Perchè l’isola di Praja si chiama “Dino”?

Giuseppe Isnardi visita negli anni Trenta Praja. Ne rimane affascinato. In questo brano racconta la visita che fece all’isola Dino. Spiega anche da dove, secondo lui, viene il nome “Dino”-

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La barca, dopo avere così compiuto quasi tutto il periplo dell’isoletta, viene ad accostarsi ad un minuscolo porto là dove si diparte la più lunga delle scogliere che si spingono verso terra. Di qui si sale fra le pietre sino ad un sentiero che, con parecchi zig-zag iniziali e poi tagliando obliquamente il pendio di sud-est, conduce alla sommità dell’isola. In meno di un quarto d’ora si è sulla spianata superiore, il cui livello si alza leggermente verso oriente sino alla testata rocciosa terminale, un tempo segnata da una croce di muratura, che ora è caduta. Si procede verso occidente alquanto faticosamente, per l’assenza, o quasi, di sentieri, per il suolo sassoso e pieno di cespugli spinosi, di cardi e di graminacee pungenti; qua e là guizza fulminea qualche innocua serpe o fugge per nascondersi nella sua tana qualche coniglio selvatico; nugole di cavallette dalle lunghe ali rosee empiono l’aria dei loro brevi voli metallici. Presto la spianata si avvalla alquanto, sino ad un magro boschetto di lentischi arborescenti, in mezzo ai quali si cela una pozza di torbida acqua piovana.

Ricordo che quando vi giunsi, in un caldo mattino di primavera avanzata, vidi fuggire improvvisamente dal boschetto un piccolo gregge spaurito di pecore, le quali si sparpagliarono subito nascondendosi fra i cespugli, per tornarvi allorché mi fui allontanato. Non si vedeva pastore che custodisse il gregge. L’isola è assolutamente disabitata e ora completamente incolta, dopo qualche sterile tentativo del passato. Il piccolo gregge senza pastore viene portato lassù da gente di Praja o di Fiuzzo ogni anno, al principio delle piogge autunnali; vive selvaggiamente, senza riparo, dissetandosi della poca acqua piovana che si raccoglie nella pozza fra i lentischi. Al principio della stagione arida il padrone del gregge sale a riprenderselo, perché le povere bestie morrebbero, nel luglio, di sete, e lo trova accresciuto dei piccoli nati durante l’esilio nell’isola che durante la stagione piovosa offre qualche risorsa di magro pascolo naturale.

La vegetazione si fa, a mano a mano che si procede, sempre più folta, senza però che sorga mai fra i cespugli un albero. Predominano il lentisco e la mortella che con i suoi fiori bianchi da nel maggio e al principio di giugno un aspetto graziosamente ridente alla spianata, mentre il « tasso » copre maggiormente i fianchi dell’isola. La spianata, dopo aver raggiunto l’ampiezza massima di circa centocinquanta metri in corrispondenza dello spigolo roccioso del fianco meridionale, si restringe sensibilmente e si muta in un pendio sempre più accentuato. All’esterno, quasi a picco sulla prua rocciosa, è la vecchia torre di vedetta che si scorge bene da Praja. La costruzione è in rovina; cumuli di rottami che ingombrano l’ingresso e l’interno. Si può nondimeno salire per mezzo di una scaletta di pietra alla sua sommità, che è occupata da un terrazzo, donde è meraviglioso lo spettacolo verso il mare aperto e verso la costiera di Praja e l’amplissimo giro del golfo di Policastro.

L’isola di Dino e quella, più piccola e più bassa, di Cirella, posta più a mezzogiorno lungo la stessa costa tirrenica, fra la punta dall’ugual nome che chiude a sud la pianura del Lao e quella di Diamante, sono le sole formazioni insulari degne di questo nome appartenente alla regione calabrese. Alcune altre formazioni insulari già esistenti lungo le coste tirreniche (quali l’isolotto di Scalea e quello di Santa Maria a Tropea) sono state in età storica recente riafferrate dalla terraferma in seguito ad un protendersi della costa stessa, della quale in realtà non erano esse pure che frammenti avulsi dal lavorìo delle acque marine.

Di altre isole, ora scomparse, lungo le coste calabresi parla la indulgente tradizione erudita locale, che è pure assai corriva a fabbricare etimologie, specialmente di origine classica, per spiegarne le denominazioni. Il nome di Dino, ad es., ha dato luogo alle più strane esercitazioni etimologiche; basti citare quella che fa derivare il nome da un curioso « aedina » cioè da un piccolo tempio (sarebbe stato, se mai, « aedicula ») che avrebbe dovuto trovarsi, dedicato a Venere, sulla sommità dell’isola. Meno cervellotica potrebbe parere la derivazione dalla voce greca δίνη, vortice marino, gorgo, una specie di Cariddi esistente un tempo nei pressi dell’isola o, piuttosto, della penisoletta. Dino è il nome pure già attribuito sin dai tempi antichi all’estremità settentrionale del promontorio di Scalea (capo e torre Dino) e « Porto di Dino » fu detta l’insenatura oggi segnata sulle carte col nome di porto di S. Nicola d’Arcella. Tutto ciò può far pensare ad un fatto naturale dal quale abbiano tratto il nome varie località vicine che ne ricevevano carattere geografico: l’isola o penisola, il promontorio, il porto del « gorgo».

L’isoletta dovette un tempo, allorché nella vita della Calabria il mare contava assai più che ora, essere molto meno ignorata e deserta di ciò che è attualmente. Il breve specchio di mare fra l’isola e il capo di Scalea col porto di Dino fu ancoraggio abbastanza noto per navi da traffico e da guerra dal secolo XIV sino a tutto il XVIII: la posizione stessa della Rocca di Praja già ricordata dice il notevole valore militare che al piccolo seno fu attribuito nella organizzazione della difesa costiera calabrese sin dall’età medioevale. Più tardi (secolo XVI) fu costruita dal governo spagnuolo di Napoli, specialmente per la difesa contro i barbareschi e per impedire ad essi di occupare l’isola e di stabilirvisi a danno della costa, la poderosa torre di Fiuzzo, una delle più importanti di tutto il sistema difensivo tirrenico calabrese. Essa ebbe, in varii periodi storici, funzioni guerresche importanti. L’ultimo episodio che la riguarda è del 1814, allorché sostenne per parecchi mesi una specie di assedio da parte di navi inglesi, proteggendo con i suoi cannoni alcuni legni mercantili genovesi che, per sfuggire all’inseguimento, erano andati ad arenarsi sulla spiaggia fra Praja e Fiuzzo. I muri della torre portano ancora numerose le tracce delle cannonate che le furono sparate allora addosso. Ora la torre compie la funzione più modesta di punto di riparo e di osservazione della R. Guardia di Finanza ed è un elemento pittoresco di prim’ordine nell’insieme del quadro della costa e dell’isola, con i suoi muri gialli che emergono al di là di una intricata vegetazione di ulivi, di fichi, di agavi e di lentischi.

Da LA SCUOLA, LA CALABRIA, IL MEZZOGIORNO, di Giuseppe Isnardi – Laterza

FOTO: Rete

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