Il brigantaggio calabrese

II brigantaggio in Calabria ebbe caratteristiche diverse rispetto a quello delle altre regioni.

C. Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, ha così definito le lotte dei briganti:

“guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senza ordine militare, senza arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, incomprensibili agli storici…”, ed ancora “la quarta guerra nazionale dei contadini”. (8)

È ormai quasi accertato che nel fenomeno del brigantaggio in Calabria sia mancato qualsiasi movente politico.

Infatti, a differenza di quanto avvenne negli Abruzzi ed in Basilicata, le popolazioni calabresi rimasero completamente estranee alla restaurazione politica dei Borboni. Questi ultimi poterono contare sull’appoggio di buona parte del clero calabrese, ma non su altre componenti sociali.

Infatti, i galantuomini “in un attimo diventarono tutti liberali e sabaudisti: al giglio borbonico si era sostituita la croce di Savoia”. (9)

II Massari sostiene che i fuorilegge calabresi fossero particolarmente refrattari a qualsiasi stimolo politico. Inutilmente i Borboni avrebbero voluto servirsi delle bande come arma reazionaria, perché ogni loro sforzo fu inutile.

Quando si volle celebrare il connubio borbonismo-brigantaggio calabrese si commise un grave errore. Se il brigante accettava con maggiore predisposizione la bandiera borbonica, la sua scelta era determinata soltanto da opportunismo in vista di una più agevole impunità e protezione.

La questione del brigantaggio in Calabria, quindi, è più sociale che politica. “Il brigantaggio è una risorsa per un gran numero di abitanti delle Calabrie, è un mestiere da cui traggono molte famiglie il sostentamento; è infine diventato per molti una necessità di esistenza”. (10)

Per poter comprendere meglio questa definizione di un anonimo, forse un po’ esagerata, ma con un grande fondo di verità, basti pensare che in quel tempo la Calabria era considerata una regione da evitare perché offriva ai viaggiatori solo difficoltà e pericoli; “… e se qualche Calabrese affidavasi di affrontarli, si disponeva a far testamento tanto n’era incerto il rimpatriare”. (11)

I Briganti, sempre in Calabria, avevano come principale obiettivo delle loro azioni il ceto medio che poteva offrire loro denaro e non aveva a difesa schiere di guardiani, come i grandi proprietari che, invece, spesso erano manutengoli, per avere la protezione di briganti locali contro bande di paesi vicini. Manutengoli erano anche preti, monaci, parenti dei briganti, alcuni contadini e salariati che, per vendetta o per timore, sostenevano in vari modi le bande. Per essi era prevista la fucilazione, senza processo; invece il brigante prima restava in prigione per istigare i complici a consegnarsi e poi veniva giustiziato.

La classe contadina, in linea di massima, sempre dopo l’unità d’Italia, viveva in continuo stato d’allarme, temendo che i briganti potessero danneggiare i raccolti; quindi, il disappunto era dovuto non ad una esigenza di normalità legale, ma alla preoccupazione di salvaguardare il frutto di tanto lavoro.

Per estinguere il bubbone del brigantaggio, vi erano due modi: la prevenzione e la repressione. Certo sarebbe stata più proficua la prima, eliminando alle radici il malessere sociale, causa prima del brigantaggio. In quale modo? “Rialzando i sentimenti della individuale responsabilità e della dignità umana, aumentando il sentimento di giustizia ed il rispetto della proprietà, accrescendo l’amore al lavoro … quindi, scuole infantili, scuole serali per gli operai, una istruzione secondaria e tecnica, e soprattutto, si vegga modo di far conoscere alla gioventù i principali doveri e diritti dell’uomo”. (12)

Per quanto riguarda la repressione, Nino Bixio, alla Camera dei Deputati, il 18 aprile 1863 affermava: “Si è iniziato nel Mezzogiorno d’Italia un sistema di sangue… il governo … ha sempre lasciato esercitare questo sistema. Hanno avuto torto tutti”.

La repressione nel cosentino è legata all’azione del colonnello della guardia nazionale Pietro Fumel. (13) Costui instaurò un regime di terrore e di torture, facendo fucilare briganti, manutengoli veri o sospetti, prescindendo da ogni garanzia legale.

Inoltre, il capo della forza pubblica non si limitò a perseguitare i briganti ed a consegnarli al magistrato, ma fece emettere un bando in cui si stabiliva che ai ricercati, che non si fossero consegnati entro 24 ore, sarebbero state abbattute le case, arrestati i parenti, sequestrate le proprietà e, in caso di arresto, fucilazione immediata.

“… Taluni dei fucilati erano in tale stato di miseria che, mentre andavano al supplizio, uno si tolse le scarpe e disse ad un amico: Porta queste scarpe al mio povero padre; un altro si spogliò del giaccone perché lo si desse ad un suo figliuolo”. (Da un discorso alla Camera del 31 luglio 1863 tenuto da Luigi Miceli). (14)

Fu questo, per concludere, l’atteggiamento assunto dal potere statale nei confronti del brigantaggio.

Ma, ricorrendo alla semplice e provvisoria repressione in una società povera e “disarmata”, come quella calabrese, quei mali, che facevano parte della storia di ieri, fatalmente si sono riproposti, in tempi successivi, in tutta la loro drammaticità, anche se con nuova terminologia.

Di Mario De Bonis – Periferia, n.44

FOTO: Rete

NOTE

8. In A. De Jaco, Il brigantaggio meridionale, Roma, Editori Riuniti, 1959, p. 34.

9. A. De Leo, Briganti, sbirri, cafoni ecc., Pellegrini Editore, Cosenza, 1981 p. 63.

10. In I. Principe, Contributi per la storia del brigantaggio calabrese Frama Sud,

Chiaravalle Centrale (CZ), 1977, p. 59.

11. A. Grimaldi, La cassa sacra, Napoli, 1863, n. 1, p. 29.

12. V. Daviso, Alcuni pensieri intorno all’ indole del brigantaggio nelle Calabrie,

Vigevano, Tipografia Nazionale M. D. Morone, p. 8, 1866.

13. P. Fumel, piemontese, sgominò diverse bande di briganti, tra cui quelle di

Schipani, Ferrigno, Morrone, Franzese, De Rosa, ecc..

14. Luigi Miceli, magistrato, patriota. (Longobardi, 1824, Roma 1906).

15. F. Molfese, Ibidem, pp. 380-382.

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