CALABRIA – L’eredità dei monaci calabro greci

Codex Purpureus Rossanensis

Santi e speleoti, monaci e conventi, negli intervalli delle lotte fra truppe imperiali e scorridori arabi, non fecero che ispirare la vita collettiva della regione, sia nella sua parte meridionale intorno a Reggio e a tutta la corona preaspromontana, sia a nord, tra il Pollino e il Monte Mula, là dove si ebbe il comprensorio monastico-economico del Mercoùrion, e al cui centro ancor oggi è posta Lungro, futura eparchia degli albanesi di rito greco: e il nome della cittadina, derivato da L’Ungaro, ci rammenta quanti e quali scambi ci dovettero essere, in quell’età medioevale, tra calabresi ed etnie mediorientali.

ROMITORIO DELLA MADONNA DELLA SCALA (Ruderi di cappella e romitorio rupestre – IX-X secolo) – BELVEDERE SPINELLO

Questa Calabria aveva le sue ricche produzioni e godeva di certi agi: il che spiega le incontenibili, continue aggressioni dei saraceni, che dalle loro scorrerie si riservavano di ricavare un cospicuo profitto; come anche spiega le tempestive attenzioni del Guiscardo — il protagonista dell’occupazione normanna, ormai alle porte —: il quale, sulle prime, operò più come razziatore e taglieggiatore che come vero e proprio generale mosso alla conquista.

ARDORE – SANTUARIO DELLA MADONNA DELLA GROTTA (Ruderi di santuario rupestre – XI-XII secolo)

La tradizione culturale e artistica della Calabria bizantina (un’esperienza vitale durata dalla fine del dominio goto all’avvento dei normanni, e cioè per cinque secoli) si riassume in alcune figure rimaste negli annali della storia religiosa di quei tempi, come il gusto del tempo traluce negli episodi architettonici che ancor oggi si offrono allo sguardo ammirato del visitatore. Né dalle prime né dai secondi promana alcuna pretesa di grandezza: monaci e igumeni, chiesette e romitori sembrano voler parlare intimamente con Dio, e perciò la loro atmosfera appare fuori di questo mondo, richiama fuori di questo mondo non con la grandiosità e lo sfarzo, ma, all’opposto, con un’umiltà che non è facile rinvenire nelle cose del mondo. Sotto questo aspetto, la Calabria bizantina – con le sue laure eremitiche disseminate fra monti e valli dell’interno, con le sue cappelle rupestri, con le sue chiese minute, prive d’ambizioni e di solennità, ma solo austere e perfettamente in linea con gli archetipi siro-palestinesi, armeni e copti – rassomiglia a una Tebaide di anacoreti ed eremiti, di monaci dediti al quotidiano lavoro sulla terra e nei boschi o rapiti in solitarie visioni paradisiache.

CURINGA – EREMO DI SANT’ELIA IL VECCHIO (Chiesa-romitorio – XI secolo)

Quelle chiese, che all’esterno non mostrano che rotondità semplicissime di cupolette e di absidi, paiono intrise di terra e di muschio. I rari affreschi e mosaici, di Bivongi (l’antica Bingi e Bubungi), di Stilo, di Brancaleone superiore, di Rossano ecc. esibiscono la disarmante semplicità di chi non parla agli uomini ma a Dio; gli stessi doratissimi impianti che oggi caratterizzano gl’interni delle chiese rimaste nel rito orientale (si tratta delle comunità albanesi, che in Calabria sono abbondanti), con le figurazioni delle iconòstasi, con i paramenti sacri carichi di ornamenti e simboli, ci riportano improvvisamente ad angoli di mondo da cui noi sentiamo di provenire, e che ormai ci commuovono soltanto allorché li vediamo normalmente in uso nelle chiese della Russia, dell’Ucraina o della Palestina. Gli stessi nomi e cognomi di Calabria, per non dire dei toponimi connotati da sequenze bisillabiche concluse con una sillaba accentata, ci parlano di una civiltà diversa, a lungo vissuta nell’orbita dell’Oriente greco.

BRANCALEONE – GROTTA DELLA MADONNA DEL RIPOSO (Oratorio rupestre – VIII-IX secolo)

E le stesse suppellettili domestiche, così prive di solennità, come vasellame e lucerne, e poi ornamenti personali quali gli enkòlpia (croci pettorali o simili) o gli anelli o le fibule, e poi sigilli, scrigni, cofanetti, bolle plumbee, e tutto un complesso di prodotti artigiani, parlano sempre di Dio, e ci mostrano Cristo in croce oppure vivo e vincente (Pantokràtor) o con gli occhi sgranati su di noi; e nelle raffigurazioni di maggiore consistenza ci si incontra con stili e figure lontanissimi da quelli a cui l’arte degli ultimi dieci secoli ci ha abituati, perché la tipologia e la simbologia dell’iconografia calabro-bizantina sono assai diverse, quasi più familiari e intime: e la Madonna è spesso Odighìtria, che mostra il cammino, o anche Achiropìta, dalla raffigurazione non effigiata da mano umana; e talora non solo i toponimi, ma perfino i nomi delle persone, delle donne soprattutto, rinnovano, con amabile simbologia, i nomi di santi orientali: Calogero, Agàpito, Ilarione, Panaghìa (la Madonna tutta santa), Basilio, Demetrio, Filareto, Agazio, e così via; per non dire di quel persistente nome di battesimo che si continua a dare alle neonate usando l’antico appellativo della Madonna, Chiropìta, sotto al quale nessuno, ormai, riesce a immaginare l’antichissima dolce figura celeste, opera di qualche potenza angelica.

EREMO DI SANTA MARIA DELLA STELLA (Santuario rupestre – VIII-IX secolo) – POZZANO

Tale risultò, da allora, la fortissima penetrazione della dimensione religiosa nella quotidianità di Calabria, che finanche un nome comune come appellativo della campagna, gheorghìa (agricoltura, coltivazione), è diventato, col tempo, il nome di un’ipotetica santa, e infine toponimo fisso, Santa Giorgìa, e addirittura Santa Giorgia nella pronunzia dei forestieri.

Codex_Purpureus_Rossanensis

Così dicasi della tradizione culturale, affidata, da una parte, ai fasti dell’evangeliario rossanese, il famosissimo Codex purpureus, in pergamena purpurea sottilissima (quasi un velino) miniata con caratteri d’argento intorno al secolo VII in qualche scriptorium di Cesarea, forse dono di profughi metchiti; e, dall’altra, a figure umane d’altissima esemplarità proprio in virtù della loro umilissima mitezza.

ORSOMARSO – Eremo di San Nilo

Si pensi a san Nilo di Rossano (910-1005), di nobile famiglia, ritiratosi dal secolo e dedicatosi alla fondazione di monasteri, come quello di Sant’Adriano in Calabria, e di altri fuori della sua regione, fino a quello – gloriosissimo, divenuto invidiato centro di restauro librario – di Grottaferrata alle porte di Roma. Anche autore di versi religiosi e di canti liturgici, e trascrittore, insieme con i suoi confratelli, di antichi codici, oltre che creatore di un metodo tachigrafico particolare, Nilo conosceva già Roma, per esservisi recato al fine di intercedere per il povero Giovanni Filàgato, un greco-calabrese suo conterraneo, già abate di Nonantola e vescovo di Piacenza, che nel 997, nel corso dell’insurrezione romana dei Crescenzi contro l’imperatore, era stato proclamato papa col nome di Giovanni XVI in contrapposizione a Gregorio V cugino di Ottone III; tornato Ottone a Roma, Filàgato era fuggito, ma era stato catturato e sottoposto a mutilazioni (sarebbe sopravvissuto, e confinato a Fulda per morirvi verso il 1013); forse anche per l’orrore davanti a tanta crudeltà, Nilo rifiutò la dignità episcopale e il trasferimento a Roma offertigli da Ottone III, per ritornarsene nella sua Calabria.

GROTTA DI SANT’ELIA LO SPELEOTA (Cappella-romitorio rupestre – X secolo) – MELICUCCA’

E si pensi poi al già citato monaco solitario, allo spelaiòtes Elia di Reggio, che andò vagando per conventi e spechi della Calabria e del Peloponneso, per ritirarsi alla fine a Melicuccà, sui contrafforti dell’Aspromonte: qui, dopo essersi raccolto in solitudine in una grotta, divenne oggetto di venerazione, tanto da dover fondare un santuario a vantaggio dei pellegrini, curiosi e adoratori di tanta santità di vita.

Quattro secoli e mezzo dopo, quel medesimo contesto, tutto intriso di misticismo e di caverne sante, sarebbe passato – per acquisto – ai Cavalieri di Malta, che ne avrebbero fatto l’epicentro di un loro feudo, dall’altisonante nome di commenda di Melicuccà del Priorato, con largo seguito e presenza di dignità ufficiali e di eleganti livree. Così va il mondo.

Da STORIA DELLA CALABRIA, Di A. Placanica – Donzelli

Foto: RETE

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