Meno di mille lire al giorno, zappando per almeno dodici ore

Desiderai avere anch’io l’età per emigrare, per viaggiare, per essere libero di decidere quello che mi piaceva. Quel ragazzo, secondo il mio criterio, era libero: lavorava, guadagnava e spendeva quanto voleva, senza dover dare conto a nessuno.

– Voi siete andato altre volte all’estero? — domandò Pasquale al giovane dai capelli ricciuti.

— L’anno scorso. Per pochi mesi. Ora ci ritorno col contratto di lavoro in tasca. Lavorerò in fabbrica, a Olten, come manovale… E voi?

— Io lavoro da muratore in Germania — disse Pasquale. –

Guadagni bene tu, col tuo lavoro?

— Bene, bene. Anzi benissimo, se penso a quello che guadagnavo al mio paese. Meno di mille lire al giorno, zappando per almeno dodici ore; e quando mi capitava di fare quindici giornate al mese, mi ritenevo fortunato. Ma poi dovevo consumare le scarpe, per ricevere i soldi che mi toccavano. Perdio, mi dissi, dopo che tornai da soldato e avevo visto e capito che il mondo è grande, perdio, ora sì che scappo da quest’ambientaccio. Lo dissi a mio padre. Voglio emigrare, gli dissi. Ma dove vai, e qua e là. Sta’ a casa tua. Sapete come sono i padri. In cerca di lavoro vado, gli dissi. In cerca di un lavoro continuo e sicuro. Qua niente è sicuro, qua ti trattano come un cane, pà, gli dissi. E scappai in Svizzera. Vediamo come si vive in un altro paese, mi dicevo. Proviamo. Ci stetti alcuni mesi, in Svizzera; ma poi calò il freddo. Un freddo, Madonna mia, ihm!, che le orecchie mi si spezzavano, se le toccavo. Lavoravo dai contadini, mi capisci? All’aperto. Mi dissi: io il contadino non voglio farlo; io in questo paese ci ritorno, ma per lavorare in fabbrica, al coperto. Al coperto il freddo non si sente; in fabbrica il lavoro è continuo e il guadagno non dispiace. C’era infatti un mio amico che lavorava in fabbrica e gli dico, prima di tornare al paese: se ti capita, gli dico, un lavoro per me, fammelo sapere subito, che io scappo anche di notte, anche con la febbre scappo e vengo su. E lui appena può, tata mi scrive: se hai voglia, il lavoro c’è. Fatti cambiare qualifica e corri su. Non più da contadino e quindi da stagionale, ma da bracciante in fabbrica. Ti faccio avere il contratto e se ti garba venire vieni, ‘chè  qua le fabbriche crescono, qua hanno bisogno di braccia… Se mi garba venire? Ma io, amico mio, volo scappando di corsa e correndo come un treno. Anzi volo veloce come la vista. Tata, gli rispondo quel giorno stesso: fammi mandare il contratto, che io sono disposto a scappare da quest’ambiente senza manco girarmi indietro. Gli dico anche: mandami il contratto, visto che c’è bisogno di braccia, anche per mio cugino di sedici anni già compiuti il mese scorso… Insomma per lui — e accenna al ragazzo che sta seduto in punta al sedile e tiene le mani strette fra le ginocchia.

Anche lui guarda fuori come me e certo anche lui come me è stupito di tutto quello che vede e sente di nuovo. A tratti si guarda intorno e sembra intronato, smarrito. Forse anch’io sembro smarrito come lui, pensai, e come mia madre che s’è stretta nel suo cantuccio e sembra che ascolti ma invece guarda davanti a sé tutt’assorta.

Nel corridoio e negli scompartimenti c’era animazione e chiacchierio, c’erano risate e voci. Inoltre c’erano di quelli che andavano di compartimento in compartimento a chiedere di questa cosa e di quella e a dare avvertimenti e spiegazioni sul viaggio che stavano per affrontare all’estero.

Il giovane dai capelli ricci continuava il suo discorso che seguivo con voluttà, mentre non perdevo di vista il resto. Non mi saziavo di guardare il via vai della folla che correva ai treni in partenza, che scendeva dai treni in arrivo.

— Avevo parlato con suo padre. Zio, gli dico, perché non mandate vostro figlio con me? — continuò a raccontare a vele gonfie il giovane. — Ma dove andate?! E qua e là. Ancora è piccolo… La paura di tutti i padri, non so se mi capisci… Tu di dove sei?

— Della provincia di Reggio — disse Pasquale. — E tu?

— Della provincia di Lecce… È da parecchio che lavori in Germania? Si guadagna bene, là?

— Io sono un bandista più vecchio di te — gli rispose Pasquale.

— Per guadagnare si guadagna bene. Dipende anche da quanto uno intende lavorare… Se fa cottimo, la pezza ci esce.

Il leccese approvò con brevi cenni della testa e subito riprese:

— E così dico a mio zio: zio, levate vostro figlio da questa terra ora che è giovane. In Svizzera si sta bene. In Svizzera si lavora e si guadagna. Ogni sera di sabato ti pagano, zio. Otto ore fai e otto ore ti pagano; dieci ora fai e dieci ore ti pagano. Non come qua da noi che ti succhierebbero il sangue senza darti poi manco una lira. In Svizzera se lavori ti rispettano e non ti frodano nemmeno di un centesimo. La Svizzera, carissimo zio, è un paese fatto così: il tuo è tuo: lavori e ti pagano. Anche nel nostro paese lavori, ma non ti pagano e ti disprezzano. Perché da noi chi lavora con le braccia è ritenuto cane, cane scodato, cane rognoso, cane povero. Devi scappellarti per avere lavoro, nel nostro paese…

Da TERRA DI EMIGRANTI, di Saverio Strati – Salani

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