
Questo brano è preso da “Un treno nel Sud”, pubblicato per la prima volta nel 1958. Contiene testi scritti tra la fine degli anni Quaranta ed i primi anni Cinquanta. Sono “resoconti sentimentali, letterari etnografici”. Racconta il come eravamo, che serve per capire chi siamo. Alvaro, da grande scrittore, “ci fa vedere quanto d’indecifrabile, d’inesplorato, di mitologico si nasconde sotto la patina delle tradizioni e dei pregiudizi”.
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Era una tribù di donne che abitava presso una fonte abbandonata dove non andavano ormai che ad abbeverarsi le bestie, i porci a rotolarsi nelle pozze, i ragazzi a cercare i granchi sotto le pietre umide. Queste donne erano venute da un paese vicino e parlavano un liquido dialetto greco. Era un gruppo di Veneri di paese, invecchiate, con intricate parentele. Si distinguevano non tanto per la loro parlata, quanto per i caratteri del viso dritto e senza nessuna di quelle vezzose disarmonie che hanno le donne di certi paesi chiusi del Sud, dove labbra spropositate si aprono su visi delineati finemente, e gli occhi neri troppo grandi assorbono tutta l’espressione della persona, come i laghi notturni concentrano la poca luce intorno.
La vita di donne come queste la conoscono tutti. Prima fanno le serve nelle grandi casate. Passano diecine di volte per le strade a comprare e a chiedere le mille cose che servono nelle case oziose e disordinate, dove le ghiotte padrone hanno ad ogni ora voglia di qualche cosa, pensando che il vicino abbia qualche boccone da mangiarsi in segreto. Più tardi queste donne si riducono in un casolare, con attorno una turba di figli (e soprattutto figlie, perché mettono al mondo femmine come per destino). Nessun uomo si vede nella loro casa. Mandano a servizio le figlie appena sono in età di portare i primi pesi sulla testa. Fino a quando anche queste, non più giovani, si ritireranno nei casolari appartati.
Tutte insieme divengono serve di tutto il paese. Portano orci e barili d’acqua, lavano i panni nel fiume, vanno a fare le grosse spese per qualcuno nei mercati del paese sul mare, colgono frutta e fichidindia quando è la stagione, vendemmiano, portano sul capo le pietre per le nuove costruzioni.
A maggio e in giugno, quando il sole punge, lunghe file di donne come formicole vanno su e giù dai campi al paese. Ognuna porta sulla testa una grossa pietra. Le buttano in un mucchio e poi tornano indietro. È questo il lavoro che accomuna tutte le donne di fatica. Vi sono le ragazze adolescenti che cominciano con questo lavoro la loro vita, le donne mature e le Veneri decadute, alle soglie dei trent’anni, quando per una donna del popolo, nel Sud, scende il velo complicato delle rughe. A quest’età le povere Veneri possono non arrossire più, come facevano tanto bene prima, diventano linguacciute, leticano ad alta voce nelle grandi sere dei paesi, sparlano sulla soglia delle case, intonano le liste delle imprecazioni che, a sentirle, le buone spose presso i focolari si segnano come per scansare la folgore. Adoperano il vocabolario degli uomini, esse che prima passavano chinando gli occhi davanti a loro, per svergognate che fossero.
E tuttavia il ricordo della grazia perduta le accompagna. Quando vanno di casa in casa, qua a portare i grandi orci d’acqua, là a caricarsi sul capo i grandi cesti di biancheria, altrove per arruolarsi come sfatte baccanti per la vendemmia, o per portare al mulino i sacchi di grano, i loro occhi bramosi di vecchie cortigiane costringono i padroni di casa a usar loro qualche cortesia. Fanno tutto con sospiri di angoscia. In tutti i loro atti c’è ancora un ritegno che costringe la padrona a pregarle di accettare una manciata di fichi secchi, un paniere di frutta. «In gloria dei vostri morti», si dice loro pregandole di accettare.
Ed ecco che la loro oscura discendenza riscuote un poco di pietà. La buona sposa, padrona di casa, legata alla sua stanza come l’architrave, è commossa d’avere tanta pietà. Sul viso smunto della cortigiana appassita una lacrima scivola tra il sudore della sua fatica. La padrona di casa impietosita promette, se sarà servita fedelmente, che quando verrà la buona stagione darà alla povera cortigiana tutti i giorni le bucce della frutta, le scorze dei meloni, le brode della cucina per il maialino che ella alleva sotto il letto deserto. Se servirà con costanza; giacché di donne come queste nessuno si fida. Hanno improvvise superbie, risentimenti per molti nonnulla, e da un giorno all’altro passano voltando la faccia dall’altra parte. Un sorriso, rimasto in fondo agli occhi degli uomini, ricorda loro il tempo in cui furono belle, quando apparvero per la prima volta, divenute adulte epudiche, a primavera, tempo in cui le ragazze sciamano all’improvviso, ondeggiando incerte nei balli popolari in cui tutto il paese si scuote, si agita, si batte come un materasso. I maschi in piazza rimangono soprappensiero e si informano di loro. Qualcuno, per poterle guardare, chiede da bere un sorso d’acqua. I giovani bevono tutti ai loro orci, tremando sotto il peso e l’emozione.
Così comincia la vita per tutte le donne di questo popolo, e ognuna va pel suo destino così. Vi sono quelle che trascineranno gli orci scuri delle loro famiglie, e quelle che ne porteranno uno sempre diverso, che lavoreranno per gli altri e sempre più faticosamente a mano a mano che gli anni le stringeranno come un pezzo di carta nel pugno. Alcune sono portate dal destino, e da qualche generazione non nascono da loro che le pigre Veneri di qualche breve stagione. Sedute sulla scala esterna del loro primo padrone, guardano il mondo con occhi socchiusi, fra le api ronzanti attorno ai piatti rossi di salsa di pomodoro messa a seccare al sole, ai fichi posati sulle finestre, alle decorazioni di peperoni rossi.
Stride nel polverio solare la voce di tutti gli insetti come una gran voce di sonno solcata di quando in quando dal ronzio grave del moscone. Ai loro piedi si affanna dall’alba il popolo minuto. Esse aprono pigramente corrucciate le loro finestre alle otto, quando il sole brucia la schiena della gente curva sui campi. Fino a che sono giovani è in loro un senso segreto delle loro famiglie femminili, che è qualche cosa di geloso e di riservato, come tra conoscitrici d’un rito. Si parla di loro e della loro funzione come di cosa che esiste naturalmente. Appena avvizziscono, è come se con la gioventù sparisse da loro ogni mistero e ogni segreto. Gli uomini divengono sfrontati da discorrere con loro sboccatamente, proprio quegli uomini che, davanti alla giovinezza e alla bellezza, non ardivano levare gli occhi. Questo è il segno che le avverte della loro fine.
Buttate via come la scorza d’un cocomero sulla strada, col segno dei denti di chi l’ha divorato; qualcuno, che le ha aspettate, le ha raccattate e poi buttate di nuovo via. Scansate prima da tutte le buone spose, guardate di sfuggita dagli uomini, appena terminata la loro bellezza, si trovano sulla soglia delle case stimate. Ora si accosciano come animali stanchi, ora non ridono più nascondendosi la bocca. Vengono le nuove primavere, passano altre ragazze.
Da UN TRENO NEL SUD, di Corrado Alvaro – Rubbettino
FOTO: Rete
One Reply to “ALVARO RACCONTA LA CALABRIA: “Donne perdute””
La Calabria è quasi del tutto con radici greche, profonde e forti anche se l’ignoranza dei potenti e dei pennivendoli tentano ogni giorno, da molti decenni ormai, di mistificare e cancellare. Invece proprio in Calabria sia gli antichi sia i bizantini seppero toccare livelli eccelsi in ogni campo dello scibile!