
Dietro il girotondo delle ore e i punti salienti del paesaggio, si trovano parole e linguaggi: parole specializzate della liturgia, dell’«antico rituale», in contrasto con quelle dell’officina «che canta e chiacchiera»; parole anche di tutti coloro che, parlando lo stesso linguaggio, riconoscono di appartenere allo stesso mondo.
Il luogo si compie con le parole, con lo scambio allusivo di qualche parola d’ordine, nella convivenza e nell’intimità complice dei locutori.
Vincent Descombes scrive, a proposito della Francoise di Proust, che essa condivide e definisce un territorio «retorico» con tutti coloro che sono capaci di penetrare le sue ragioni, con tutti coloro i cui aforismi, il cui vocabolario e i cui tipi di argomentazione compongono una «cosmologia», ciò che il narratore della Ricerca chiama la «filosofia di Combray».
Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo.
L’ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi a «luoghi della memoria», vi occupano un posto circoscritto e specifico.
Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club vacanza e i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o a una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio «muto», un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile.
Aggiungiamo che la stessa cosa vale tanto per il nonluogo che per il luogo: esso non esiste mai sotto una forma pura; dei luoghi vi si ricompongono, delle relazioni vi si ricostituiscono, e le «astuzie millenarie» dell’«invenzione del quotidiano» e delle «arti del fare», di cui Michel de Certeau ha proposto analisi così sottili, vi possono aprire un cammino e dispiegarvi le proprie strategie. Luogo e nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente; palinsesti in cui si reinscrive incessantemente il gioco misto dell’identità e della relazione.
Tuttavia, i nonluoghi rappresentano l’epoca, ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando – con qualche conversione fra superficie, volume e distanza — le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra
immagine di se stesso.
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Da NONLUOGHI, di Marc Augé – Elèuthera