Saverio Strati racconta -LETTERA DI UN PADRE AL FIGLIO

 

 

Di mio padre avevo paura, quand’era presente; ma ora che era lontano non avevo per niente paura, ma rispetto, grande. Non so poi se fosse proprio rispetto, se è giusto dire rispetto: desideravo che mio padre fosse contento di me, ecco. Ci tenevo a essere il più bravo della scuola, perché mio padre se ne potesse vantare, perché lo raccontasse ai suoi compagni di lavoro, ai suoi compagni di baracca.

 

Ci scriveva lunghe lettere e ci raccontava tutto di sé; e pretendeva che io gli rispondessi e gli raccontassi tutto di me. Che facevo di bello? mi domandava a tu per tu in un brano di lettera tutto dedicato a me.

 

Benedetto figlio, cominciava, ho detto alla mamma tutte le cose, che tu ormai puoi leggere da te. Ora mi rivolgo a te in persona, da uomo a uomo, per dirti che io ti penso, che qualche notte mi accade di sognarti. Ieri notte infatti ti ho sognato: mi pareva che tu fossi un signorone con gli occhiali e il cappello, con la borsa di pelle, e sentivo che gli altri ti chiamavano ingegnere. La mia gioia è stata così stragrande, che mi sono svegliato. Avevo il cuore contento; mi sentivo leggero, in pace, e mi son detto: con l’aiuto di Dio, se non mi ammalo, se non mi accade niente di grave, lavorerò e manterrò mio figlio all’università. Tu che ne pensi? Ti senti il coraggio di arrivare all’università? Che gioia sarebbe per tuo padre!

 

Qua, bello mio, si lavora tanto e si vive alla meglio. Un giorno ti racconterò a lungo come si vive fra questi stranieri che ci trattano come noi trattiamo gli asini. Ci permettono di lavorare, ci pagano, e basta. Loro a casa loro e noi fra noi in baracca, come se noi non fossimo uomini, come se non fossimo in grado di capirli; come se loro non avessero niente da imparare e da sapere di noi. È terribile, figlio mio, come gli uomini stanno divisi fra loro! Come se non fossimo cristiani che pregano Cristo. No, così non va. Ma un giorno lo capirai da te.

 

È  durissimo vivere qua, non credere; ma il lavoro non manca e il lavoro porta moneta, che ci permette di vivere. Anche i nostri dovrebbero svegliarsi e creare lavoro; ma non lo fanno. Non ci amano. Amano solo il portafogli pieno di carte da centomila e di essere riveriti. Nient’ altro amano: né l’uomo, né Dio.

 

Stando qua mi diventa chiaro quanto t’ho appena scritto. Il clima è diverso. Anche ora che è estate il cielo è nuvoloso. D’inverno fa molto freddo. Anche dieci sotto lo zero; e la mattina bisogna levarsi presto e correre al lavoro. Buio quando esci e buio quando rientri in baracca. La chiamiamo baracca, ma non è proprio una baracca. Un giorno te ne renderai conto da te. Un giorno forse ti farò venire su, così ti abituerai a conoscere a capire il mondo. Ti racconto queste cose, caro mio, in modo che tu incominci a renderti conto che la vita non è rose e fiori e in modo che tu apra davvero gli occhi e vada a scuola per imparare cose che io non ho potuto imparare, in modo che tu diventi un uomo più avanzato di tuo padre, com’è giusto e santo.

 

Scrivimi e raccontami cosa fai. Ogni volta che leggo quello che mi scrivi ho l’impressione di sentire la tua voce e non raramente mi viene da piangere: non so  se dalla gioia o dal dolore, È da bestie vivere lontani dai figli. Nessuno può immaginare quanto sia doloroso vivere lontano dai propri figli.

 

Da TERRA DI EMIGRANTI, di Saverio Strati, Salani

 

Foto RETE

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close