Le chiamano “riforme”, ma smantellano le conquiste operaie e popolari degli anni ’60 e ’70

[…]Vediamo, in sintesi, con schematismo estremo, le vicende mondiali. Nel dibattito pubblico si usa il termine globalizzazione come un pass-partout magico per spiegare ogni cosa. Così, alla fine, non si spiega niente e si blatera a vuoto. Occorre invece cogliere il meccanismo essenziale del processo, la logica dominante che condiziona tutto il resto. Sul piano economico, che è l’aspetto per noi qui più interessante, la globalizzazione è stata essenzialmente delocalizzazione. Vale a dire trasferimento di imprese e capitali dalle metropoli industriali nelle aree del mondo in cui la forza lavoro poteva essere pagata con bassi salari, la pressione fiscale sul capitale particolarmente mite, le regole ambientali le più vantaggiose possibili. Tali trasferimenti su scala globale – resi possibili ed economicamente sostenibili dalla rivoluzione elettronica – ha fatto conseguire al capitalismo, diventato sempre più transnazionale, due risultati strategici:

  1. Una formidabile ripresa del processo di accumulazione fondata sui salari di fame dei paesi poveri, con allargamento dei mercati e dunque un rafforzamento di potere delle imprese su tutta la società.
  2. Un rapporto di forza politica e sindacale sovrastante dell’ impresa nei confronti dei lavoratori dentro i paesi industrializzati, continuamente minacciati da possibili delocalizzazioni e licenziamenti.

La quasi impossibilità dei lavoratori di poter rivendicare più alti salari e migliori condizioni di lavoro di fronte alla possibile risposta padronale di un trasferimento dell’impresa, ha creato una asimmetria di potere inedita nella storia del capitalismo. Non solo l’utilizzo del marxiano “esercito di riserva” dei disoccupati contro gli occupati, ma la minaccia costante della chiusura della fabbrica, la fine del lavoro.

Questa nuova posizione di dominio del capitale si è imposta come una realtà naturale, quale l’unica realtà possibile.”Non c’è alternativa”, diceva sprezzantemente Barbara Thatcher.

Possiamo dire che tale novità di scenario, insieme al crollo dell’URSS e dei Paesi comunisti, ha finito col rovesciare l’immaginario politico del ‘900. Ed ha anche creato una situazione inedita per la politica intesa come progetto di trasformazione della società. Perché il soggetto più forte del conflitto, la classe operaia, quello attorno a cui si annodavano le varie istanze sociali di emancipazione  di tutti i ceti subalterni, è stato gravemente indebolito. Da ciò è derivato il progressivo arretramento dei partiti popolari, costretti a mediare col proprio popolo la progressiva riduzione del welfare e le conquiste novecentesche. Se vogliamo comprendere le difficoltà strategiche della sinistra oggi occorre guardare a questo passaggio fondamentale.

Di fronte al processo di trascinamento dei salari europei e occidentali verso gli standard dei paesi poveri, i partiti socialdemocratici e popolari si sono acconciati a rendere competitivi i capitalismi dei propri paesi, adottando l’armamentario concettuale e ideologico del pensiero neoliberistico.

Dunque : flessibilità del lavoro, privatizzazioni, liberalizzazioni, diminuzione del carico fiscale sulle imprese e incentivi all’investimento, politica dell’offerta, riduzione del welfare. Da Schroeder a Blair, da Treu a Hollande, dalla Merkel a Renzi, da Moscovici a Draghi, con sfumature e accenti diversi, tutte queste innovazioni del dominio capitalistico sono state chiamate riforme. Sono le riforme a cui ci esortano le autorità politiche e finanziarie dell’Unione Europea. Parole e pensieri diversamente modulati di un pensiero unico.

Dunque, è bene sapere che le riforme di cui continuamente si parla sono state e sono un gigantesco piano per rendere socialmente sopportabile lo smantellamento delle conquiste operaie e popolari degli anni ’60 e ’70 e per fornire al capitale la possibilità di competere con gli standard da “ accumulazione originaria” del Paesi emergenti.

Che cosa ha comportato tale passaggio sul piano economico? Le riforme capitalistiche hanno imposto un progressivo arretramento dei redditi da lavoro, l’indebolimento della domanda interna, un vasto processo di indebitamento pubblico e privato. Quest’ultimo particolarmente marcato in USA e nel Regno Unito. E’ da tale meccanismo, dal tentativo di surrogare la stagnazione dei salari e l’indebolimento della domanda interna con l’indebitamento, che è scoppiata negli USA la bolla dei mutui subprime e dunque la grande crisi del 2008. […]

Di Piero Bevilacqua

Fonte: http://www.osservatoriodelsud.it/2018/01/31/tre-finalita-danalisi/

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