DOCUMENTI – Il greco di Calabria: un esempio di bilinguismo nell’Europa antica

Codice purpureo

Il presente contributo intende fornire un esempio di come un concetto formulato in tempi relativamente recenti, nell’ambito degli studi linguistici, quale è quello del bilinguismo, possa individuare la soluzione migliore per un problema tanto antico, quanto dibattuto, quello relativo alle origini del greco di Calabria.

La legge 482 del 1999 sulle minoranze linguistiche tutela la presenza, nell’estremità meridionale della Calabria, di un’isola linguistica ellenofona, conseguenza e retaggio dei continui contatti e delle ininterrotte frequentazioni tra Italia e Grecia.

Attualmente, l’area nella quale si parla una forma di lingua greca, chiamata grecanico, o greco aspromontano, o bovese, è costituita da pochi comuni situati ai piedi dell’Aspromonte, lungo il versante jonico della provincia di Reggio Calabria, nell’ampia vallata della fiumara Amendolea. L’Amendolea nasce presso Montalto, a 1.956 metri s.l.m., e scende attraversando un paesaggio impervio ed impraticabile che ha fortemente condizionato, nel tempo, l’uso antropico della zona. I paesi grecanici sono posti a circa 15 km dalla costa e coprono, approssimativamente, un territorio di 233 kmq.

I maggiori tra questi centri sono: Bova, Bova Marina, Condofuri, Roccaforte del Greco e Roghudi.

È, però, doveroso aggiungere che oggi, nonostante i numerosi tentativi di salvaguardia, il grecanico rappresenta un codice linguistico in declino; esso, probabilmente, sarà sostituito del tutto dall’italiano nel giro di alcuni decenni. Senza soffermarci sull’atteggiamento, comprensibile ma in alcuni casi discutibile, dei fautori di una rinascita del grecanico, possiamo concordare con Paolo Martino che, già nel 2008, affermava che in Aspromonte la grecofonìa può dirsi praticamente spenta (1).

Una delle questioni più dibattute negli studi linguistici del Novecento riguarda, come si diceva, l’origine della lingua parlata nell’isola grecanica della Calabria (2).

Ci si chiese, sostanzialmente, se il greco che si parla ancora oggi in Calabria sia di origine classica o bizantina. Il problema era quello di decidere, con prove concrete e non sulla base di argomenti ex silentio, se i Greci dell’Aspromonte siano i diretti continuatori dell’antica grecità preromana o se rappresentino invece gli ultimi eredi della tradizione bizantina.

Nel cercare di fornire una risposta al problema, i linguisti si sono schierati sostanzialmente su due fronti: da una parte, gli arcaisti sostennero che il grecanico rappresenti l’evoluzione della lingua portata dai colonizzatori greci tra l’VIII e il III secolo a.C.; dall’altra, i bizantinisti ritennero che esso sia quel che ancora resta della lingua diffusa in Italia dai Bizantini, giunti ad ondate successive, a partire dal VI secolo d.C.

Di ognuna delle due teorie, saranno illustrate le prove linguistiche più significative.

La teoria degli arcaisti venne formulata, cronologicamente, per seconda ma è quella che ha goduto di larghissimo credito grazie anche al nome del suo più importante esponente: Gerhard Rohlfs. Questi, filologo, glottologo e dialettologo berlinese, afferma di essere stato, fino a quando compì il suo primo viaggio in Calabria, nel 1921, un partigiano della teoria bizantinista. In seguito le attribuì diversi errori e si convinse che c’erano tutti i presupposti per affermare che le odierne isole ellenofone debbano costituire gli ultimi avanzi di un territorio ben più esteso in passato e che la grecità calabrese conservi dei tratti di un grecismo autoctono, da riconnettere direttamente alla lingua della Magna Grecia (3).

Gerhard Rohlfs

Sostanzialmente il Rohlfs sostiene che il greco fosse parlato nel Suditalia sicuramente ancora nel I secolo d.C.4 e che nei secoli seguenti non sparì mai del tutto. Durante il periodo della dominazione romana il latino era la lingua delle autorità, probabilmente anche delle classi più alte della società; ma a livello popolare il greco sembrerebbe essere stato la varietà linguistica più diffusa. Nessuno spostamento nella situazione linguistica di un popolo è immaginabile senza che la nuova lingua abbia messo salde radici nel popolo delle campagne (5).

L’imporsi del Cristianesimo ne rafforzò la resistenza: la nuova religione si esprimeva in greco, preti e vescovi erano in gran numero di provenienza orientale. A partire dal VII secolo cominciarono ad apparire, dapprima in Sicilia poi anche in Calabria, monaci greci, specialmente di rito basiliano. E’ chiaro che i numerosi conventi basiliani furono un sostegno del rito greco e, anche quantitativamente, l’elemento greco si accrebbe per il grande afflusso di monaci (6). Seguì la dominazione bizantina: il greco ridivenne la lingua corrente e ricevette nuovi impulsi. Ciò induceva il Rohlfs a ritenere, in un rigido schematismo, che in questi territori il latino non si impose come lingua del popolo; allora le parlate romanze sarebbero il frutto di una seconda romanizzazione, una neoromanizzazione dovuta ad apporti esterni recenti, causata in parte da un italiano cancelleresco di epoca medievale ed in parte dalla parlata di coloni provenienti dall’Italia settentrionale (7) .

Vediamo adesso alcuni tratti linguistici che testimonierebbero l’arcaicità del grecanico; essi appartengono o proprio alla fase arcaica del greco, alla prima colonizzazione insomma, o a una koin» dorico-sicula, cioè una lingua che ha un colorito proprio all’interno del panorama generale dominato dalla koin», poiché mantiene molte forme dialettali doriche, scomparse in altre zone proprio a causa dell’azione livellatrice della koin». Si tratta, in ogni caso, di una lingua pre-bizantina. La koin» dorico-sicula non fu soltanto della Sicilia ma, dopo aver esercitato la sua influenza su buona parte dell’isola, si diffuse anche oltre lo Stretto.

Roghudi

Rientrano nei relitti della koin» dorico-sicula:

– i cosiddetti “dorismi” (es: bov. lanò “palmento”, “vasca di pietra in cui si pigiano le uve” < dor. lanÒj; bov. nasida striscia coltivata lungo una fiumara” < dor. nas…da accus. di nas…j; bov. paftà, pattà “pasta di latte rappreso”< dor. pakt£; bov. tamissi “caglio” < dor. tam…sion; bov. cliza, criza, crizza “pulicaria” < dor. knÚza, forma dialettale per kÒnuza). La doricità dei termini si manifesta in alcuni casi con la conservazione della /a:/, a fronte dello ion.-att. /e:/ (lanÒj, nas…da, ¥samoj, ¢cÒj, c£calon, bl£crion); in qualche caso si tratta di vocaboli appartenenti al lessico del siracusano Teocrito (lanÒj,  pakt£, knÚza); due parole infine sono considerate già dall’antichità siciliane (ÑnÒpordon, delfak…na);

– antiche geminate di origine etimologica, presenti anche nei dialetti di Cipro e del Dodecaneso ma scomparse nella Grecia continentale dove ricorrono solo nell’ortografia ufficiale (es: gramma, glossa, ennèa, àrrusto). Fanciullo e Caracausi, indipendentemente l’uno dall’altro, hanno però dimostrato l’infondatezza di questa argomentazione (8);

– forme del genitivo dei pronomi dimostrativi (es: bov. tutù, rispetto al greco comune toÚtou; bov. cinù, rispetto al greco comune ™ke…nou), secondo il Kapsomenos (9).

Sono, invece, prove di derivazione dal greco arcaico:

– relitti lessicali, cioè parole che in Grecia sono scomparse da tempo e che, al contrario, ritroviamo in vaste zone della Calabria. Sono termini che talvolta appaiono anche in altri dialetti neogreci, ma che figurano ovunque come residuali, mentre nell’Italia meridionale rappresentano una parte cospicua del lessico (es: bov. agoléo “uccello di notte” dal gr. ant. a„gwliÒj; bov. èpopa “upupa” dal gr. ant. oepoy; bov. flòvestro “spauracchio” dal gr. ant. fÒbhtron). Numerosi arcaismi poi non trovano riscontro né nella lingua antica, né nel greco bizantino, né nel neogreco: sono testimoni di una grecità del tutto originale e periferica (es: bov. kuna “scrofa”; bov. cceddi “piccolo”; bov. susáci “spiga verde del grano che si abbrustolisce sul fuoco”);

– una classe di aggettivi femminili in -Òj. Per gli aggettivi che nel greco classico avevano una sola forma per il maschile e per il femminile (come ¥logoj, ¥lutoj, ¥shmoj e molti altri), la koin» creò una forma speciale di femminile (in -h o in -a). Nel greco-calabro si mantenne invece un’unica forma per entrambi i generi (es: bov. mia vuqulìa òtimo “una vacca gravida”, cfr. gr. boàj q»leia ›toimoj; bov. mia ega àsamo “una capra senza marchio”, cfr. gr. aOEga ¥samoj). É questo un tratto particolarmente arcaico, difficilmente spiegabile se non come relitto di arcaicità anche dai più convinti bizantinisti (10);

– singole forme verbali altrove tramontate sotto l’azione della koin»:

a) l’infinito: mentre in Grecia l’infinito, come forma verbale, è scomparso (sopravvive solo nel Ponto e rappresenta un tipico esempio del fenomeno delle aree laterali), nell’italo-greco si è mantenuto (11);

b) l’imperfetto indicativo per esprimere il condizionale, in continuazione dell’uso antico (in neogreco c’è una forma tipica, nata da una combinazione col verbo šlw), cfr. per es: bov. égrafa “scriverei” ma lett. “scrivevo”, bov. ìpiga “andrei” ma lett. “andavo”  (12);

c) il participio attivo dell’aoristo (/- sas/ > /-son/) (es. bov. gráfsonta < *grápsontas);

d) l’imperativo dell’aoristo (/ -son/) (es. bov. tóreso < theóreson);

– la forma di termini romanzi che i Greci hanno mutuato per tempo dai loro vicini e che non possono essere giunti per il tramite della koin» perché sono limitati ai dialetti italo-greci, quali, ad esempio, le forme pluppo (pioppo) < *ploppus per populus, ascla (scheggia di legno) < *ascla per *astla (< assula) ed altre; forme, cioè, che conservano i nessi fonetici con – l -, che nei vicini idiomi romanzi ritroviamo palatalizzata cfr. calabr. chiuppu; calabr. aschia. Ciò significa che i Greci del Mezzogiorno assunsero queste forme prima che si verificasse la palatalizzazione nelle lingue romanze, palatalizzazione che avvenne presumibilmente negli ultimi secoli del latino volgare  (13);

– parole di imprestito latino che si adattarono, però, all’accentazione greca (com’è noto, il greco obbedisce alla regola dell’ultima sillaba, il latino a quella della penultima). Tale fenomeno è tuttavia avvertibile solo per gli imprestiti pre-bizantini, perché dopo la conquista bizantina anche per tali imprestiti si mantenne l’accentazione latina o romanza: si trovano, quindi, nel grecanico voci come lúmbrico, da loÚmbrikon (lat. lumbrīcus), sécreto, da sškreton (lat. secrētum).

Il problema cruciale della teoria arcaista è, però, che mancano delle prove documentarie, per ammettere che, dal I al V sec. d.C., accanto alle popolazioni che parlavano il latino, ci fossero aree di lingua greca, per le quali sia possibile stabilire un rapporto diretto con le odierne isole ellenofone.

Gallicianò

La teoria dei bizantinisti venne formulata, invece, già dalla seconda metà dell’Ottocento; i suoi più importanti esponenti furono Giuseppe Morosi (14), Carlo Battisti (15), Oronzo Parlangèli (16) (quest’ultimo, però, si occupò in maniera specifica della grecità del Salento). Secondo i bizantinisti, l’origine del grecanico è da ricondurre all’età bizantina: le colonie furono fondate dopo il secolo X (17), in un periodo compreso tra i secoli XI e XII.

Questa teoria si basa su attente deduzioni storiche.

Il cavallo di battaglia dei bizantinisti è il ricorso a spostamenti di popolazioni dall’impero bizantino all’Italia meridionale. Chiedendosi quali motivi abbiano potuto spingere i coloni dalla Grecia verso l’Italia e considerato che quest’ultima sul finire dell’XI secolo era per i Bizantini perduta, il Morosi postula che questi Greci non possano essere stati inviati nell’Italia meridionale dagli Autocrati di Bisanzio (come immagina invece sia accaduto per gli Otrantini), e che neppure siano emigrati spontaneamente, data la politica sospettosa degli Altavilla verso l’Oriente. Questi Greci rappresenterebbero invece i lontani discendenti di torme di infelici, strappati alle loro case e trascinati in Italia durante le guerre nella penisola greca tra Roberto il Guiscardo e suo figlio Boemondo e Alessio Comneno. Le primitive colonie saranno poi state accresciute da profughi della vicina Sicilia, oppressi dai Normanni e si saranno ingrossate ancor più quando Ruggero II, attraversando vittoriosamente l’Epiro, l’Acarnania, l’Etolia, la Beozia e la Morea ne riportò in Italia gli abitanti come schiavi. Le colonie risulterebbero dunque composite, abitate da gente proveniente da diversi luoghi in differenti momenti storici (18).

Carlo Battisti

Vediamo, quindi, alcuni dei principali punti di forza linguistici dei bizantinisti:

– la toponomastica non dà alcuna conferma di un rapporto ininterrotto tra la grecità antica e la bizantina. I nomi di luogo sono, infatti, in genere, molto conservativi, ma in Calabria non si ritrova alcun nome di località (abitata o meno) riferibile alla colonizzazione greca del periodo preromano o romano. Molti nomi paleogreci di monti e corsi d’acqua (che sono tra i più conservativi), ma anche di città e centri abitati, scomparvero, tanto che oggi il fiume ‘Wk…naroj è il Fiume dei Bagni, il fiume Tšrina è l’ Amatello, ZefÚrion ¤kron è Capo Bruzzano ed `Hr£kleion è Capo Spartivento, per citare solo qualche caso. Tanti altri nomi vennero latinizzati: Lamátu, per esempio, non continua un grecizzato L£mhtoj, da cui ci si sarebbe attesi Landò. Questi esempi dimostrano che, prima della colonizzazione bizantina, la lingua parlata in quei territori non era il greco ma il latino;

– i termini del greco classico che possono qua e là affiorare nel grecanico rappresentano rimanenze di una rinascenza greca del Medio Evo, e non costituiscono alcuna prova di arcaicità;

– la trasformazione del greco antico in neogreco avvenne in Grecia nel X secolo; il greco del Salento coincide strettamente col neogreco; ne consegue che l’origine delle colonie salentine è da ricercare intorno al X secolo. Ora, il greco di Calabria ha un colore d’antichità meno spiccato rispetto al greco del Salento, quindi è posteriore al X secolo. Tra le prove di questa minore antichità rientra, ad esempio, il significato di grado positivo dei nomi con suffisso diminutivo (d£fnion per d£fnh, “alloro”; skwp…on per skèy, “assiolo” etc.).

Area grecanica calabrese

La teoria dei bizantinisti fa leva anche su un principio ideologico che venne ben illustrato ed esposto dal Parlangèli (19): se è vero che nel mondo antico il concetto di éthnos fu sempre più o meno connesso con quello di lingua, allora sarà anche vero che l’unificazione etnica della penisola italica e delle sue isole non poté prescindere dall’obiettivo, conscio o inconscio, di unificazione linguistica. La lingua di Roma, per diventare lingua d’Italia, dovette pagare il prezzo di acuire il divario tra latino scritto e latino parlato e mentre il primo venne sempre più confinato ad ambiti ristretti, la lingua parlata entrò in contatto con realtà diverse e, influenzatane, le influenzò a sua volta.

Secondo la teoria bizantinista, non può dunque esserci alcun dubbio sulla penetrazione del latino fin nelle estreme regioni dell’Italia meridionale. Il grecanico è quanto rimane della lingua greca portata, o meglio riportata, in quei territori, dai Bizantini.

Anche questa tesi, però, presta il fianco ad alcune critiche, quali, per esempio, il partire dal presupposto che la trasformazione del greco antico in neogreco abbia avuto luogo soltanto dal X secolo in poi, mentre i principali fenomeni caratteristici del greco volgare erano già sviluppati nei primi secoli dell’era cristiana e il considerare l’attuale estensione delle isole linguistiche greche come se si trattasse di una unità territoriale fissa nel tempo (20).

Le due teorie non tengono conto di una terza via, che è quella del bilinguismo: la compresenza, cioè, di due sistemi linguistici diversi, che non presentino, però, diverso status socioculturale.

Le ricerche condotte, nella seconda metà del secolo scorso, nel campo del contatto tra le lingue permisero di superare l’antico pregiudizio che ad ogni stato vada assegnata una ed una sola lingua. Questa era, del resto, la convinzione di fondo che animava i promotori delle due ipotesi classiche. La pubblicazione, nel 1953, di Languages in Contact di Uriel Weinreich può considerarsi il punto d’arrivo degli studi precedenti in materia e offre ancora il più valido supporto teorico alle tante riflessioni sul bilinguismo (21).

Fino alla metà del Novecento, c’era una generale tendenza tra i linguisti a considerare il monolinguismo come la regola e il plurilinguismo come qualcosa di eccezionale. Ancora nei primi anni Cinquanta, psicologi ed educatori sostenevano che ci fosse una negativa associazione tra bilinguismo ed intelligenza (22). Weinreich spiega, invece, che la maggior parte degli uomini, durante la vita, acquisisce il controllo di più di un sistema linguistico e impiega, in modo più o meno indipendente e consapevole, ciascun sistema in base alle necessità del momento.

Quella di Weinreich fu una vera e propria rivoluzione.

Weinreich definisce il bilinguismo la pratica dell’uso alternativo di due lingue (23); lo scarto interlinguistico, cioè la distanza tra le varietà a contatto, è considerata oggi ininfluente ai fini dello stabilirsi di una relazione bilingue, mentre in precedenza si assumeva che gli idiomi coinvolti nell’interazione fossero separati da una notevole distanza linguistica.

Non è raro che si faccia confusione tra il concetto di bilinguismo e quello di diglossia.

Come il bilinguismo, anche la diglossia, presuppone, infatti, che ci sia una compresenza, in una comunità, di due sistemi linguistici diversi. La differenza consiste nel fatto che, nel caso della diglossia, nelle condizioni più tipiche, una delle due varietà è usata in situazioni ufficiali e solenni e l’altra in situazioni private e familiari: i due sistemi sono pertinenti a status socioculturali diversi. Buoni esempi di diglossia si hanno, in Italia, nelle aree in cui il repertorio medio dei parlanti, oltre alla lingua nazionale, includa un dialetto.

Amendolea

Si ha, invece, in genere, bilinguismo in comunità linguistiche che vivono in situazioni storico-geografiche particolari (ad esempio per quelle che vivono in zone di confine e hanno relazioni non sporadiche con comunità di lingua diversa). Si definisce spesso questa condizione di equivalenza funzionale dei due codici linguistici tramite il sintagma bilinguismo orizzontale; in questo caso la diglossia è chiamata, invece, bilinguismo verticale.

Non è sempre facile (e in alcuni casi non è possibile) distinguere tra bilinguismo e diglossia, perché molto frequentemente situazioni bilinguistiche manifestano una diglossia implicita; alcuni studiosi parlano, in questo caso, di bilinguismo con diglossia (24).

Nell’Europa attuale, il bilinguismo è frequentissimo: sono bilingui, o plurilingui, il Belgio, nel quale si parla francese e fiammingo; la Svizzera, con le sue varietà di tedesco, francese, italiano e romancio; la Croazia, nella regione dell’Istria; etc. In Italia si parla di bilinguismo in Val d’Aosta, dove si parlano italiano e francese; in Alto Adige, con italiano e tedesco; alcuni comuni del Friuli Venezia Giulia sono bilingui e utilizzano sia l’italiano che lo sloveno; nella provincia di Belluno alcuni comuni sono bilingui tra italiano e ladino, per citare solo qualche esempio.

Tornando al greco di Calabria, è, a questo punto, semplice immaginare che, oggi, gli ultimi ellenofoni si trovino in una condizione di bilinguismo o, meglio, plurilinguismo, tra il grecanico, l’italiano e il dialetto romanzo. In tal senso vanno anche alcune iniziative di salvaguardia di questo codice linguistico quali l’introduzione di una segnaletica bilingue e la promozione dell’insegnamento della lingua di minoranza nelle scuole.

Quello che, invece, si accettava con difficoltà era che probabilmente il bilinguismo in questo territorio ci fu già ab antiquo: è chiaro che i Romani, giungendo in Calabria, vi trovarono delle popolazioni con un loro idioma, che era il greco. Accanto a questo, imposero la loro lingua. Ciò non significa, chiaramente, che chiunque fosse in grado di servirsi allo stesso modo del greco e del latino (come oggi non tutti gli ellenofoni della Bovesìa parlano l’italiano e non tutti gli italofoni parlano il grecanico); è, però, probabile che una determinata percentuale di parlanti si trovasse, per i motivi più diversi, nella condizione di maneggiare più codici linguistici nello stesso tempo.

È una delle nostre più radicate abitudini quella che ci fa considerare la lingua come qualcosa di unico: si ha una sola lingua come si ha una sola patria, una sola anima e così via. Tutta la letteratura romantica e no sul concetto di lingua e nazione non ha fatto che rafforzare questa concezione monolitica dei rapporti tra individuo e lingua. Né si può dire che sia molto diversa la situazione per quanto riguarda i linguisti di professione. Dove, nella teoria linguistica, si parla delle lingue del parlante? Si prende

sempre in considerazione la lingua del parlante […]. Il risultato di questa tendenza costante è stato quello di dare della distribuzione delle lingue sulla terra una rappresentazione ben sistemata: cuius regio, eius lingua (25).

E, invece, il plurilinguismo non è più considerato un fenomeno sporadico e quasi patologico. Esso è frequente in tutte le parti del mondo e non andremo troppo lontani dal vero affermando che esso era diffuso, se non proprio costante, anche nell’antichità.

Anna Maria Orlando

Dottoranda di ricerca dell’Università degli Studi di Messina.

NOTE

1 P. Martino, L’affaire Bovesía: un singolare irredentismo, in Alloglossie e comunità alloglotte nell’Italia contemporanea, Atti del XLI Congresso Internazionale di Studi della Società di Linguistica Italiana (Pescara 27-29 sett. 2007), Bulzoni, Roma 2009, pp.251-275. Al saggio di Martino si rimanda anche per comprendere quali siano i motivi che generano nei linguisti una certa avversione nei confronti di determinati tentativi di rianimare una lingua praticamente morta.

2 Le vicende della storia greca di Calabria sono, per molti aspetti, simili a quelle dell’altra isola ellenofona italiana, la Grecìa salentina.

3 Non furono pochi gli studiosi che abbracciarono la teoria del Rohlfs; basti ricordare, almeno, Pasquali, Migliorini, Ribezzo, Bonfante e, tra i linguisti greci, che in linea di massima sono tutti arcaisti, Karanastasis, Hatzidakis, Karatzàs, Tsopanakis, Kapsomenos.

4 Sulla base di una testimonianza di Strabone. Nel VI libro della sua Geografia si legge, infatti: nunˆ de pl¾n T£rantoj kaˆ `Rhg…ou kaˆ NeapÒlewj ™kbebarbarîsqai sumbšbhken ¤panta kaˆ t¦ men LeukanoÝj kaˆ Brett…ouj katšcein, t¦ de KampanoÚj, kaˆ toÚtouj lÒgw, tÕ d’¢lhqšj `Rwma…ouj (“ora però siamo arrivati al punto che all’infuori di Taranto, Reggio e Napoli tutto s’è imbarbarito e una parte è soggetta ai Lucani e ai Bruzi, un’altra ai Campani. Ma a questi soltanto di nome, in realtà però ai Romani”). Il passo, interpretato alla lettera, potrebbe far intendere che solo le tre città di Taranto, Reggio e Napoli mantenevano la lingua, o comunque la tradizione, greca. Oppure potrebbe indurre a pensare che, se la lingua greca era usata in città di mare, aperte agli scambi e alle interferenze di genti e culture, a maggior ragione i centri montani, impervi ed inaccessibili, dovevano rappresentare sicuri baluardi dell’antico idioma. D’altro canto Strabone parla dell’Italia meridionale in maniera assai sommaria e nella sua esposizione si limita a mettere in rilievo solo i centri più importanti. E’ proprio del carattere della geografia straboniana il mostrare un vero interesse soltanto per i luoghi di importanza storica, lasciando fuori di considerazione, con ostentato disprezzo, le zone rurali e le popolazioni dei monti interni. Perciò le indicazioni di Strabone debbono essere interpretate nel senso che ai suoi tempi anche i circondari di Napoli, Reggio e Taranto dovevano essere ancora greci (G. Rohlfs, Scavi linguistici nella Magna Grecia, nuova edizione interamente rielaborata ed aggiornata, Congedo, Galatina 1974, p.125).

5 G. Rohlfs, Scavi linguistici nella Magna Grecia, nuova edizione interamente rielaborata ed aggiornata, Congedo, Galatina 1974, p.154.

6 Aggiunge Spano che più nessuno penserebbe di riconoscere ancora nei monaci basiliani soltanto i penitenti e gli eremiti di un tempo, che nelle pause dell’ascesi contemplativa si dedicavano agli studi sacri e alla copia dei manoscritti: essi furono anche diligenti colonizzatori (B. Spano, La grecità bizantina e i suoi riflessi geografici nell’Italia meridionale e insulare, Libreria Goliardica, Pisa 1965, p.75).

7 Le riflessioni storiche del Rohlfs e, soprattutto, le prove linguistiche delle idee cheporta avanti, si trovano in molte delle sue opere ma sono, nella sostanza, riassunte tutte in G. Rohlfs, Scavi linguistici nella Magna Grecia, Niemeyer, Halle  (Saale)/Hoepli, Milano 1933.

8 Fanciullo, in particolare, ricorda innanzitutto che nel Suditalia il greco è stato a lungo a contatto con una varietà linguistica (l’italiano meridionale) che è l’unica lingua europea a mostrare in maniera evidente il fenomeno della geminazione consonantica; è improbabile che la geminazione del greco d’Italia sia indipendente dall’analogo fenomeno del dialetto romanzo. Ma, soprattutto, ha dimostrato che la semplificazione delle geminate, avvenuta nel greco comune, non è stata senza conseguenze per il greco d’Italia. Nei documenti bizantini si ritrovano diversi casi di semplificazione delle geminate; addirittura si trovano, negli stessi testi, molti esempi di geminate ipercorrette accanto alle corrispettive regolarmente scempie. Un altro fenomeno, che rappresenta un mezzo per cercare di evitare la degeminazione, riscontrato nei documenti, è la tendenza delle consonanti geminate a dissimilarsi in nessi di consonante semplice preceduta da consonante nasale omorgana: in tal modo le consonanti geminate cambiano status fonologico ma è mantenuta la durata dell’articolazione. (F. Fanciullo, Fra Oriente e Occidente. Per una storia linguistica dell’Italia meridionale, Edizioni ETS, Pisa 1996, pp.33-35).

9 S. G. Kapsomenos, Beiträge zur Historischen Gramatik der Griechischen Dialekte Unteritaliens, in Byzantinische Zeitschrift, 46, 1953.

10 Nella Grecia odierna solo la lingua degli Zaconi è rimasta ancorata ad una forma comune dell’aggettivo per il maschile e il femminile; conosce questo stadio antico anche il greco parlato nel Ponto. In Calabria questa classe di aggettivi è ben conservata, addirittura si è aggiunto a questo gruppo anche qualche aggettivo che in epoca antica era a tre uscite (per es. ·Òdinoj bov. rodinó). Nella Grecia salentina di tale flessione non si trova traccia (G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale della Calabria, nuova edizione interamente rielaborata ed aggiornata, Longo, Ravenna 1977).

11 Questo è vero in determinate condizioni e la situazione odierna si presenta molto meno semplice di quanto si potrebbe credere in un primo momento; cfr., per una sintesi aggiornata sull’argomento, A. De Angelis, “Binding Hierarchy” and peculiarities of the verb “potere” in some Calabrian Southern varieties, in Synchrony and Diachrony: a Dynamic Interface, Benjamins, Amsterdam [in corso di stampa].

12 Col doppio imperfetto si costruisce il periodo ipotetico dell’irrealtà del presente, cosiddetto appunto alla greca (es. nel bovese an do íscera, to élega lett. “se lo sapevo, lo dicevo”).

13 G. Rohlfs, Scavi linguistici nella Magna Grecia, nuova edizione interamente rielaborata ed aggiornata, Congedo, Galatina 1974, p.182.

14 Cfr. G. Morosi, Dialetti romaici del mandamento di Bova in Calabria, in Archivio Glottologico Italiano, 4, 1874, pp.1-116; G. Morosi, L’elemento greco nei dialetti dell’Italia meridionale, in Archivio Glottologico Italiano, 12, 1880, pp.76-96.

15 Cfr. C. Battisti, Nuove osservazioni sulla grecità nella provincia di Reggio Calabria, in L’Italia Dialettale, 6, 1930, pp.57-94.

16 Cfr. O. Parlangèli, Storia linguistica e storia politica nell’Italia meridionale, Le Monnier, Firenze 1960; O. Parlangèli, Ancora sulla grecità dell’Italia meridionale, in Zeitschrift für Romanische Philologie, 76, 1960, pp.118-129.

17 G. Morosi, Dialetti romaici del mandamento di Bova in Calabria, in Archivio Glottologico Italiano, 4, 1874, p.72.

18 G. Morosi, Dialetti romaici del mandamento di Bova in Calabria, in Archivio Glottologico Italiano, 4, 1874.

19 O. Parlangèli, Storia linguistica e storia politica nell’Italia meridionale, Le Monnier, Firenze 1960.

20 G. Rohlfs, La Grecia italica, in Anthropos, XXIII, 1928.

21 U. Weinreich, Lingue in contatto, Nuova edizione a c. di V. Orioles, Utet, Torino 2012.

22 Cfr. J. Edwards, Multilingualism, Routlege, London 1994.

23 U. Weinreich, Lingue in contatto, Nuova edizione a c. di V. Orioles, Utet, Torino 2012, p.3.

24 Cfr. I. Bonomi, A. Masini, S. Morgana, M. Piotti, Elementi di linguistica italiana, nuova edizione, Carocci, Roma 2003.

25 U. Weinreich, Lingue in contatto, Nuova edizione a c. di V. Orioles, Utet, Torino 2012. Introduzione di G.R. Cardona, pp.LXXV-LXXVI.

Fonte:

© 2013 dall’Autore/i; licenziatario Humanities, Messina, Italia.
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