PARMARIJE – U fisckitto ri Minicuccio

C’era na vota nu carivunaro. Se ne stava con la famiglia sempre ‘nta muntagna. Jiddo con i due figli maschi tagliava boschi e faceva carbone, la moglie coltivava i pochi campi e la figlia pascolava le pecore. Scendevano in paese solo per le feste e per comperare il necessario.

Una sera la ragazza andò a prendere l’acqua alla vrisa cu na lancedda. Non lontano dalla fontanella, su un masso, vide uno zufolo di canna, simile a quelli che si suonano a Natale. Lo prese e volle provarlo. Ma (roba da non credere) anziché il suono uscì la voce di un ragazzo. Si mise paura e lo buttò via. Come tornava a casa con la lancedda, però, le venne la tentazione di prenderlo e nasconderlo in una tasca della gonna.

Il giorno appresso, mentre se ne stava seduta a guardare le pecore che pascolavano, prese il fischietto. Appena vi soffiò, di nuovo venne fuori la voce del ragazzo.

“Non avere paura, sono Minicuccio, il ragazzo morto l’anno scorso. Sono caduto in una vinca e lì sono rimasto, cibo per le bestie. Sei molto bella e dal cuore gentile. Spesso ti guardo quando vai in giro con le pecore. Quando vuoi possiamo tenerci compagnia. Anzi, se hai bisogno di qualcosa, prendi u fisckitto, che scappo subito da te.”

Trisinuccia, così si chiamava la ragazza, rimase turbata, ma accarezzò quel piccolo pezzo di canna e se lo infilò sotto la camicetta. A sera, quando tornarono padre e figli, parlarono di quella brutta morte, che aveva turbato tanta gente, ma Trisinuccia tenne per sé il suo segreto.

Passarono i giorni. La ragazza si sentiva meno sola tra quelle montagne. Quel fischietto era come un compagno; spesso lo prendeva e lo suonava; più che il suono aveva sempre la sensazione di sentire la voce di una persona con cui aveva confidenza.

Era una bella giornata di sole. Trisinuccia, mise in un sacchetto pane, formaggio e qualche fico secco e uscì con le pecore. Salì per i Masseti. Verso mezzogiorno si sedette e mangiò qualche boccone. Dopo aver dato un’occhiata alle bestie, prese lo zufolo, ma anziché il suono solito, tornò la voce di Minicuccio.

“Trisinuccia, ascoltami. Va girando da queste parti u Monachiddo. È piccolo, brutto, vestito come nu francescano, la testa grossa con la chierica da monaco. È dispettoso e può fare brutti scherzi. Stanotte verrà a casa tua. Entrerà dal buco per le galline. Tu nasconditi lì vicino. Appena lo vedi entrare, rubagli il cappellino rosso che porta, così potrai chiedergli qualsiasi cosa e lui te la procurerà, pur di riaverlo.”

“Che gli devo chiedere? Ho paura.”

“Quello che vuoi.”

“Mi farò costruire un castello alli Masseti e poi mi farò dare tanti soldi, così a casa mia non ci sarà più miseria.”

“Fatti portare il tesoro dei briganti, nascosto nella grotta ru Frassaniddo; ce n’é per vivere da gran signori per generazioni”, disse Minicuccio.

Venne notte. Nella montagna si sentivano solo le voci lamentose della cuccuvedda e du grugulejo. Nella turra dormivano tutti.  Trisinuccia si alzò, accese nu pignatiddo e si andò a nascondere tra il focolare e la porta. Cercò di farsi coraggio, ma il cuore le batteva forte.

Un colpo di vento fece frusciare le foglie delle querce. La porta ebbe un sussulto. Un ghigno fece trasalire la ragazza, che tratteneva il respiro per non fare rumore. Dopo un po’ dal buco per galline spuntò la testa ru Monachiddo. Trisinuccia, come un fulmine, sfilò subito il cappellino rosso e lo nascose dietro le spalle, appoggiandosi forte contro il muro. Lo spiritello cominciò a strillare, buttare per aria oggetti, rotolarsi per terra, chiedendo il suo cappellino. Questo frastuono fece svegliare il resto della famiglia. Padre e figli presero dei bastoni, ma la ragazza li fermò. Poi rivolta al Monachiddo, che compariva e scompariva, facendo smorfie, dispetti e saltellando di qua e di là, disse:

“Io il cappellino te lo darò, ma prima devi soddisfare due miei desideri.”

“Quali, quali?”, sghignazzò il folletto.

“Voglio un castello con tante stanze e tutte le comodità alli Masseti. E dentro il castello devi portare tutti i tesori che i briganti tengono nascosti nella grotta ru Frassaniddo.”

“Subito, subito; tu però dammi il cappello, dammi il cappello.”

“Quando vedrò il castello e il tesoro, te lo darò.”

Nella turra si fece silenzio. U Monachiddo era scomparso. Tutti guardavano Trisinuccia e non sapevano se stavano sognando o se erano svegli.

Appena fatto giorno guardarono verso la montagna. Su uno sperone videro un castello maestoso, mai visto prima. Presi da una strana frenesia, genitori e figli si avviarono a gambe levate. La strada sembrava non finire mai. Da lontano sentivano voci, suoni. Al portone arrivarono sfiniti. Trovarono gente vestita in modo curioso, che li aspettava. Entrarono intimoriti, stringendosi l’uno all’altro. Vennero accompagnati a visitare tutto il castello con tanti salamelecchi, come se fossero principi o baroni.

Trisinuccia si appartò in una stanza, prese lo zufolo, lo accarezzò a lungo, lo baciò e se lo mise sul cuore, mentre lacrime di felicità le bagnavano il volto.

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Se vi dovesse capitare di passare dalli Masseti, andate sullo sperone che sovrasta i Milari. C’è ancora qualche pietra di quel castello costruito ru Monachiddo per Trisinuccia.

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Loro camparono felici e cuntenti,

nui simo qua chi vattimo i renti.

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