
Ji era vecchiu, ma era arditu arditu,
giallu di facci, nigru, ‘mpremunatu,
e siccu chi paria, pardeu, nu spitu.
…
Era gustusu, poi, lu vecchiarrinu
cu tuttu ch’era menzu scartellatu
mentìa difetti puru a lu mbombinu!
…
Quandu ncuntrava ncuna giuvanotta,
nci nd’icìa tanti chi facìa u s’arrassa:
pe fforza avìa mu jetta na strambotta
…
o ch’era beja, o brutta, o ch’era grassa;
ch’era accussì, accullì, ch’era ferrigna,
e nciu diciìa pulitu, nta la mpigna! ‘
(Egli era vecchio, ma era ardito ardito, / giallo di faccia, nero, irato, / e secco che sembrava, perdio, uno spiedo. / Era gustoso, poi, il vecchietto / con tutto ch’era mezzo curvo / metteva difetti anche al Santo Bambino! / Quando incontrava qualche signorina, / le diceva tante cose per cui lei s’allontanava: / per forza doveva gettare un motto, / o ch’era bella, o brutta, o ch’era grassa; / ch’era così così, ch’era gagliarda, / e glielo diceva chiaramente, con faccia tosta)
Questi versi sono il ritratto di Vincenzo Ammirà, nato in Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia) il 2 dicembre 1821. Suo padre Domenico, di famiglia borghese, era farmacista, la madre, Maria Lo Judice, apparteneva a famiglia operaia. Frequentò la scuola di Raffaele Buccarelli, dalla quale uscì rivoluzionario e buon latinista. Non sappiamo se conseguì diplomi; ad ogni modo, intraprese presto la carriera dell’insegnamento privato.

Nel 1847-1848 fu tra i rivoluzionari; ed è notevole, per la risonanza dell’atteggiamento di Pio IX, questo sonetto dell’Ammirà, che porta la data del 20 dicembre 1847, perché denota come anche il poeta di Monteleone, che potrebbe sembrare poco disposto verso la religione, fosse, al pari degli altri rivoluzionari reggini del 2 settembre 1847, entusiasta del Pontefice della libertà, e vagheggiasse una patria santificata dal Dio della Chiesa Romana:
Salve, messo del cielo, eternamente
Adorarti saprà l’età ventura,
Come adorata sei dalla presente,
Benefica, sublime creatura.
…
Angelo santo, che dell’uom la mente
Informi a romper la pesante e dura
Servil catena dell’Etruria gente,
Se la polve di Eroi cangiò natura.
…
O diletto, divin figlio di Piero,
La magica scintilla ha ridestato
Che tutti guida a libero sentiero.
…
Siegui, ti veglia Iddio; dall’Alpi irato,
Se man tiranna vuoi d’Italia impero,
Iddio discende alla difesa armato.
Ma triste epilogo ebbe il moto, che trovò in Domenico Romea “l’anima inquieta del martire”; e, di lì a poco, con gli stessi sentimenti del classico e manzoniano cittadino C. M. Presterà, l’Ammirà celebrando i martiri di Gerace, fremerà di dolore, di sdegno e di minacciosa speranza:
Sconterà cotanto scempio
II destino dei tiranni;
O fratelli, il grand’esempio
L’avvenire imiterà;
Cangerassi in rogo il trono,
Strage, morte e non perdono
Ai tiranni arrecherà.
[…I
Il martirio generoso
Che soffriste o prodi, o forti,
Pari all’uomo portentoso
Nuova vita vi darà;
Poserete tra gli eletti
Dal Signore benedetti
Benedetti in ogni età.
E l’anno seguente, celebrando il patriota Padre Felice Ant. Del Pezzo, morto “tra i rigori monastici del Convento di Stilo” dopo i fatti del 1848, dirà pomposamente:
Dell’inumano strazio
Fiaccollo il pondo, e della patria l’arte;
Sprezzator dei tiranni
All’immenso gran giorno aperse i vanni.
Anche a Monteleone s’era manifestato un tentativo rivoluzionario.
I liberali, che facevano capo a Raffaele Buccarelli, disarmata la gendarmeria, avevano allestito un fugace Comitato rivoluzionario che non portò alcun contributo alla lotta, come non ne aveva portato l’anno precedente.
Da POETI CALABRESI TRA OTTO E NOVECENTO, di C. Chiodo – Bulzoni
Foto: RETE