
Gli anni ottanta dell’Ottocento segnano la fine, per la gran parte dei gruppi dirigenti italiani, di una grande e perniciosa illusione: quella di fare dell’agricoltura la leva dello sviluppo nazionale. Si apriva infatti allora una fase di grave depressione dei prezzi agricoli, provocata dall’arrivo dei grani russi e americani, che – come già si è accennato
– investì l’intera agricoltura europea. I limiti dello sviluppo agricolo, dopo un ventennio di buona congiuntura, erano sotto gli occhi di tutti, e l’Inchiesta Iacini li mise allora bene in evidenza, provincia per provincia, in quella che fu la prima grande indagine sulle condizioni dell’agricoltura nazionale.

Nell’Italia meridionale la depressione dei prezzi si combinò ad altri fenomeni che colpirono la sua economia agricola: gravi malattie parassitarle danneggiarono l’ulivo, che proprio in quegli anni arrestò la propria diffusione sul territorio: una crescita che durava, senza soste, almeno dalla seconda metà del Settecento. La vite vide improvvisamente chiudersi, in seguito alla guerra commerciale con la Francia, i propri collaudati e ben remunerativi mercati di sbocco e subì gravi contraccolpi. Al tempo stesso gli agrumi persero ampie quote di mercato grazie alla concorrenza estera, soprattutto spagnola.

Tuttavia, gli stessi mezzi che in quella fase avevano reso possibile la crisi – vale a dire le grandi e veloci navi transatlantiche, lo sviluppo in genere della navigazione a vapore e delle ferrovie – inauguravano al tempo stesso una nuova era di mobilità per gli uomini. Sicché, di fronte alle crescenti difficoltà che i contadini e i braccianti incontravano nelle campagne, e mentre al tempo stesso paesi come il Brasile e l’Argentina, scarsamente popolati, richiamavano e favorivano l’ingresso di lavoratori esterni, prese avvio, silenziosamente, l’emigrazione transoceanica. Furono dapprima i contadini del Nord d’Italia ad emigrare, Veneti in primo luogo, e furono la maggioranza sino alla fine del secolo, diretti prevalentemente nelle regioni agricole del Sud America. Essi facevano parte di quella sterminata massa di uomini e donne che dall’Irlanda e dall’Inghilterra, dalla Polonia e dalla Germania, dalle campagne del Vecchio continente muovevano in cerca di fortuna verso le terre del Nuovo mondo. I contadini meridionali cominciarono a emigrare intorno agli anni ottanta dell’Ottocento, verso l’Argentina e il Brasile, in prevalenza, ma ben presto si indirizzarono, in maniera progressivamente esclusiva, verso gli Stati Uniti.

Con l’inizio del nuovo secolo le regioni meridionali divennero le maggiori alimentatrici dell’esodo rurale, che assunse allora proporzioni gigantesche. Gruppi e famiglie, e talora interi quartieri di piccoli e grandi paesi, attraverso le «catene» dei richiami, lasciavano progressivamente le proprie case in Calabria o in Sicilia, e raggiungevano New York o Filadelfia, per trovare lavoro nella costruzione di strade, nelle miniere, nel piccolo commercio al minuto. È stato calcolato che fra il 1876 e il 1914 ben oltre 5 400 000 persone lasciarono il Mezzogiorno, con contributi elevatissimi della Campania (1 475 000), della Sicilia (1 352 000), della Calabria (879 000). Un autentico terremoto demografico investì dunque le campagne meridionali come mai era avvenuto prima e diede origine a fenomeni di trasformazione sociale che mai si erano affacciati su quelle terre.

Quali novità, dunque, produsse l’emigrazione, quali cambiamenti introdusse nelle aree che ne furono così intensamente investite? La più grande trasformazione che essa indirettamente favorì, all’interno delle campagne, fu un fenomeno che in una certa misura segnò la fine di un’epoca: la rottura, se non definitiva, certamente ampia e generale del dominio dei proprietari terrieri. In una realtà in cui la terra era la fonte unica delle risorse, chi la possedeva aveva un potere di comando enorme su chi ne era privo. Ma ora, per i contadini, di fronte ai bassi salari, ai soprusi, al comando assoluto, alla soggezione personale nei confronti degli antichi padroni, la possibilità di andarsene via, di emigrare, costituiva una grande conquista di libertà. Essi potevano fare ciò che per decenni e per secoli gli era stato assolutamente negato: dire no e cercare altro lavoro, altrove. La sempre più estesa rarefazione di manodopera giovane nelle campagne fece subito lievitare i salari: e gli uomini, le donne, gli anziani, i ragazzi che non partivano, poterono finalmente contrattare alla pari la ricompensa per le prestazioni, saggiare finalmente con qualche personale vantaggio la legge «della domanda e dell’offerta». Nel latifondo e in genere nelle grandi aziende a seminativi, fu allora che il macchinario agricolo, destinato a risparmiare forza lavoro, prese a diffondersi in maniera significativa. In assenza dei mariti e dei padri, le donne subentrarono spesso direttamente nella gestione del piccolo fondo, si impegnarono direttamente nei lavori prima di pertinenza maschile, acquistando così – a costo, tuttavia, di maggiori fatiche e responsabilità – un nuovo ruolo all’interno della famiglia e delle comunità rurali.

D’altro canto, l’emigrazione agiva sulle realtà meridionali con tanti altri effetti diretti e indiretti. La necessità di saper leggere e scrivere per chi voleva entrare negli Usa costituì una leva straordinaria per limitare l’antica piaga dell’analfabetismo. Nelle campagne toccate dal fenomeno migratorio, asili, scuole serali, iniziative d’ogni genere sorsero per insegnare a leggere e a scrivere a migliaia di contadini che volevano tentare la carta dell’espatrio. Peraltro, erano gli stessi emigranti che ritornavano periodicamente, e talvolta definitivamente, col loro consistente gruzzolo di risparmi, a introdurre elementi di novità nelle vecchie società rurali, grazie alle diverse abitudini alimentari, al modo di vestire, alla spregiudicatezza e autonomia del comportamento, alla ricchezza di esperienze di vita e di informazioni che facevano circolare nell’ambiente d’origine.

Prima dell’emigrazione – dichiarava ai primi del Novecento il segretario della Lega dei contadini di Paola, in Calabria – i contadini si cibavano di erbe, di cipolle, e di pane di granone: adesso essi vogliono il vino, la minestra calda, il pane di grano, ed ogni tanto la carne. Coloro che emigrano per l’America ritornano molto migliori, non si riconoscono più; vanno via dei bruti e tornano uomini civili, anche nella salute.
Ma di sicuro uno degli elementi più straordinari di novità che l’emigrazione introdusse in tante e tante realtà sociali del Mezzogiorno fu l’afflusso e la circolazione senza precedenti di danaro. Le rimesse degli emigrati, spedite in semplici lettere, con vaglia postali, attraverso gli uffici del Banco di Napoli, divennero ben presto un fiume di moneta sonante che entrò nelle case della gente più misera, cambiò la condizione di tante famiglie, mitigò e fece talora sparire l’usura, creò un potere d’acquisto prima sconosciuto in paesi, villaggi, città. Grazie ai risparmi conseguiti, le famiglie contadine guadagnavano più facilmente credito dalle banche, sicché un nuovo e più largo circuito venne finalmente a crearsi tra istituti di credito e piccole economie locali. Per avere un’idea di che cosa l’emigrazione significò in termini di formazione del risparmio per i singoli individui e i nuclei familiari, si può ricordare, ad esempio, che la media di risparmio per abitante – sulla base dei depositi presso le Casse di risparmio ordinarie e postali – era in una regione come la Calabria, nel 1872, di sole 0,16 lire, mentre nel 1913, attraverso una costante ascesa, aveva raggiunto le 89,49 lire. Si calcola che fra il 1902 e il 1925, considerando le rimesse di tutta l’emigrazione italiana, siano entrate in Italia almeno un miliardo di lire l’anno al valore prebellico, vale a dire riferito a una fase storica, unica e irripetuta, nella quale la lira italiana aveva un valore superiore a quello dell’oro. E il Mezzogiorno – dove il salario di un bracciante non superava, prima della guerra, le tre-quattro lire al giorno – probabilmente vi contribuì con oltre la metà di quella cifra, considerando che fra il 1901 e il 1913 l’emigrazione meridionale fu numericamente più del doppio di quella settentrionale. Penetrando nelle realtà rurali, questa inconsueta e larga corrente di moneta servì soprattutto a rafforzare e ad allargare le economie contadine: una grande leva, in mano ai ceti popolari agricoli, per accedere al possesso della terra e della casa.

Ma tutte queste novità non ebbero contropartite? Certamente sì, anche se gli effetti di mutamento, di liberazione umana, di miglioramento sociale furono di sicuro prevalenti. Noi non consideriamo qui naturalmente le lacrime e il sangue, l’immensa e sconosciuta sofferenza umana che l’emigrazione provocò nell’animo di milioni di uomini e donne, nel seno di famiglie lacerate, sradicate dai propri paesi e dalle proprie culture. Restiamo alle cose in qualche modo misurabili. E non c’è dubbio, a questo proposito, che l’emigrazione significò anche per il Mezzogiorno l’emorragia delle energie di lavoro più giovani, delle figure più intraprendenti, spesso dei talenti manuali e di mestiere più abili e più ingegnosi. Non bisogna dimenticare che insieme ai contadini partivano assai spesso anche gli artigiani. In moltissime zone della Puglia, ad esempio, la percentuale degli artigiani sul totale degli emigranti si aggirò intorno al 20-30%; in alcuni centri, come a Lucera, raggiunse il 50%. Si trattava di figure legate ai vecchi mestieri indipendenti (sarti, calzolai, fabbri), ma spesso anche lavoratori domestici, filatori, cardatori, tessitori che svuotavano le fila di un piccolo esercito protoindustriale che non aveva trovato sviluppo. «Nessuno fila in Merica» ripetevano gli emigrati calabresi che ritornavano nei paesi d’origine e abbandonavano per sempre i vecchi telai a mano, mentre le donne, coi soldi delle rimesse, compravano ormai nelle botteghe di paese, o in città, le calze e le coperte prodotte altrove e che un tempo uscivano dalle loro mani.
Da BREVE STORIA DELL’ITALIA MERIDIONALE, di Piero Bevilacqua – Donzelli