro amore precedente sia stato cancellato, si innamorano nuovamente. (24) Si può cancellare un archivio, non un desiderio. Più in generale: come può esserci oblio, se tutto accade sempre di nuovo? Non possiamo però guardare ai processi di ripetizione unilateralmente, cioè soltanto con un’enfatizzazione positiva. Non c’è oblio anche perché esiste la demoniaca, infernale, coazione a ripetere. Questa è l’altra faccia – a cui ho soltanto accennato riferendomi alla melanconia – della tesi di Borges.

Di Giovanni Bottiroli

Giovanni Bottiroli è professore ordinario di Teoria della Letteratura e docente di Estetica all’Università di Bergamo.

Fonte: http://www.giovannibottiroli.it/it/personaggi-e-identita/solo-una-cosa-no-hay-es-el-olvido.html#sdfootnote1sym

NOTE

1 – La sola cosa che non c’è è l’oblio.

Dio salva col metallo anche la scoria

e nella sua profetica memoria

le lune state o future sono una.

 

Tutto è presente. Sì, le mille effigi

che tra i due crepuscoli del giorno

il tuo volto ha lasciato negli specchi

e quelle che potrà lasciarvi ancora.

 

E tutto è una parte del diverso

specchio di quel ricordo, l’universo;

non hanno fine i suoi ardui corridoi,

davanti a te si chiudono le porte;

solo dall’altra parte del tramonto

vedrai gli Archetipi e gli Splendori.

Jorge Luis Borges, El Otro, El Mismo (1964); trad. it. L’altro, lo stesso, in Tutte le opere, volume secondo, Mondadori, Milano 1985, p. 157.

2 – Cfr. Remo Bodei, “Metamorfosi della memoria”, in Memoria e memorie, Olschki editore, 1998.

3 – da Martin Buber, I racconti dei Chassidim, ? 56.

4 – Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874); trad. it. Adelphi, Milano 1979, p. 6.

5 – Ibid., p. 94.

6 Ibid., p. 8.

7 Ibid., pp. 8-9.

8 Ibid., p. 10.

9 Ibid., p. 16.

10 Ho sintetizzato in poche righe le considerazioni di Nietzsche, relativamente alle tre specie di storia (cfr. le pp. 16-30).

11 Ibid., p. 10.

12 Sigmund Freud, Lutto e melanconia (1914).

13 Emily Brontë, Wuthering Heights (1847), cap. XXXIII. “L’intero mondo è una spaventosa collezione di cose che mi ricordano che lei è esistita e che io l’ho perduta”.

14 Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964-1975); trad it. Einaudi, Torino 2001.

15 Marcel Proust, A l’ombre des jeunes filles en fleurs (1918); trad. it. All’ombra delle fanciulle in fiore, Einaudi, p. 236.

16Estimità, cioè intimità esteriore, è un termine coniato da Lacan nel Seminario VII (1959-1960).

17 Marcel Proust, Du côté de chez Swann (1913); trad. it. La strada di Swann, Einaudi, pp. 48-52.

18 Marcel Proust, Le temps retrouvé (1927); trad. it. Il tempo ritrovato, Einaudi, p. 202.

19 Ibid., p. 201.

20 Ibid., 203.

21 Ibid., p. 200.

22 Ibid., p. 220.

23 “… la memoria volontaria, la memoria dell’intelligenza, e poiché le notizie che essa dà sul passato non ne serbano nulla …” (La strada di Swann, cit., p. 48).

24 Il film di Michel Gondry (2004) è stato presentato al pubblico italiano con il titolo Se mi lasci ti cancello.

In “Le sponde della memoria. Il ruolo dell’oblio nel panorama mediale contemporaneo” (a cura di L. Gandini, D. Cecchin e M. Gentilini), Quaderni di Archivio Trentino, 32, 2012, pp. 51-61

 

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