Finita la guerra, la pace porta gl’indennizzi. E accadono due brutte cose

NAPOLI –  Magazzini del porto sventrati dalle esplosioni.

 

Quando la Seconda guerra mondiale finisce, la capacità industriale italiana è tornata ai livelli del 1884. Ma quella meridionale ha subito devastazioni gravissime, perché il Sud è stato campo di battaglia fra le forze alleate e quelle naziste, dal 1943. Il Nord se l’è cavata con pochissimi danni. In più, per un anno, dal luglio ’43 al maggio ’44, dallo sbarco alleato in Sicilia allo sfondamento della “linea Gustav” nazista, si sono create due distinte aree monetarie: «Mentre nel Mezzogiorno si sviluppava un’inflazione intensa, nel resto d’Italia occupato dai tedeschi l’aumento dei prezzi restava contenuto» (La questione meridionale prima dell’intervento straordinario). Con l’avanzata e la vittoria, i prezzi si riallineano, ma per circa un anno sono stati quattro-cinque volte superiori al Sud, generando una crisi monetaria solo nel Mezzogiorno e «indebolendone ulteriormente la struttura economica e le capacità di ripresa».

Napoli ebbe oltre 20mila vittime a causa dei bombardamenti tra il 1940 e il 1943.

La pace porta gl’indennizzi. E accadono due brutte cose (solo per il Sud, si capisce):

  1. Arrivano in Italia, dagli Stati Uniti, i soldi del piano Marshall, per risanare il sistema produttivo scassato dal conflitto. Ma quello del Sud (distrutto il 35 per cento degli impianti industriali, oltre il 50 per cento delle centrali elettriche; contro il 12 del Nord) è troppo malridotto: immessi nel circuito economico del Settentrione, quei finanziamenti renderebbero subito molto di più. Per la stessa ragione, i miliardi destinati al recupero del territorio meridionale devastato finirono tutti al Centro-Nord. E si arriva al paradosso che i guasti sono a Sud, il risarcimento va a Nord: vale pure per i duecento milioni di dollari che versano gli angloamericani, per i danni di guerra (indennizzo «corrisposto in proporzione addirittura inversa alla loro entità» scrive Vòchting), e per i dieci miliardi al mese che l’Iiri prende dalla cassa pubblica.
  2. Basta? Non basta. «Mentre l’industria centro-settentrionale si apriva alla concorrenza internazionale dopo essere stata protetta per un lungo periodo, durante il quale aveva consolidato le sue posizioni, quella meridionale era colta dal nuovo corso della politica estera economica italiana, non più protezionistica, ma liberistica, nella fase degli inizi o in quella della semplice impostazione. L’urto non poteva essere più drammatico e scoraggiante» scrive De Rosa. Riassumo: nel Regno delle Due Sicilie, esisteva una sorta di ministero delle Partecipazioni statali (l’Istituto di incoraggiamento) per sostenere la crescita industriale ed economica; con l’Unità d’Italia, questa protezione fu abolita, in nome del liberismo; salvo ripristinarla pochi anni dopo, ma a beneficio dell’industria del Nord, in forme simili e proporzioni incomparabili; e poi riconvertirsi al liberismo, quando il sistema produttivo settentrionale è ormai in grado di camminare da solo e quello meridionale fuori gara (ma, ancora nel 1950, la Germania chiese che fosse ridotto il dazio su alcuni suoi beni industriali, specie macchine e automobili, pena il taglio alle importazioni di nostri prodotti agricoli dall’Italia. A spese del lavoro meridionale, si continuava a favorire l’industria del Nord).

La somma di queste scelte, si traduce in due numeri: se nel 1860, anno dell’invasione [piemontese], l’economia del Sud vale cento, nel 1947, vale sessanta. Grazie, Italia! E vent’anni di dittatura dal cuore padano hanno accelerato l’emarginazione del Mezzogiorno: il reddito pro capite della Campania, una volta fra le terre più ricche d’Italia, è sceso a poco più della metà di quello nazionale; in altre regioni meridionali, è peggio: appena un terzo.

Da TERRONI, di Pino Aprile – Piemme

Foto RETE

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