IL VECCHIO FOCOLARE

Me la sono guardata a lungo questa foto con Domenico Befezzi al focolare. È come il capitolo di una lunga storia. Ho dato tempo alla memoria di fare il suo lavoro. Sono tornate tante cose ch’erano disperse. Ogni oggetto aveva parole, ogni angolo conservava voci, gesti. Mestizia e tenerezza si sono presentate, come avviene quando è scomparso un congiunto, a cui si deve molto di quello che si è.

La casa e il vecchio focolare nel tempo contadino.

In cucina l’arredo era semplice, l’economia del tempo non consentiva frivolezze: pentole e coperchi appesi alla parete, un angolo per u lanceddaro, un altro per la legna, qualche sedia impagliata, un tavolo, una cassapanca, u treppiedi cu vacile per lavarsi, l’immagine di qualche santo come Lare familiare, la foto di qualche congiunto e la lampadina che pendeva dal soffitto con la sua luce fioca.

In diverse case c’era, accostato ad una parete, anche il letto, perché si disponeva solo di una stanza e la sera, dopo che tutti erano andati a dormire, era impossibile aprire la porta.

E poi il focolare.

Era il luogo dove la famiglia si ritrovava. Nel tempo autunnale era il momento di conservare le provviste: intrecciare ‘nserte di mais, sgusciare fagioli … O riposarsi per le fatiche del giorno.

 L’aria intanto diventava sempre più cruda. I panni, spesso rattoppati, solo in parte proteggevano dal freddo. C’era bisogno di legna e di frascedde, in quantità, per cucinare e riscaldare. Mast’Andria col suo asino faceva due o tre viaggi al giorno dalla Vadda, per venderla. Ogni sarma 500 lire. Zi’ Ruminico ri Matparola, con fasci che si caricava sulle spalle, la procurava per alcune famiglie di Santa Cruce e Capomulino; Filomena ri Ciacia le frascedde le vendeva alla Viaravita: 200 lire un mazzo… Ma la maggior parte delle famiglie il necessario per riscaldarsi se lo procurava in proprio. Alcuni andavano lontano, fino u Mitisciuno: tagliavano una bella pianta di leccio (perché “Linna r’ilici fucu pi tridici” ammonisce il proverbio), la pulivano dei rami, praticavano un buco nella parte grossa, per legarla con la fune, e la trascinavano fino in paese, per ridurla poi in piccoli pezzi. Altri andavano nelle zone vicine: Anzitto, u Rizzaro, l’Iliciosa a Macchia ru Mulino, a Nucidda, U Jardino, a Simara, u Calivario, u Livaro … e portavano a casa quello che potevano. Spesso erano purritti.  Le coste attorno al paese erano diventate quasi spoglie.

Ma u fucularo era soprattutto il luogo dell’affabulazione. I vecchi intrattenevano i ragazzi con parmarije, cosecusedde, vicende paesane… di tutto. Televisioni non ce n’erano. Era il momento in cui la cultura popolare si travasava da una generazione all’altra.

Dai miei nonni, dove andavo a dormire, la sera venivano anche alcuni vicini e ognuno aveva qualcosa da raccontare. Nonno Salvatore ci divertiva con le sue avventure americane, Tumasino ricordava di quando in paese c’era la Mano Nera, e di notte era meglio stare a casa per non prendere legnate, nonna Lucia mi teneva in apprensione con il racconto della lotta che dovette sostenere per non farsi strappare il figlio da nu Monachiddo, mentre il marito se ne stava in California, Trisina aggiornava sulle vicende paesane…

Momenti dolcissimi, che animavano anche i sogni notturni.

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