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Tutte le operazioni magico-rituali tendenti ad agevolare l’agonia, e cioè a rendere meno tormentato il passaggio dalla vita alla morte, sono volte a evitare che l’anima resti impigliata nel corpo e, quindi, a eliminare ogni impedimento al viaggio dell’anima.
Nel nicastrese, durante l’agonia, si toglie dal collo del moribondo la catenina d’oro con la medaglietta o qualunque altro oggetto che possa «intraversare» l’uscita dell’anima dal corpo; viene sottolineato, così, il carattere fisico dell’impedimento, che rinvia alla concezione del corpo come sede dell’anima.
Pitrè, a proposito della localizzazione folklorica dell’anima nel corpo, rileva che «l’anima (arma) umana è propriamente nella bocca dello stomaco, la quale è detta perciò: vucca di l’arma, fuccedda di l’arma.
«L’anima vi è collocata come un oggetto materiale, ritta; se così non fosse, venendosi a morte, la non potrebbe uscir liberamente. Nelle lunghe agonie, nei casi di longevità, c’è da sospettare che essa sia collocata di traverso, e però impossibilitata a venir fuori, a lasciare il corpo. Dì persona che non muore mai, che è molesta agli altri odesi spesse volte dire che ha l’arma a traversu, o misa di traversa, e si tira con la destra una linea traversale nella zona epigastrica. Quest’anima, […] qualche volta si crede ferma alla bocca (l’arma ‘mpinta a li labbra) per significare che si è sofferentissimi e come vicini a morire [,..]».
L’anima nella visione folklorica, è essenzialmente fisicità; in quanto determinazione fisica esce dal corpo, si muove; non deve incontrare ostacoli, può ferirsi, raggiungere altri spazi, utilizzare nell’aldilà oggetti del mondo terreno.
Nel viaggio dell’anima lungo la via lattea (Violu di San làbbicu) già richiamato e sul quale avremo modo di ritornare, l’anima cammina «nuda e coi piedi scalzi» sul taglio delle spade; la fatica per la lunghezza del viaggio e il dolore per le ferite si materializzano nella sofferenza agonica, proiezione fenomenica della morte.
Numerose altre credenze, diffuse in molti paesi meridionali, sottintendono la fisicità dell’anima, prescrivendo la rimozione di ostacoli materiali o il compimento da parte dell’anima di azioni realistiche, pur se dense di pregnanza simbolica.
Ad esempio a Bella di Nicastro, nei momenti del trapasso, i familiari hanno cura di tenere la porta o qualche finestra semiaperta perchè si crede che altrimenti l’anima non potrebbe andarsene.
Anche a Vittoria, in Sicilia, quando muore qualcuno, si deve aprire subito una finestra per consentire all’anima di andare via.
Ancora a Vittoria si crede che l’anima debba lavarsi prima di andare nell’altro mondo e a tal fine si prepara una bacinella d’acqua.
L’inizio del viaggio coincide, secondo molte credenze, con il suono delle campane; convergono così la funzione di notificazione ai viventi dell’avvenuta morte e quella di segnale di inizio del viaggio dell’anima.
Nel caso in cui il suono dovesse mancare, si crede, nel cosentino, che l’anima non potrebbe intraprendere il viaggio «per l’eterna dimora». A Calabrò di Mileto, finché il morto non è vestito, non si possono suonare le campane, altrimenti se ne andrebbe «a nudda».
In alcuni paesi del siracusano chi sente annunziare a voce o a rintocchi di campana la morte di persona conosciuta esclama: Gloria e buon passagghiu (passaggio).
Al cadavere, in molti paesi, si usa legare i piedi, nella convinzione che le gambe divaricate renderebbero difficoltosa l’uscita dalla porta; ma, appena le campane «sonanu a mortu», è necessario slegarli, altrimenti il defunto non potrebbe camminare verso il cielo.
Pitrè riferisce che a Chiaromonte e a Vittoria si crede che l’anima del moribondo al quale si leghino i piedi, non potendo fare il viaggio di S. Giacomo di Galizia, resterà «come quella di Giuda in aria».
In alcuni paesi della Calabria Cosentina si sogliono lasciare scoperti i piedi al morto e, se è donna, sciolta la veste: ciò con l’idea che l’uno o l’altra debbano camminare non poco per raggiungere la sede dei morti.
Secondo una credenza palermitana, il distacco dell’anima dal corpo, specialmente di quella dei bambini, avviene durante la notte. «E però — prosegue Pitrè — quando qualcuno muore non bisogna portar via e molto meno seppellire il cadavere prima del domani dalla morte».
Anche la vestizione del cadavere è sottoposta a prescrizioni rituali finalizzate a rendere possibile l’inizio del viaggio, che coincide con il momento critico della separazione dalla casa della vita.
A Bella, subito dopo la morte una donna prende l’abito preparato per l’occasione e rivolta al morto gli dice: « Via, viastiti, cà ti ‘nd’ai da jiri, altrimenti si crede che il morto non si lascerebbe piegare né braccia, né gambe».
Anche a San Costantino di Briatico è stata registrata l’analoga procedura del colloquio con il morto. «Un discorso tipico è il seguente:
”A cummari Dominica, nui mo vi vestimu cà avimu ‘e iri a ‘na festa.
Iamu, irgiti ‘stu vrazzu u vi mentimu ‘a vesti nova. E iamu non ndi faciti arraggiari. N’autru pocu ‘i pacenzia cà stacimu furendu. Ccà, teniti ‘u muccaturi u vi stujati ‘u nasu. Mo nt’e mani vi mentimu i paternostri u pregati”».
A Mileto durante la vestizione gli amici conversano con il morto, nella convinzione che in questo modo il cadavere opporrà una minore resistenza. Il colloquio si svolge secondo precisi moduli linguistici, che scandiscono i diversi momenti della cerimonia: «Nda, cumpari… porgitimi ‘stu vrazzu… Accussì… e mò datimi l’atru. Bonn, bonu, accussì… Ah, ca pariti ‘nu zzitu… ‘ndà cà mò tutti li guai finiru mo no’ vi lamentati cchiù…».
Il colloquio con il cadavere è praticato attualmente anche a Mandaradoni di Briatico, dove si preannunziano al morto le diverse fasi della vestizione: “Mo’ ti mentu ‘i scarpi, mo’ ‘a cammisa» e così via.
Attraverso la parola viene «piegata» a relazione la datità irrelata del cadavere. La sua presenza pietrificata — testimonianza della perdita del sistema di relazioni — costituisce di per sé massa resistente e irriducibile; da qui l’esigenza culturale di ridare soggettività al morto inserendolo in un circuito comunicativo in cui la parola possa dispiegare tutta la sua efficacia persuasiva e le sue valenze magico-sacrali.
Alla riconquistata domesticità della relazione corrisponde la progressiva docilità del cadavere.
A tale orizzonte cerimoniale e al sistema di relazioni logiche che lo sostiene rinviano anche alcuni rituali di espulsione del morto dalla casa.
Ancora a Bella, nel sollevare la bara, bisogna ripetere due volte: «Jamunindi» chiamando il morto per nome, pena la sua maggiore pesantezza.
Analoga procedura vige a Bagnara, secondo quanto abbiamo già riportato.
Il pronunciare il nome del defunto ribadisce ulteriormente la necessità strumentale di restituire soggettività al cadavere; si tratta di tecniche di domesticazione di una presenza irrelata che rientrano nell’ampio orizzonte magico-religioso in cui nome e vita tendenzialmente coincidono.
La pronuncia, perentoria o colloquiale, del nome del defunto in tali procedure sembrerebbe contraddire, con la sua relativa disinvoltura, la circospezione linguistica che accompagna qualsiasi altro riferimento al morto nelle fasi successive, riflesso attenuato della tabuizzazione del nome presente in numerose culture primitive.
La pronuncia del nome del morto, al di fuori di queste o altre analoghe occasioni circoscritte e strumentali, infatti, richiede alcune cautele, come, ad esempio il premettere al nome del morto espressioni quali «la buon’anima di…, la sant’anima di…, la felice memoria di…».
In realtà, ci sembra che i nessi e il valore fondante o evocativo dei nome vengano riconfermati in ambedue le circostanze; la ragione della pronuncia «disinvolta» e quella della circospezione linguistica rinviano, pur nella loro divergenza, a un comune orizzonte di significato. Nel momento della vestizione e dell’allontanamento da casa del morto è culturalmente necessario, come abbiamo appena visto, restituire al cadavere vitalità attenuata e controllata e la parola, con la sua forza fondante, consente il raggiungimento di tale finalità. La precarietà del cadavere e la intenzionalità circoscritta dell’evocazione assicurano la provvisorietà di questa relazione, delimitandone ritualmente l’efficacia.
La pronuncia del nome, al di fuori di queste circostanze, riferendosi al morto divenuto ormai definitivamente spirito, instaurerebbe, invece, una situazione di pericolosità più difficilmente controllabile, nella quale la soggettività dello spirito potrebbe essere minacciosamente preponderante.
Identico è, comunque, il rapporto tra parola e realtà in questi pur differenziati ambiti rituali.
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Da IL PONE DI SAN GIACOMO, di Lombardi Satriani – Meligrana, Sellerio
FOTO: Rete