PAROLACCE

 

Non faremo un discorso moralistico, ma solo di buon gusto e di stile. Alle parolacce, pronunciate continuamente, in tutte le occasioni, ci siamo abituati da tempo, e quasi nessuno se ne scandalizza più. Sono diventate una specie di intercalare, un riempitivo messo lì tra una parola e l’altra. E se ne facessimo a meno? Ce ne gioveremmo da tutti i punti di vista.

Le parolacce sono una manifestazione di banalità, di poca fantasia, di incapacità espressiva. Sono sempre le stesse, alludono sempre alle stesse parti del corpo, cercano di sorprendere, di sconcertare, di aggredire l’interlocutore, e invece sono solo un modo per mascherare insicurezze e timidezze, facendo la voce grossa, buttando lì quella parola come una sfida.

Una cosa, in particolare, vorremmo sottolineare. Finché le parolacce le dice un ragazzo, passi: rappresentano un sorta di passaggio fisiologico, in cui la trasgressione, compresa quella verbale, è un fatto quasi obbligato. I guai cominciano quando, passati i trent’anni, le volgarità continuano a imperversare: che c’è da trasgredire, ancora? Certe espressioni, non gradevoli ma tollerabili in bocca a un giovane, in bocca a un adulto e a un’adulta sono grottesche, quasi patetiche.

In altri casi – i peggiori – le volgarità sono una manifestazione di violenza. Ci vengono in mente le risse televisive in cui il prepotente di turno chiude la bocca all’interlocutore urlando e prendendolo a male parole: esempi tanto più negativi poiché la maggior parte delle volte provengono da uomini politici, intellettuali e intrattenitori televisivi che brandiscono le volgarità come se fossero clave. In conclusione: una persona di classe, che vuole essere ricordata per il suo stile, per la sua cortesia, per il suo rispetto verso il prossimo, non dice parolacce.

Da LE PAROLE GIUSTE,  di Della Valle – Patota – Sperling & K

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