REGNO DI NAPOLI E JETTATURA

Ferdinando II con la sua famiglia

Resta ora da chiarire perché proprio a Napoli si venne elaborando verso la fine del 700 quel particolare costume di compromesso che combinando l’antica fascinazione magica col razionalismo illuministico dette vita alla ideologia della iettatura e al conforme tono psicologico che l’accompagna; e perché proprio a Napoli, fra le bassure di sopravvivenze popolari particolarmente tenaci e i vertici di una vita culturale orientata in senso moderno ed europeo, si venne inserendo con grande fortuna questa formazione intermedia di raccordo, calcolatamente equilibrata fra passato e presente, fra scetticismo colto e credulità plebea, framiscredenza faceta e scrupolo rituale. […]

E ripercorrendo in sintesi i noti tratti della non-storia del sud, il Croce sottolineava come alla seconda civiltà che dalla penisola italiana si era irradiata pel mondo, alla civiltà che dal sorgere dei comuni va sino al pieno Rinascimento, l’Italia meridionale avesse partecipato in misura irrilevante, se si eccettua la sfera speculativa, con i Bruno e i Campanella: onde mentre la civiltà bizantino-normanno-sveva si disfaceva, e il centro della vita culturale passava ai comuni, nasceva nel sud un regno di Napoli senza un proprio principio di vita interna, non sorretto dal nerbo di una formazione sociale dedita ai commerci e alle industrie, ma, al contrario, di continuo sconvolto dalla rissosità e dal particolarismo del baronaggio: il che ebbe per esito logico la ” discesa ” del regno e viceregno, cioè ancora una catastrofe, ancorché avesse la sua logica nel fatto, che il regno autonomo non aveva forza per controllare i baroni, mentre il dominio spagnuolo nell’Italia meridionale questa forza la possedette almeno in una certa misura. Di questa esagitata vicenda (o, se si vuole, di questa non-storia) il Croce ritrovava finalmente il momento nettamente positivo nella nuova cultura illuministica, penetrata a Napoli verso la metà del ‘600, e svoltasi per circa un secolo e mezzo, e che, soprattutto col Giannone e col Genovesi, valse a formare per la prima volta, e sia pure in una ristrettissima cerchia di uomini di cultura, la personalità morale e civile nella “nazione napoletana.” Dalla trattazione del Croce traspare dunque, malgrado la ricerca del positivo che è connessa ad ogni impegnata opera di storiografia, la straordinaria potenza del negativo nella storia del sud: […]

Antonio Genovesi scrittore, filosofo, economista e sacerdote

Or questa perdurante potenza del negativo si traduce, dal punto di vista esistenziale, nella ricorrente esperienza della precarietà dei beni vitali elementari, nella insicurezza delle prospettive, nel caos di cozzanti interessi particolaristici e individualistici, e in generale nell’ininterrotta pressione di forze non dominabili — naturali o sociali che siano — prementi da tutte le parti e schiaccianti l’individuo senza che la cultura nel suo complesso e la società nella sua tessitura offrano la possibilità di comportamenti realistici efficaci per fronteggiare il negativo e ridurlo a misura umana. Ora proprio qui si inserisce il particolare rilievo che assumono, nel sud, il ricorso alle tecniche protettive della bassa magia, la accentuazione magica del cattolicesimo, la molteplicità dei raccordi intermedi magico-religiosi, il largo spirito di compromesso, la scarsa capacità d’espansione della cultura di vertice; e proprio qui si inserisce il fatto che alla alternativa fra magia demonologica e magia naturale il pensiero meridionale partecipò in modo decisivo con i Bruno e i Campanella, ma non così alla alternativa tra magia e scienza della natura, che nel mezzogiorno restò senza contributi di rilievo. Quando nella seconda metà del ‘600 il pensiero illuministico, nato nel pieno vigore della borghesia inglese e francese, raggiunse Napoli rinnovandone la vita culturale e dando luogo ad una letteratura che si innalzò nel secolo successivo al livello europeo, non potè restare senza influenza il fatto che qui, in Napoli, tutta una serie di condizioni rendeva impossibile di sperimentare quella opzione a favore del razionale che già Bacone e Cartesio avevano, ciascuno a suo modo, sperimentato. II limite in re che il moto illuministico anglo-francese trovava a Napoli era dato dalla mancanza di una borghesia dei traffici e delle industrie vigorosa e consolidata come classe economica in ascesa, nel quadro di uno stato nazionale in espansione. Il razionalismo di una borghesia letteraria come quella napoletana si svolse pertanto con caratteri conformi a queste condizioni, e cioè senza particolare impegno e sensibilità per la alternativa fra magia e razionalità, superstizione e scienza, così importante nello svolgimento dell’illuminismo anglo-francese: ed a ragione fu messo in rilievo che gli illuministi napoletani si mantennero sostanzialmente estranei ad ogni polemica esplicita e diretta contro la religione tradizionale, soprattutto nelle sue più compromesse forme popolari, limitandosi nella polemica al solo aspetto politico dei rapporti fra Stato e Chiesa.

Pietro Giannone filosofo, storico e giurista italiano

Ora è in questo quadro complessivo che va collocato il formarsi della ideologia napoletana della jettatura come elemento di raccordo e di compromesso tra il fascino stregonesco della bassa magia cerimoniale e le esigenze razionali del secolo dei lumi: una formazione nella quale affiora, sul piano del costume, il contrasto fra l’illuminismo anglo-francese e la non-storia del regno di Napoli, o — più esattamente — fra un moto di pensiero nato e maturato in due grandi monarchie nazionali nel pieno sviluppo delle loro rispettive borghesie, e la mancanza di queste condizioni nel regno di Napoli, cioè nella nuova area di influenza di quel moto. Il compromesso rappresentato dalla ideologia della jettatura deve pertanto essere considerato come una delle testimonianze che l’illuminismo napoletano non potè sperimentare sino in fondo una importante alternativa in cui fu impegnato l’illuminismo anglo-francese. Ciò accadde perché la intera vita della società meridionale dell’epoca, così come risultava dalla sua storia, ripugnava ad una simile esperienza: il ritardo di sviluppo sul piano economico e politico, cioè sul piano dell’impiego profano della potenza tecnica dell’uomo, rendeva ancora psicologicamente attuale il ricorso alle tecniche cerimoniali del momento magico, in funzione protettiva della presenza individuale costretta a mantenersi in un mondo in cui tutto “va di traverso.”

Sino alla caduta del regno, e oltre, la ideologia della iettatura si innesta nella vita non soltanto privata ma anche pubblica della città di Napoli: e proprio questo riflesso pubblico lascia meglio intendere il legame della ideologia in questione con il disordine oggettivo della società napoletana. A differenza della magia demonologica, nella quale predominano figure di povere donnette qualificate per streghe e come tali perseguitate, la jettatura è dominata da personaggi prevalentemente maschili, e molto spesso da rappresentanti del ceto colto e da pubblici ufficiali, da professori, letterati, medici, avvocati e magistrati. Senza dubbio la jettatura napoletana, come ogni forma di fascinazione, tende a specificarsi e a istituzionalizzarsi in rapporto a quei momenti critici ricorrenti nella vita reale dove suole manifestarsi con maggiore evidenza la frustrazione dei desideri e delle aspettazioni, la incertezza delle prospettive, e al tempo stesso la umana impotenza a raddrizzare il corso delle cose nel quadro di una società e di una cultura che non offrono a riguardo mezzi efficaci di lotta “realistica”: d’altra parte la jettatura napoletana ha il carattere specifico di penetrare come credenza nella vita del tribunale e della reggia, assumendo quella incidenza pubblica che si è detto. Già accennammo alla credenza nella jettatura da parte di Ferdinando I e di Ferdinando II: ma un accenno a parte merita quella forma di jettatura che potremmo chiamare “giudiziaria.” E’ cosa nota come, sin dalla fine del secolo XVI, fiorisse in Napoli l’avvocatura in rapporto al groviglio dei diritti e alla molteplicità delle legislazioni del regno, al gran numero di liti che da tutte le province confluivano nella capitale, e al dilagare dello spirito litigioso nell’ozio generale. Il Giannone sottolinea a questo proposito come “un regno diviso dagli spagnuoli in tante piccole baronie, tante nuove investiture, tanti baroni moltiplicati non potevano non accrescere lo studio feudale, non empire i tribunali di nuove dispute e di nuove questioni: onde il Sacro Collegio in Santa Chiara, e di poi le ampie sale di Castel Capuano, furono davvero per questo riguardo una delle espressioni più caratteristiche dell’imbroglio, della confusione, della vana sottigliezza, e in ultima analisi dell’irrazionale nella vita napoletana. Era quindi comprensibile come la ideologia della jettatura godesse particolare favore proprio in un ambiente del genere, dove l’esito richiesto o sperato dipendeva da una miriade di imponderabili, e dove si confondevano inestricabilmente la giustizia e l’arbitrio, la legge e l’abuso. Già il Valletta, nella sua enfaticamente ambigua raffigurazione di un mondo governato dalla jettatura, non mancava di accennare al tipo dell’jettatore come togato che incanta e abbaglia “tutto il tribunal collegiate, sicché la bilancia della giustizia più non si vegga”: dove l’incanto e l’abbaglio non è tanto attribuito alla parlantina e al cavillo, quanto piuttosto a un occulto potere psichico, che fa smarrire ai giudici ogni attitudine a discernere il vero dal falso, e il giusto dall’ingiusto. La ideologia di una jettatura giudiziaria si mantenne in Napoli per tutto il secolo decimonono, e formava parte rilevante di ciò che i napoletani chiamavano ” jettatura sospensiva, ” con la quale, in generale, si designava il potere di alcuni jettatori di impedire l’esecuzione di una operazione importante della giornata, in particolare se un tale era diretto in tribunale e incontrava uno di questi personaggi specialisti nell’interrompere e nel guastare, segno era che la causa sarebbe stata rinviata sine die. II Trede riferisce di un importante processo celebrato a Napoli nel 1887, al quale non si potè dare inizio prima di aver soddisfatto la tumultuosa richiesta del pubblico di allontanare dall’aula una certa persona nota come esercitante la jettatura sospensiva: bastava la sola presenza di questa persona per “abbagliare tutto il tribunal collegiate” e per mandare assolto l’imputato, che il pubblico invece desiderava fosse condannato.

Nicola Valletta

Il nesso fra disordine oggettivo della vita sociale, carenza di ethos civile e ideologia della jettatura nella concreta vita napoletana si manifesta con particolare evidenza nel corso delle vicende cui diè luogo, nel 1855-56, la progettata costruzione della ferrovia delle Puglie. Patrocinatore del progetto era l’ingegnere Emanuele Melisurgo di Bari, bellissimo nella persona e facondo, il quale ostinatamente cercava di convincere Ferdinando II a dare la sua approvazione: ma il re nicchiava, e una volta, in uno dei colloqui lui, quasi per difendersi dalla seduzione della sua oratoria, lo congedò dicendogli: “Va, vattenne, si no faccio comme ‘e femmene, te dico de sì.” Finalmente con decreto del 16 aprile 1855 il re concesse al Melisurgo la costruzione e l’esercizio della ferrovia che doveva congiungere Napoli con Brindisi. Il progetto dell’ingegnere barese era però campato in aria: prevedeva infatti di raccogliere il capitale necessario immaginando che sui 3.000.000 di abitanti delle cinque province che la ferrovia avrebbe attraversate o lambite, si sarebbero trovate 55.000 persone che avessero il potere di sottoscrivere 4 azioni di 100 ducati all’anno, versati in piccolissime rate, per quattro anni, con l’interesse del 12 e un quarto per cento come “speranza” massima, e garantendo un minimo del 5. La realtà fu ben diversa: e dei 55.000 azionisti previsti se ne trovarono, alla chiusura della emissione, appena 1000.

Ferdinando II sul letto di morte

Povertà reale delle province e avarizia, diffidenza per i rischi dell’impresa, invidia dei foggiani verso un ingegnere barese salito tanto in alto, non sufficiente concorso del governo che interveniva a titolo di incoraggiamento e non per assicurare gli interessi del capitale, e infine reali deficienze tecniche del progetto nel suo complesso, motivarono il fallimento dell’impresa: e i lavori, benché inaugurati l’11 marzo del ’56 sulla strada dell’Arenaccia presso la chiesa della Madonna delle Grazie alla presenza del cardinale Carbonelli, non andarono innanzi, lasciando soltanto complicatissimi strascichi giudiziari che durarono alcuni decenni e impegnarono in forensi battaglie lo stesso figlio del Melisurgo, Giulio, ingegnere anch’esso. Orbene, l’insuccesso di questa impresa fu fatto risalire al potere di quel duca di Ventignano che già abbiamo incontrato in funzione di jettatore “nazionale” — o addirittura “internazionale” — nella biografia romanzata del Dumas. Episodi e aneddoti del genere punteggiano tutta la vita napoletana del Regno morente: e non a caso l’approssimarsi della catastrofe finale par quasi svolgersi sotto il segno della iettatura, con l’ultimo ballo a corte mandato a monte dal terribile duca, e con l’immagine del re prossimo a morte in atto di rammemorare i “visi” in cui si era imbattuto e gli “occhi” che lo avevano “guardato” durante il suo ultimo viaggio nelle province del regno.

Da SUD E MAGIA,  di Ernesto De Martino – Feltrinelli

FOTO: Rete

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close