
Questo testo è preso da “Sud e magia” di Ernesto De Martino. Un libro intrigante. La prima edizione risale al 1959. È un’indagine condotta dallo stesso De Martino in Lucania tra il 1950 ed il 1957. Il senso lo spiega l’autore nella presentazione:
“Nel presente saggio, il materiale relativo alla “magia lucana” non resta chiuso in se stesso, inerte e opaco. […] Il relitto folklorico-religioso può tuttavia acquistare il suo senso storico o come stimolo documentario che aiuta a comprendere una civiltà scomparsa di cui esso formava, una volta, elemento organico, ovvero come stimolo documentario che aiuta a misurare i limiti interni e la interna forza di espansione di una civiltà attuale in cui è conservato come relitto”
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La fascinazione del latte materno
La nascita dell’infante inaugura un’altra importante serie di vicende magiche relative ai rischi della puerpera e dell’infante. Appena dopo il parto la puerpera deve esporsi al sole, per ristorare le sue forze. Il ciclo di rappresentazioni magiche a cui il sole si collega (avremo occasione di tornare sull’argomento) permette di supporre che, almeno in origine, quest’atto fosse concepito come corroborante in senso magico. I rischi maggiori, e quindi più largamente rappresentati nella ideologia tradizionale, concernono l’allattamento. Il rapporto placenta-latte è largamente documentato in Lucania. A Savoia la placenta viene immersa nel fiume più volte, accompagnando il gesto con la formula:
come se jegne sta borza d’acqua cussi se pozzano anghì sti menne de latte.
(Come si riempie questa borsa di acqua così si possano colmare questi seni di latte).
La formula va ripetuta tre volte e chiusa con un Pater. A Pisticci cordone ombelicale e placenta vengono fermati con una pietra nel mezzo di un torrente, in modo che l’acqua vi scorra sopra a lungo, e la placenta se ne riempia. A Viggiano e a Valsinni, per rinforzare l’operazione magica, si potrà staccare qualche pezzetto della placenta abbandonata nel torrente, e preparare un brodo per la puerpera. Promosso in tal modo il flusso del primo latte, subentra un’altra serie di rischi, connessi con la sua possibile perdita: in rapporto con l’estrema importanza del latte materno in un ambiente in cui tale mancanza significa per l’infante deperimento malattia e morte, i seni turgidi sono naturale oggetto di invidia da parte di altre mamme, e questo sguardo invidioso ruba il latte e secca le mammelle, è “malocchio” più o meno intenzionale in una delle sue accezioni tipiche. Le mamme perciò sorvegliano il turgore del loro seno e lo proteggono dalla carica di invidia che è nell’aria, e che minaccia, in occasioni tradizionalmente fissate, di rubare il loro latte. Il furto di latte si presenta con molte sfumature che vanno dalla efficacia preterintenzionale di certi atti allo sguardo invidioso non deliberato e cosciente, sino al vero e proprio complotto magico intenzionalmente ordito.
A Gròttole quando una donna rende visita a una puerpera non dovrà uscire dalla casa visitata col proprio bambino al seno, perché porterebbe via il latte della puerpera. Quest’ultima, messa in allarme, chiamerà l’amica e le dirà pacatamente e fermamente:
“Per piacere, dammi il latte che ti sei portato via.” La ladra di latte potrà, come riparazione, disfare l’atto generatore di influenza, cioè far l’atto di entrare nella casa della puerpera col bambino al seno. In molti casi la visitatrice appare come irresistibilmente invidiosa del latte della puerpera. È come se tutti i suoi atti fossero tendenzialmente sospettabili: basta una associazione particolare, fissata dalla tradizione, per rendere il sospetto certezza. A Colobraro se la visitatrice prende in braccio, il bambino della puerpera e poi lo restituisce alla madre sfiorandole il seno, questo leggero sfregamento basta per seccare le mammelle. Ancora a Colobraro se il neonato rimette il latte sul pavimento e la visitatrice inavvertitamente lo calpesta, ecco che questo calpestare è automaticamente disprezzo per gelosia, invidia che ruba. Sempre a Colobraro, la visitatrice non passerà il suo fazzoletto sulla bocca dell’infante sporca di latte, perché c’è il rischio che l’asciughi per sempre dal latte materno, e analogamente a una donna che allatta non verrà mai affidata la placenta per eseguire l’operazione più sopra accennata: altrimenti l’influenza desiderata non avrà luogo.
La generica disposizione invidiosa verso il latte altrui può assurgere a vero e proprio complotto magico deliberatamente ordito.
A Valsinni la madre che lamenti scarsezza di latte nasconde un pizzico di sale nelle fasce del suo infante e prega quindi un’amica di recarsi con l’infante al collo a rendere visita a una madre più fortunata. Al ritorno dalla ” spedizione magica, ” la madre senza latte preparerà per sé una minestrina, salandola col sale tolto dalle fasce, che si suppone abbia assorbito il latte della vittima. Compiuto il rito il latte fluisce abbondante nelle mammelle della ladra. Se la derubata scopre la responsabile del furto, la manda a chiamare e chiede riparazione: le due donne si scoprono i seni l’una di fronte all’altra e ne fanno sprizzare un po’ di latte, mentre la derubata dice: “del tuo non ne voglio, e del mio non te ne voglio dare”: con questa ferma espressione di volontà magico-giuridica la fattura viene disfatta.
[Anche ad Orsomarso le fattucchiere recitavano uno scongiuro, per restituire il latte alle mamme che lo avevano perduto- CLICCA QUI PER LEGGERLO]
Lo sguardo invidioso asciuga le mammelle anche se l’impulso psichico di cui è carico è di natura erotica. Secondo il racconto di una informatrice di Savoia, una trentina di anni fa accadde che un uomo togliesse il latte a una donna solo perché ne aveva desiderato i seni. Ecco la parafrasi della narrazione: una volta un mietitore tornava dalle Puglie, alla fine della stagione della mietitura, e a piedi, “di tappa in tappa” (‘ntappa ‘ntappà), si dirigeva verso la nativa Potenza. Durante il suo viaggio, una sera, passò per l’abitato di Vaglio. Era seduta alla porta di una casa del paese una giovane sposa, che allattava il suo bambino; tutta intenta a nutrire il suo bene, non si accorse del mietitore che passava. Ma ben si accorse di lei e del suo petto bianco e prosperoso il mietitore, che non potè trattenersi dall’invidiare quello splendore. Continuò tuttavia il suo cammino e raggiunse Potenza: ma qui si senti in petto come un batter di ciglie fitto fitto, e toccandosi, senti il petto gonfio di latte. Si rimise allora in cammino per restituire alla donna il mal tolto: la trovò infatti in lacrime, perché aveva perso il suo latte. Senza altra spiegazione, il mietitore si dispose a eseguire uno dei riti che la tradizione fissa per restituire il latte rubato. Cominciò col recitare la formula:
Tenghe ‘u latte tue:
ramme na fedda de pane
mo ce dagghe nu muzzuche
e tue m’u scippe dicenne:
“Ramme ‘u pane mio.”
(Ho il tuo latte:
dammi un fetta di pane
Ora ci dò un morso
E tu me lo strappi dicendo.
“Dammi il pane mio.”)
Nel corso della recitazione della formula furono eseguiti gli atti relativi: la donna in silenzio dette al mietitore un pezzo di pane, il mietitore lo addentò, e la donna glielo strappò di bocca, ripetendo ” dammi il pane mio.” Compiuta la cerimonia i due si separarono senza aggiungere altre parole, e il mietitore tornò a Potenza, col petto libero di latte, mentre i seni della sposa tornarono turgidi.
L’invidia di latte può essere esercitata anche da cagne o da gatte in periodo di allattamento: anche fra donna e bestia sussiste la possibilità di scambi e di contagi magici. Non sembra però che qui il furto sia consumabile mercé l’invidia dello sguardo, ma solo attraverso altre forme di rapporto magico. Per es. se accade che l’animale mangia nel piatto della donna, ruberà il suo latte: per recuperarlo la donna preparerà una pappina, ne farà mangiare un poco all’animale, poi ne mangerà lei stessa, mormorando la formula: “dammi il latte mio che ti sei rubato.” Il rapporto per contagio può avvenire anche attraverso i residui del pasto, per es. attraverso le ossa.
A prescindere da questi “furti” di latte e dalle contromisure per recuperarlo, vi sono appositi scongiuri per ottenere il latte quando non lo si ha o per riottenerlo quando lo si perde. Ecco una formula raccolta a Savoia:
Cala cala latte
na secchia e nu piatte
na secchia e nu varrile:
Cala cala S. Martine.
(Cala cala latte,
un secchio e un piatto
un secchio e un barile:
Cala cala S. Martino).
Durante la recitazione si afferra il capezzolo con uno straccio molto sporco, avendo cura di effettuare movimenti che riproducano il segno della croce. In chiusura tre Pater, tre Ave e tre Gloria a S. Francesco. Sia i gesti che accompagnano la recitazione, sia gli elementi cattolici nei quali essa è incorniciata hanno un margine relativamente ampio di variazione: la stessa formula, secondo un’altra informatrice di Savoia, non comportava il particolare dello straccio “molto sporco,” ma un triplice segno di croce col pollice sfiorante il capezzolo. Inoltre, sempre secondo la stessa informatrice, la formula doveva essere ripetuta tre volte, iniziando con “In nome del Padre” per ciascuna volta e recitando in chiusura di tutta l’operazione dieci Gloria, dieci Ave e dieci Atti di Dolore. Uno scongiuro di Colobraro impiega come forze operanti i componenti della Sacra Famiglia:
In nome di Gesù e di Maria
‘u latte se n’è gghiute via;
In nome di Gesù e di Giuseppe
‘u latte venisse ‘npiette.
(In nome di Gesù e di Maria,
il latte se ne è andato via:
In nome di Gesù e di Giuseppe
che il latte venga in petto).
Gesù Maria sono le forze operanti negative, Gesù e Giuseppe la contromisura magica positiva: le necessità della assonanza e della identificazione del responsabile della malia e di chi è capace di annullarla sono qui il criterio di fondamentale distribuzione dei tre principali membri della sacra famiglia nei due campi opposti all’agone magico.
In connessione con l’allattamento entra nella sfera magica anche l’ingorgo mammario, chiamato in dialetto o pile a’ menna (il pelo alla mammella), perché si presuppone che un pelo occluda il condotto galattoforo. Le comari curano questa malattia — frequente nel periodo dell’allattamento — con uno scongiuro molto diffuso. Ecco la lezione di Gròttole:
Bona sera Maria du Quarmine!
O’ quatacomere s’acchio passando.
Chire gente ca ‘o vederne,
se metterne tutte a rire.
— Vu ca derite a sederite sopa de me
viegghie cadè nu pile d’a barba mia,
viegghie scì sopa a menna vostra
non viegghie dà o’ llatte abbnanzie a le file voste.
— Non rerime e sederime sopra de te,
ma rerime e sederime sopra de nò!
— E già che non rerite e sederite sopra de me,
viegghie calà ‘o llatte abbnanzie a le file voste!
(Buona sera, Maria del Carmine;
II nanetto si trovò a passare.
La gente che lo vide
scoppiò tutta a ridere.
— Su voi che ridete e sghignazzate su di me
cada un pelo della barba mia,
vada sulla mammella vostra
e non abbiate più latte per saziare i vostri figli.
— Non ridiamo e sghignazziamo su di te,
ma ridiamo e sghignazziamo su di noi!
— E allora, se non ridete e sghignazzate su di me,
scenda abbondante il latte sui figli vostri).
Lo scongiuro contiene dunque una historiola, un modello mitico di fattura fatta e disfatta, che riattualizzato nella recitazione rituale torna ad operare come “quella volta.” Il quatacomero è una sorta di nanetto deforme e barbuto, così ridicolo da muovere irresistibilmente il riso a un gruppo di donne che lo vede passare. Il nanetto, impermalito, si vendica facendo magicamente passare un pelo del suo barbone nei seni delle donne, con risultato immediato. Le donne, colpite da dolori al petto, rassicurano il nanetto di non aver voluto farsi beffe di lui, ma di loro stesse. E il nanetto, rabbonito, compie l’operazione inversa, ripigliandosi il pelo della barba e liberando le donne dall’ingorgo di latte.
Il quatacomero della lezione grottolese diventa a Colobraro “un vecchio vecchione, più barba che persona”:
Passaie pe’ ‘na funtana
tre zitelle ca lavavene
passaie nu vecchio vecchione,
cchiu varva ca persone
(Passò per una fontana
dove tre ragazze lavavano
passò un vecchio vecchione,
più barba che persona.)
A Incarico l’historiola parla invece di un Fra Trizzano, deforme e ridicolo, che fa cadere il pelo non dalla propria barba, ma dalla capigliatura delle donne che lo irridono:
Scietti all’acqua e la fontana
acchiaie a Fra Trizzano:
tre palme de musse e tre de cape
— Vu rerite e sererite?
Jabbe de me ve ne facite?
Adda cade nu pile ra int’a le trizze
adda scì a le zizze
………………………
Adda ‘nchianà nu pile da int’a le zizze
e n’adda sci int’a le trizze
(Andai alla fontana
e trovai Fra Trizzano:
tre palmi di muso e uno di testa.
— Ridete e sghignazzate?
vi fate beffe di me?
Deve cadere un pelo dalle vostre trecce
deve andare nelle mammelle
…………………………..
—— Deve salire un pelo dalle mammelle
e deve andare nelle vostre trecce).
In una lezione raccolta a Pisticci l’operatore magico è Santo Servino:
Santo Servino sceva camminande
e truvaie tre donne pe’ nnante,
ca redevano e straredevano.
— Pecche donne ca rerite?
Jabbe de la barbella ve ne facite?
Se jabbe de la barbella ve ne facite
leve nu pile de la mia barbella
pozza veni a la vostra mennella,
fredde e freve ve pozza pigghià,
e li veste figghie non li pozz’allattà.
— Uè, zi vecchie, uè zi vecchie, mi dole, mi dole la menna!
— Jabbe de la barbella ve ne facite?
— Gnornò!
— Mentre ca non site fate jabbe de la mia barbella,
leve lu pile de la vosta mennella,
fredde e frevc ve pozza passà,
e lu figghie veste lu pozz’allattà.
(Santo Servino andava camminando
s’imbattè in tre donne
che ridevano e sghignazzavano
— Perché, donne, ridete?
vi fate beffe della barbetta?
Se vi fate beffe della barbetta
tolgo un pelo dalla mia barbetta
possa venire nella vostra mammelletta
freddo e febbre vi possano pigliare
e i vostri figli non possiate allattare.
— Ehi vecchio, ehi vecchio, mi duole, mi duole la mammella.
— Vi fate beffe della mia barbetta?
— Signornò!
— Poiché non vi siete fatte beffa della mia barbetta,
tolgo il pelo dalla vostra mammella
freddo e febbre vi possa passare
e il figlio vostro possiate allattare).
In una lezione a Campomaggiore l’operatore magico è Santo Marciano. Infine in un’altra lezione di Pisticci appare come protagonista Gesù in persona, e la histonola è inserita in una pia leggenda in cui si narra come Gesù una volta andava peregrinando in incognito, quando fu colto dalla pioggia e costretto a riparare presso la casa di una donna, a cui chiese ospitalità. La donna, vedendolo così barbuto, ritenne che non fosse un ospite troppo rassicurante, e non fu con lui molto cortese, tanto che il povero Gesù fu costretto a riposare su dei tralci secchi di vite. La leggenda è fino a questo punto evidente contaminazione con un altro scongiuro contro il dolore di ventre, di cui ci occuperemo più oltre. Qui invece Gesù, incollerito per cattivo trattamento ricevuto, invia un pelo della sua “barbetta” nella “mennetta” della donna: ma poi, mosso a compassione, disfa la fattura e si ripiglia il pelo maligno. In genere gli scongiuri dell’ingorgo mammario sono seguiti da preghiere della filotea, più volte ripetute e accompagnati da segni della croce sul capezzolo. La stessa idea di un pelo che occluda il condotto galattoforo presiede alla pratica di passare il pettine stretto sul capezzolo della malata. Un altro mezzo di terapia magica è costituito dalla foglia di cavolo riscaldata alla fiamma. Se un solo seno è malato, per non contagiare anche l’altro la madre allatterà l’infante disponendolo con le spalle al seno malato.
Da SUD E MAGIA, di Ernesto De Martino – Mondadori
FOTO: Rete