Viaggio dal Romito a Laos

GROTTA DEL ROMITO – Graffito raffigurante un bovide (Bos primigenius)

 

Scriveva Strabone nel I sec. d.C., riportando quanto descritto da Antioco (uno storico greco vissuto cinque secoli prima e la cui opera è andata perduta), che «Gli antichi, chiamavano col nome di Italia l’Enotria, che si estendeva dallo Stretto di Sicilia fino al Golfo di Taranto» e, nel riportare la notizia, Strabone nel libro VI della sua «Geografia» che rappresenta una delle rare descrizioni dell’Italia antica, afferma che, in età antica, «Enotri ed Itali» erano chiamati solo quelli che gravitavano sullo Stretto di Sicilia, all’interno dell’istmo, che misura 160 stadi, «fra il Golfo di Hipponium (attuale Vibo Valentia), che Antioco chiama Napetino, e quello di Scillunte (Squillace). Poi, sempre citando Antioco, afferma che «il nome di “Italia”, così come quello degli Enotri, si estese fino al territorio di Metaponto e alla Sibaritide».

Nella terra dove nacque il nome Italia

E sul nome «Italico» basta ricordare la interpretazione del Devoto che, partendo dal vocabolo romano «vitulo=vitello» risale ad «una forma originaria “Vitlo”, nome di un popolo della Calabria preistorica, che aveva per totem un vitello: esteso poi progressivamente verso settentrione, fino a comprendere l’Italia intera». Il vocabolo con i suoi derivati sarebbe arrivato in latino attraverso un’intermediazione greca, che ha eliminato il «v» iniziale trasformandosi in «Itali».

Ma questi popoli non ci raccontarono la loro storia, non conoscendo infatti la scrittura, si servivano dei caratteri greci per dare forma grafica a forme del linguaggio parlato. Le poche frasi scritte che rimangono, si distinguono per le loro diversità rispetto a nomi e forme della lingua greca.

L’iscrizione misteriosa di un popolo senza storia

E proprio una lunga iscrizione incisa su un masso del peso di circa un quintale, rappresenta un mistero per gli archeologi ed un rompicapo per i glottologi.

La pietra calcarea della forma di un parallelepipedo di poco meno di 70 cm, proveniente da un terrazzamento della collina di S. Brancato, un belvedere naturale sul Tirreno posto a circa 100 m.s.m. nel territorio di Tortora, interrata in un muretto di confine tra i campi della collina che conserva le testimonianze di un’area sacra. Il masso, ad un attento esame si rivelava un prezioso «cippo» con ben sedici righe scritte in un alfabeto dalle inconfondibili caratteristiche achee, forse influsso della coeva Sibari, che vanno alternativamente dall’alto in basso su tutte e quattro le facce.

Cosa rappresenti non si sa ancora bene: dagli esempi simili si potrebbe pensare a un documento pubblico, forse una legge, un trattato, o un accordo tra popoli confinanti, considerato che il territorio era una zona di confluenza di molteplici contatti tra mondo indigeno e magnogreco, ma ancora la pietra custodisce gelosamente il suo segreto messaggio […] a venticinque secoli dalla sua redazione.

L’area al confine della Calabria si è mostrata, però, archeologicamente interessante fin dal periodo paleolitico.

Grotta del Romito

Per una singolare coincidenza, nel 1961 si è verificata proprio sull’asse montano Tirreno-Ionio, una delle più grandi scoperte di arte preistorica, attribuita al paleolitico superiore, quasi 20 mila anni fa, ed il soggetto principale, stranamente è proprio la figura graffita su un grande masso di calcare, di un maestoso esemplare di vitello.

Il luogo si trova alla base di una aspra parete di calcare rosso, dove si apre il riparo de Romito («Rrimitu» nel dialetto del luogo), una grotta nel cuore della montagna, circondata da boschi, e sulla cui soglia gli uomini di 20 mila anni fa hanno lasciato, inciso nella grande roccia di calcare levigata dal tempo, la figura maestosa del «bos primigenius», preda ambita e, al tempo stesso, figura sacrale al centro dei riti propiziatori, secondo la tesi di alcuni studiosi, che si dovettero svolgere in vista della caccia, dal successo della quale dipendeva il sostentamento del gruppo.

Ma la grotta potrebbe avere una funzione ancora più solenne poiché all’interno furono rinvenute le tombe di sei individui, le cui caratteristiche stanno a testimonianza di un culto dei morti molto evoluto, che presupponeva anche una sopravvivenza ultraterrena se, assieme ai corpi, sono stati seppelliti vari attrezzi di utilizzazione quotidiana.

Una delle tombe accoglieva i resti di una coppia che, dalla giacitura, la donna poggiava la guancia sulla spalla dell’uomo, ha fatto subito pensare ad affetti familiari e, la contemporaneità della sepoltura, anche al sacrificio della donna dopo la morte del compagno.

La grotta del Romito, che rappresenta ancor oggi un mistero di difficile lettura, nel 1961 ha attratto l’attenzione di tutti gli studiosi di preistoria, proponendosi come il punto cardine di una presenza preistorica e umana, fino a quel momento sottovalutata.

Si apre, forse, tra le montagne alle falde del Pollino il grande tempio della preistoria calabrese, tra Mormanno e Papasidero, uno degli ultimi paesi della Calabria ai confini con la Lucania, in uno strano ed estemporaneo miscuglio vi si trovano tutti gli ingredienti per tentare di trovare radici ed origini di culti che si perdono nella notte dei tempi.

Ma non a caso, si snoda proprio in questa area di confine tra Calabria e Lucania, tra il territorio di Tortora, Praia a Mare, Torre Talao, Scalea e Papasidero un itinerario suggestivo tutto legato alla preistoria, e che trova una sorta di continuità tra gli strati del paleolitico inferiore di Tortora e Rosaneto, quelli della grotta della Madonna a Praia a Mare e quelli del riparo del Romito a Papasidero.

Grotta di Praia a Mare

Pescatori di salmoni

Ma mentre gli uomini del riparo del Romito si cibavano di animali di ambiente silvestre, quello delle grotte di Praia a Mare, legati all’ambiente marino e di pianura si distinguevano per una preferenza legata ai molluschi marini e terrestri e, cosa singolare, si sono rivelati esperti pescatori di salmoni, i cui resti, quasi tutti appartenenti alla specie «Salmo trutta» appartengono (Cremonesi) a esemplari di grande mole della forma migratoria, attualmente diffusa sulle coste nord europee, che si riproduce in acque dolci con temperature dai 5 ai 10° C. e può sopravvivere in acque marine con salinità non molto elevata.

Così appare verosimile lo scenario di una vallata del Noce teatro di fantastiche battute di pesca degli uomini del paleolitico che, con le loro lance dalle punte di selce o di osso, infilzavano i salmoni nella stagione degli amori nella loro migrazione verso le sorgenti del fiume. Attività evidentemente scomparsa nelle epoche successive, forse per i mutamenti di ordine climatico intanto sopravvenuti che hanno mutato la fauna dei fiumi.

Mausoleo di Cirella

La Valle del Noce

E forse proprio dalla Valle del Noce parte il filo conduttore di un itinerario storico suggestivo che dai reperti preistorici di Tortora, Praia a Mare, Scalea e Cirella e quelli interni del riparo del Romito, presenta testimonianze di insediamenti che si ripresentano nel tempo sulle basse colline della catena costiera prediligendo le vallate corrispondenti ai corsi inferiori dei fiumi che solcano la costa come il Lao e l’Abatemarco fino a Cirella.

Questo arco di costa, è chiuso a nord dal Capo Palinuro ed a Sud dall’isolotto di Cirella, che senz’altro è stato teatro del passaggio di navigatori di tutte le età, dai Micenei sulla rotta dei metalli, ai Calcidesi fondatori di Cuma, si propone come un complesso archeologico diversificato che partendo dagli insediamenti Enotro-greci, trova la sua punta di diamante nella lucana Laos sulla collina di San Bartolo, nella frazione Marcellina di S. Maria del Cedro Cedro; e si chiude a sud con la colonia romana di Blanda julia, affiorata sul colle di Palecastro tra il 90 e 94, che subentra alla distrutta Laos quando Roma impone il suo governo alle popolazioni lucane e brettie diventa, forse, il punto di riferimento per le numerose ville romane che da quel momento incominceranno a sovrapporsi agli insediamenti indigeni dei terrazzi più prossimi al mare; per chiudersi con punta Cirella, la «Cerillae» di Strabone, dove è possibile ancora ammirare la bella costruzione appartenente ad un Mausoleo posta sull’itinerario di quella via Popilia che congiungeva la Calabria alla Capitale.

Il mistero di LAOS città dei Lucani

Se non fosse per Strabone, spesso maltrattato dagli studiosi moderni per qualche imprecisione, non avremmo oggi la descrizione della Calabria Antica. E, forse, se fosse stata attribuita più fiducia al suo itinerario una sorta di descrizione storico-turistica di duemila anni fa, tanti misteri dell’archeologia della Magna Grecia si sarebbero chiariti prima.

Per Laos che rappresentava uno dei rebus più suggestivi, Strabone aveva dato indicazioni abbastanza indicative «Segue dopo Palinuro, il promontorio, il porto e il fiume Pissunte (forse Policastro?)»: tutti e tre hanno lo stesso nome. Qui condusse nuovi coloni Micito, reggente di Messene in Sicilia, ma poi quelli che vi si erano stabiliti se ne ripartirono, ad eccezione di pochi.

«Dopo Pissunte – prosegue Strabone – ci sono il fiume, il Golfo ed il fiume di Laos, l’ultima città dei Lucani, un poco all’interno rispetto al mare: fu colonia dei Sibariti e dista da Elea (Velia) 400 stadi». E, quindi conclude con un aneddoto: «La costa della Lucania misura 650 stadi». Vicino c’è poi il santuario di Draconte, uno dei compagni di Odisseo a riguardo del quale fu dato agli Italioti l’oracolo: «Tempo verrà che un gran popolo sarà distrutto presso il Laio Draconte». Presso questa Laos, infatti, i Greci che erano in Italia combattendo, subirono insuccessi per opera dei lucani, essendo stati ingannati dall’oracolo.

La tomba del guerriero di Marcellina

Ed a Laos, raffiorata con il suo impianto urbano regolare e con la sua zecca dove ancora vi erano i tondelli delle monete da coniare, sulla collina San Bartolo di Marcellina, vi era una popolazione che alla guerra doveva lasciare spazi importanti se da una delle tombe a camera, che accoglieva le spoglie di un uomo ed una donna, ha restituito nel 1963 un completo corredo di tipo militare: un elmo frigio, una corazza finemente decorata a sbalzo, con schinieri, e cinturoni di cui due da parata, lancia e giavellotto in ferro: forse l’equipaggiamento di un principe-guerriero. Alla donna apparteneva tutto il corredo caratteristico della vita femminile: specchio di bronzo, utensili da toelette in osso, perline di pasta vitrea. Nella tomba vi era pure un «messaggio» scritto in greco su una lamina in piombo simbolicamente spezzata ai lati, che, come ci precisa la dott.ssa Silvana Luppino, potrebbe rappresentare una «estrema protesta di un italiota contro i nuovi dominatori lucani, una sorta di maledizione per una sequela di personaggi di cui vengono elencati i nomi certamente lucani, fra cui un magistrato e la moglie, in una perfetta scrittura greca-achea, forse opera commissionata proprio a un greco da parte di un indigeno insofferente dei dominatori lucani, fatta scivolare nella tomba per affidarla gli dei degli inferi». […]

di Giuseppe Mazzù

Fonte: LA REGIONE CALABRIA –  MARZO 1995

Foto RETE

 

 

 

 

 

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