
La morte non è avvertita come evento che si realizza in un unico momento, ma come decorso, processualità, passaggio. Avvenuto il decesso, si ha cura di chiudere gli occhi del cadavere; alla pietà del gesto è sottesa la funzione latente di difendersi dalla sua pericolosità oggettiva: gli occhi aperti potrebbero contagiare e attrarre alla morte i superstiti, come viene affermato esplicitamente da una credenza di Casaletto, riportata da Padula, secondo la quale «se il morto resta con gli occhi aperti ne aspetta un altro».
La casa subisce, specie se si tratta della morte del capofamiglia, una profonda trasformazione, una sospensione rituale dell’organizzazione domestica, che, da un lato, tende alla liberazione dell’anima, e quindi al suo allontanamento dalla casa, e, dall’altro, alla reimpostazione di un nuovo ordine familiare. I mobili vengono spostati e addossati alle pareti, le finestre e la porta vengono socchiuse, il fuoco non viene acceso, gli specchi vengono ricoperti con drappi neri e, in alcuni paesi, bianchi. Tutta la casa viene attrezzata in funzione del morto: si rende in qualche modo a lui simile e si pone come ambivalente affermazione della signoria del morto.
L’uso di addossare i mobili alle pareti, se riveste la funzione tecnica di allestire la camera ardente, significa pur sempre la necessità di disperdere un vecchio ordine in segno di riconoscimento della signoria del morto — che altrimenti non si placherebbe — sulla casa, ma contemporaneamente di affermare la fine storica di questa signoria.
L’accostamento dei mobili alle pareti èil non-ordine provvisorio, lo stato di transizione organizzativa che fa parte e si inserisce nel lavorio del cordoglio. E vuoi dire anche rompere i legami del morto con la casa, organizzare uno stadio intermedio che non gli consenta di riconoscere e di riconoscersi nell’ordine domestico, altrimenti resterebbe impigliato negli oggetti, che, divenendo rischiosi, non sarebbero più serenamente utilizzabili.
I mobili e il loro ordine vengono sottoposti a una attenuazione rituale — e perciò controllata — di identità, a una destrutturazione simbolica per poter divenire oggetti vecchi e nuovi che permettano la continuità e segnino un nuovo regime di proprietà e di vita familiare.
Coprire gli specchi con drappi neri si riferisce specificamente alla funzione riflessiva dello specchio, che ingloba e restituisce immagini; c’è tutta una strategia popolare dello sguardo e dell’immagine e l’uso di coprire gli specchi tradisce la sua funzione difensiva: evitare che lo specchio possa restituire non solo l’immagine del morto, ma anche quella della situazione di transizione luttuosa.
Almeno una finestra e le porte — per la loro funzione di soglia, di punto nevralgico nella dialettica dentro-fuori — debbono essere socchiuse: ciò, da un lato, per mantenere uno stato di penombra interno, che rientra nell’esigenza della similitudine con la morte e nella necessità culturale di nascondere la casa al morto; dall’altro, per consentire un rapporto con l’esterno e quindi permettere all’anima, in concorso con gli altri accorgimenti rituali, di uscire senza intralci dalla casa. Il fuoco verrà spento e non si provvederà alla cottura dei cibi: segno della morte rituale della casa, della sospensione della vita familiare. Si instaura il regime alimentare rituale del ricunsulu, in cui il cibo viene portato da fuori e consumato alla presenza rassicurante dei parenti e degli amici. È ritmato simbolicamente l’itinerario della crisi della presenza e del lavorio culturale di superamento: al fuoco spento subentra un regime alimentare protetto che dischiude la possibilità di una ripresa di iniziativa alimentare. Il fuoco è negato nella sua funzione di elemento realistico, ma viene recuperato come complemento rituale della veglia funebre.
Alla sospensione dei ritmi quotidiani della vita domestica fa riscontro, come già accennato, una riorganizzazione della casa in funzione del morto che converge nel rito della veglia funebre. Il morto dovrà essere vestito e adagiato sul letto con i piedi rivolti verso la porta, o nella stessa camera in cui è avvenuto il decesso o in un’altra stanza più grande. Le campane non possono annunciare la morte prima che sia completata la vestizione, altrimenti, come in una credenza registrata a Mileto, il morto si presenterebbe nudo a Dio. L’allestimento della camera ardente viene completato — oltre che dalle operazioni «negative» di cui abbiamo parlato precedentemente – dall’accensione di quattro ceri disposti agli angoli del catafalco; ricompare cosi il fuoco, ma in funzione del morto e nell’ambito della percezione folklorica della simbologia cattolica. La cera è simbolo di morte e di consunzione (l’uso della cera nella confezione di ex voto rinvia a questa valenza simbolica) e il fuoco che consuma e vive della cera purifica dal cadaverico e, proiettandosi verso l’alto, acquista ulteriore valore simbolico, costituendo la luce una sorta di rappresentazione del morto. Nella bara — in moltissimi paesi meridionali – vengono deposti gli oggetti personali del defunto: e questo rientra anche in quella prospettiva difensiva che abbiamo sottolineato parlando della sospensione dell’organizzazione dello spazio domestico.
Il rapporto con gli oggetti è talmente intrinseco nelle società precapitalistiche che essi finiscono con l’identificarsi con la persona che li usa e li custodisce. Così possiamo parlare, sia pure in un’accezione relativa, di morte degli oggetti di uso personale: il legame con essi vige — per le ragioni espresse — anche dopo la morte: se non fossero deposti nella bara il morto ritornerebbe spinto dal ricordo e dall’incompletezza della propria personalità. In questa linea difensiva si pone, con forza aggiuntiva e sussidiaria, l’uso, praticato in alcuni cimiteri calabresi, di deporre altri oggetti sulla tomba.
L’annuncio della morte viene dato attraverso il suono delle campane. Secondo Fuchs, «le forme più antiche di annuncio della morte, tra le quali vorremmo porre ancora il suono delle campane a morto, ci consentono di identificare tale notifica come una misura di precauzione e di difesa. È necessario difendersi dal potere di nuocere che ha il morto, avvertendo tutti coloro che potrebbero esserne colpiti o subirne l’attrazione».
II rintocco delle campane è sottoposto a una dettagliata regolamentazione. «Nelle società rurali tradizionali, così come le inchieste dialettologiche o etnologiche permettono ancora di descrivere, il suono a morto della campana è un codice molto preciso, un insieme di segni nettamente determinato che ha una funzione sociale evidente, quella di annunciare a tutta una comunità la morte di uno dei suoi membri, e può avere così delle funzioni secondarie: fornire a esempio dei particolari sul defunto o sulle tappe del processo che va dall’agonia alla sepoltura. In una parola il mortorio è un linguaggio, un sistema di comunicazione, che richiede un’analisi semiologica. Come ogni linguaggio il mortorio è insieme una “langue”, vale a dire un insieme di regole con valore distintivo, dei “protocolli d’uso”, come dice R. Barthes, ammessi da tutti i membri della comunità, e un “discorso”, vale a dire un fascio di variazioni possibili intorno a quelle regole avente un valore non più distintivo, ma (eventualmente) differenziativo, non più funzionale, ma, semmai, simbolico-espressivo».
Per la Calabria, Marzano aveva notato sia una funzione suffragatoria del mortorio che una funzione comunicativa.
«Credesi comunemente di mandare un suffragio all’anima del trapassato con il suono delle campane, ed il sagrestano, secondo la condizione della famiglia, fa del suo meglio per suonare il mortorio in tuon piagnucoloso ed a lungo. Dal suono delle campane si apprende se il morto sia maschio, femmina, prete, bambino, agiato o povero: in fatti le famiglie agiate fanno suonare il mortorio al duomo con tre campane, le meno agiate con due, le povere con una: per i bambini fino ai sett’anni, si fa uno scampanìo lieto, quasi a stormo, per gli uomini si fa precedere il mortorio da tre rintocchi, per le donne da due, per i preti da dodici, ed infine, quando si ha notizia della morte del Pontefice o del Re, è preceduto da cento rintocchi. Come si vede in Laureana di Borrello il mortorio è una necrologia sommaria».
De Gubernatis scrive che «la campana, secondo i rintocchi che dà avverte essa stessa se il trapassato sia uomo o donna, giovine o vecchio. Non occorre notare che la Chiesa, a cui si attribuisce il merito d’aver uguagliato la dignità della donna a quella dell’uomo, fa battere più colpi per la morte d’un uomo che per quella d’una donna”.[…]
Da “IL PONTE DI SAN GIACOMO”, di L.M. Lombardi Satriani e M. Meligrana – Sellerio
FOTO: Funerale della mamma di don Cosma Salerno, Angela Bencardino