
L’ulivo che si chiama Calabria
somiglia nel tronco contorto
spaccato dal vento dei secoli
una capra in doglia di parto
che chieda invano da bere.
Il primo a vederla e a sentirla
alta su un greppo fiorito
come un sofferto e allarmato
idolo fu Ulisse. Nella
bruciante sete della bestia
il navigatore erramondo
trovò di che confermarsi
alla pazienza, alla legge
di una conoscenza che ha
alla sua base il dolore.
Una capra in doglia di parto
che chieda invano da bere…
In perenne assalto all’Aspromonte
di Garibaldi e alla Sila
di Gioacchino, voi ulivi
chiamati saraceni perché furono
gli arabi a vedervi
calare nella zolla,
voi ulivi cari ulivi
della mia terra, colonèi
per la riverenza che impone
la vostra vecchiezza immortale,
non siete no creature
vegetali di solenne espansione
ma giganti di pietra grigia
dalle enormi braccia aperte
tra ciclo e mare
tra timpe e calanche
a mostrare scintille di gioielli
neri tra le foglie che hanno
l’azzurro splendente del ciclo
e l’intenso smeraldo del mare.
Una capra in doglia di parto
che chieda invano da bere…
Vanto del popolo bruzio
che vi zappò potò chiese l’olio
per riempir la lucerna
o insaporire la frisa di granturco,
voi ulivi cari ulivi
della mia terra, alti e silenziosi
spettatori delle varie tirannie
cadute su noi come su mandre
di pecore cecàte, anche voi ulivi
soffriste di non rompere la grigia
pietra che vi teneva incatenati
per fare ciò che Spartaco e i suoi schiavi
incisero nel bronzo della Guerra
Servile. I secoli passarono
e Spartaco riemerge dalla tomba
alle fresche sorgenti del Silàro
prende nome Berardi Re dei Monti
si chiama Benedetto Musolino
si chiama Garibaldi, e in queste ore
di riscossa di nostra gente
voi giganti grigi
maggiormente provaste la doglianza
di non potervi mettere alla testa
degli insorti contro il principato.
Testimoni muti
forzatamente impassibili
nella vostra bruna corteccia
passò la Storia lasciando
rughe rughe e rughe
a segnare il trascorrere del tempo.
Una capra in doglia di parto
che chieda invano da bere…
Da voi immensi ulivi colonèi
nelle cui chiome la luce del giorno
entra chiedendo il passo, sopportando
di doversi smorzare a quell’ombria;
dai vostri corpi, ulivi colonèi,
serpenti innamorati attorti a spire
in un supremo abbraccio in cui l’amaro
della foglia, l’aprirsi della gemma,
il velo della pioggia, la carezza
del sole, lo staffile del vento,
il mostruoso espandersi dei cancri
di senescenza alla corteccia scura
danno vita a una nuova compresenza;
da voi antichi ulivi d’Aspromonte,
dai vostri altorilievi di titani
dalle vostre foreste senza tempo
a me venne l’orgoglio d’esser nato
da una zolla che egualmente grandi
il valore ed il male.
Una capra in doglia di parto
che chieda invano da bere…
Debbono a voi, ulivi colonèi,
Telesio Campanella e Gioacchino
se il messaggio affidato all’avvenire
ebbe coscienza di sapersi nato
e strutturato come cattedrale
in terra di giganti,
debbono a voi il bisogno
di scavalcare il tempo con la loro
verità o profezia,
seppero di misurar con metro eterno
il genio la fatica la pazienza
la speranza l’estasi la fede
la vittoria la pena la sconfitta
sulla vostra dolente maestà.
Una capra in doglia di parto
che chieda invano da bere…
…
(Continua)
Di Leonida Répaci
FOTO: Rete