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La casa è lo spazio che costituisce e consente la identità familiare e, in quanto tale, è sottoposta a un sistema protettivo, i cui elementi materiali vengono situati nei punti nevralgici dell’architettura folklorica (erroneamente detta «spontanea»). Sulla sommità del tetto, nel punto di confluenza delle campate ricoperte da tegole, viene murata la base di un recipiente di terracotta, detta pignata o bumbula o gozza. Sulla porta d’ingresso sono situate maschere con corna o con la lingua da fuori con chiara funzione apotropaica, oppure un paio di corna di bovini che, in alcuni casi, è dato ritrovare anche sull’angolo della casa più rilevante nel contesto architettonico e urbanistico e quindi più «esposto» secondo l’ideologia magica.
Le forze ostili (spiriti maligni, sguardi invidiosi, flussi di fascinazione) trovano così un impatto e una barriera, mentre la casa si fonda come spazio protetto, la cui soglia è interdetta. Quand’anche una forza negativa esterna (ad esempio, le streghe o gli spiriti errabondi) riuscisse a oltrepassare la soglia, incontrerebbe un’altra barriera simbolica: situati dietro la porta d’ingresso — su cui spesso, nei paesi calabresi, si apre una piccola finestra-spioncino — una riproduzione in scala ridotta della scopa (ma si riscontra più frequentemente nelle abitazioni piccolo-borghesi), dei nodi intrecciati, dei coltelli con la lama rivolta in giù, rametti di palma e di ulivo benedetti. A questo punto la strega dovrebbe contare minuziosamente i fili della scopa o sciogliere i nodi, impiegando così tutta la notte, tempo a sua disposizione per la possibile esplicazione dell’influsso malefico; il percorso dello spirito verrebbe «tagliato» dal coltello che riconferma così, ulteriormente, la sua essenzialità nella strumentazione magico-folklorica. Già da questi cenni emerge la funzione della casa come fortilizio simbolico, in quanto sistema organico di protezione, che filtra il negativo esterno contrastandone il potere invadente. In quanto spazio protetto, dunque, la casa è luogo deputato per la vita e, per ciò stesso, contro la minaccia decisiva della morte, che ne è intrinseco polo dialettico e, quindi, parte integrante della «naturalità».
La naturalità nella cultura contadina tradizionale non viene intesa come mera dimensione biologica, momento interno, per così dire, della corporeità, ma piuttosto come ciclo di vita cosmica, i cui ritmi, stagionali e oggettivi, sono l’alternanza appunto di vita e di morte di tutte le individualità, di tutto l’esistente. Anche la morte violenta, ad esempio, viene vista dalla cultura folklorica come rientrante nella «naturalità», attraverso la mediazione del tema del destino, per cui l’esistenza è un ciclo temporale assegnato e previsto. L’interruzione violenta della vita rientra nell’ineluttabilità del destino e il ciclo naturale viene integrato da una diversa forma di esistenza; infatti si crede che lo spirito dell’ucciso continui ad aggirarsi nel mondo fino al compimento del presunto ciclo naturale. Ma questo aggirarsi nel luogo dell’uccisione è visto come segno di condanna; esso rinvia dialetticamente al valore etico e metastorico della casa, vista anche come luogo di ritorno pacificato, benefico e protettivo dei defunti.
Il luogo della morte lega in una certa misura lo spirito, orientandone il ritorno. Questa ci sembra la ragione profonda del disagio e della paura per le morti che avvengono fuori casa: uccisioni, morte improvvisa, incidenti, morte in ospedale. In esse c’è una carica negativa in più e una carica positiva in meno rispetto a quelle «naturalmente» compiutesi nel luogo deputato: la propria casa. Significativamente un’imprecazione calabrese, rilevata a Mileto, grida: Chimmu mori cu li scarpi alli pedi. Infatti, lo spirito del morto fuori casa, sia per ragioni di tecnica magico-rituale, che per il turbamento oggettivo che la sua morte può provocare nell’equilibrio cosmico, sia — ed è quel che più conta per la nostra direzione di ricerca — per l’indeterminatezza dello spazio della sua morte, comunque esterno alla casa, costituisce una presenza inquietante e minacciosa, che richiederà particolari e più intense strategie del cordoglio.
Già Amabile Guastella e Pitrè avevano notato, sul finire dell’’800, l’avversione dei contadini siciliani alla morte in ospedale, affermando che, non essendo li possibile praticare quelle regole magico-rituali capaci di affrettare la espulsione del morto dal regno dei vivi, lo spirito restava irretito nel mondo, producendo un regime di instabilità e di squilibrio nel rapporto tra i superstiti e il defunto.
È questa, verosimilmente, la ragione latente per cui anche oggi — anche se il ricovero in ospedale è senz’altro più diffuso — quando per il malato «non c’è più nulla da fare» i familiari preferiscono portarlo via per farlo morire a casa. Sullo sfondo, la convinzione che tra il morto e la propria casa si instauri un rapporto di presenza e di implicazione, che fa del morto un antenato e della casa un luogo di presenza e di continuità metastorica. Anche a questa dimensione è altresì rapportabile, a livello profondo, il desiderio diffuso fra gli emigrati di ritornare in paese da vecchi.
Il rapporto casa-morte è scandito da diversi momenti, dall’agonia all’uscita da casa del cadavere, che trovano nella liturgia domestica la loro plasmazione culturale. Proprio per il costitutivo inserimento della casa nella dialettica morte-vita, gli usi che si riferiscono all’ordine rituale della veglia funebre incidono sull’ordine quotidiano dell’organizzazione domestica: per cui, ad esempio, se la bara deve essere disposta in modo tale che il cadavere abbia i piedi rivolti verso la porta per agevolare l’inizio del viaggio, la collocazione quotidiana del letto dovrà essere disposta in senso contrario, altrimenti il «malagurio» sarà implicitamente presente.
Il rapporto organizzazione domestica quotidiana-sospensione rituale nel periodo di lutto è stato già rilevato, per la Sicilia, da Pitrè. “Seduto, o in letto, il cadavere si pone sempre di fronte all’uscio o co’ piedi che lo guardano, come per essere pronto all’uscita; e però, ad ogni buon fine, andando ad abitare una casa, non si colloca mai il letto in guisa che chi vi si adagia abbia le piante verso la porta; e si ha a maggior cura, nel rifarlo, che il capezzale eviti quella posizione, che è di sinistro augurio».
Salomone-Marino afferma che questa pratica non si osserva nel caso di morte di bambini.
Raffaele Lombardi Satriani ha rilevato a Polistena che il «letto non deve essere rivolto né con la testa e né con i piedi verso la porta”.
Perciò, analizzando gli usi funerari domestici si dovrà tener presente questa implicazione e considerare il rituale funerario come sospensione o capovolgimento del sistema organizzativo della vita familiare, che riceve nuova conferma e forza cogente proprio dalla sua drammatica negazione.
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Da “IL PONTE DI SAN GIACOMO”, di L.M Lombardi Satriani e Mariano Meligrana – Sellerio
Foto: Rete