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Sta scritto che il re Salomone parlava con i quadrupedi, con gli uccelli, con i pesci e con i vermi.
Anch’io parlo con gli animali, seppure non con tutti, come sembra facesse il vecchio re, e ammetto la mia inferiorità su questo punto. Però parlo con alcune specie che conosco bene, e senza bisogno di un anello magico. In questo anzi io sono superiore al vecchio re, che senza il suo anello non avrebbe compreso neppure il linguaggio delle bestiole con cui aveva maggior dimestichezza. E quando non ebbe più il suo anello, il suo cuore persino s’indurì verso gli animali: sembra che Salomone abbia buttato via l’anello magico in un accesso d’ira, quando un usignolo gli svelò che una delle sue novecentonovantanove mogli amava un uomo più giovane. Così, per lo meno, racconta J. V. Widmann nella sua graziosa leggenda Il santo e gli animali.
Questo atto può essere stato assai saggio oppure assai sciocco da parte di Salomone, ma io, per conto mio, trovo che comunque non è sportivo servirsi di un anello magico nei rapporti con gli animali: anche senza ricorrere alla magia le creature viventi ci raccontano le storie più belle, cioè quelle vere. E in natura la verità è sempre assai più bella di tutto ciò che i nostri poeti, gli unici autentici maghi, possono anche soltanto immaginare.
Non è affatto strano che si possa comprendere il «vocabolario» di alcune specie ammali; noi possiamo anche parlare agli animali, per lo meno nell’ambito dei nostri mezzi fisici di espressione, e nella misura in cui, dal canto loro, gli animali son disposti a prendere contatto con noi. Bisogna però stare attenti a non sbagliare lingua, come una volta è accaduto al mio amico Alfred Seitz.
Un giorno, all’inizio dell’estate, stavamo proprio girando il nostro film sulle oche selvatiche lungo le sponde verdeggianti del Danubio.
Passavamo attraverso un paesaggio vergine e primordiale fatto di acqua, di prati e di canneti: lentamente, molto lentamente, perché il nostro ritmo di marcia corrispondeva alla massima velocità possibile per le tredici piccole anitre selvatiche (germani reali) e per le nove piccole oche selvatiche che ci seguivano in una lunga fila. Infine giungemmo in un bel posto pittoresco che Alfred ritenne adatto per il suo film. Egli cominciò subito a fare i preparativi e io mi accinsi ad assumere la direzione scientifica di tutta l’impresa. In quel momento il mio compito consisteva nello starmene sdraiato al sole su di un isolotto erboso. Alfred, immerso nell’acqua fino al ventre, stava appostato con la cinepresa, attentissimo e con la pazienza di un mulo.
Il sole ardeva, le libellule ronzavano, le rane gracidavano. A poco a poco io mi appisolai, e come da una gran lontananza udivo Alfred sgridare le anitre, che nuotando entravano sempre nell’inquadratura al momento sbagliato. Mentre lottavo pesantemente contro il sonno per decidermi ad alzarmi e a trascinar via gli anitroccoli, udii improvvisamente Alfred che esclamava tutto eccitato e ben deciso: «Rangangangang, rang… No, volevo dire, queghegheghegh, que, gheghegh… ». Egli si era sbagliato, rivolgendosi inavvertitamente alle anitre nel linguaggio delle oche selvatiche! Naturalmente il mio amico Alfred pronunciava quei suoni con il perfetto accento, rispettivamente, delle oche e delle anitre selvatiche, e proprio per questo l’interpolazione «No, volevo dire» suonava così irresistibilmente comica.
Gli animali non possiedono un linguaggio nel vero senso della parola, ma ogni individuo appartenente alle specie superiori, e soprattutto alle specie che vivono in società, come ad esempio le taccole o le oche selvatiche, possiede fin dalla nascita tutto un codice di segnali e di movimenti espressivi. E innata è tanto la capacità di emettere tali segnali quanto quella di «interpretarli correttamente», cioè di rispondervi in modo coerente e propizio alla conservazione della specie. Queste mie affermazioni, che si fondano su molte osservazioni e molti esperimenti, vengono a ridurre notevolmente la somiglianza che, a una considerazione superficiale dei fatti, sembra sussistere tra tutti i modi di comunicare degli animali e il linguaggio umano. Questa somiglianza si riduce ancora ulteriormente quando a poco a poco ci si rende conto che in tutte le sue manifestazioni sonore e mimiche l’animale non ha mai l’intenzione cosciente di influenzare con questi mezzi un suo simile: anche le oche e le anitre selvatiche, o le taccole, cresciute e allevate in isolamento, emettono tali segnali quando si trovano nello stato d’animo corrispondente. Si tratta dunque di un processo coatto e meccanico, che decisamente ha assai poco a che fare con il linguaggio umano.
Anche nel comportamento umano vi sono segni mimici che trasmettono automaticamente uno stato d’animo: quando si ha di fronte qualcuno che sbadiglia non si può fare a meno di sbadigliare anche noi, tanto per citare l’esempio più noto. Certo, questa tendenza contagiosa allo sbadiglio si trasmette attraverso segni mimici costituiti da stimoli facilmente percepibili e relativamente forti, il cui effetto non sembra poi troppo sorprendente; tuttavia, di solito, non occorrono segnali così grossolanamente percepibili per trasmettere uno stato d’animo; anzi è proprio caratteristica di questo processo l’estrema esiguità dei movimenti espressivi, quasi impercettibili e spesso inaccessibili all’osservazione cosciente, cui si può reagire. Il misterioso apparato trasmittente e ricevente che provvede alla comunicazione inconscia di sentimenti e affetti è molto antico, assai più antico della specie umana, e certamente esso si è andato atrofizzando con l’evolversi del nostro linguaggio verbale. L’uomo non ha bisogno di minimi movimenti che ne svelino le intenzioni per comunicare i suoi umori del momento, perché può esprimerli con le parole. Invece le taccole o i cani -sono costretti a «leggere negli occhi» di un loro simile ciò che questi s’accinge a fare.

Perciò gli animali superiori che vivono in società hanno per la comunicazione degli stati d’animo un apparato sia trasmittente sia ricevente assai più elaborato e specializzato di noi uomini, e tutti i suoni coi quali gli animali son soliti esprimersi, come il « chia » e il « chiù » delle taccole e i versi mono o polisillabici delle oche selvatiche, non sono comparabili al nostro linguaggio verbale, ma solo a quelle nostre estrinsecazioni che, come lo sbadiglio, l’aggrottamento della fronte, il riso e simili, vengono usate inconsciamente e inconsciamente comprese in virtù di un meccanismo innato.
Le « parole » dei diversi « linguaggi » ammali sono, per così dire, soltanto interiezioni.
Per quanto l’uomo possa disporre di numerose sfumature mimiche inconsce, neppure il più abile attore sarebbe capace di comunicare per via esclusivamente mimica la sua intenzione di andare a piedi o di volare come sanno fare le oche selvatiche, o di esprimere con simili mezzi il proposito di tornare a casa oppure di allontanarsi ulteriormente, cosa di cui è pienamente capace una taccola. Gli animali hanno un apparato trasmittente assai più efficace di quello dell’uomo, e lo stesso si può dire dell’apparato ricevente, che non solo è in grado di distinguere selettivamente un gran numero di segnali, ma, per attenersi allo stesso paragone, anche di captare una energia trasmittente assai inferiore alla nostra. Gli animali sono capaci di cogliere e di interpretare correttamente un numero incredibile di segnali minimi che per l’uomo sono del tutto impercettibili: se un membro di uno stormo di taccole che cerca cibo a terra se ne vola via solo solo per andare a lisciarsi le penne sul prossimo melo, nessuno degli altri lo degnerà neppure di un’occhiata; ma se si accinge a coprire una distanza più lunga, sarà seguito dal coniuge oppure da un gruppetto più consistente, a seconda della sua « autorità », pur non avendo pronunciato neppure un « chia ».
Un ottimo conoscitore delle taccole è in grado di cogliere il significato di questi impercettibili segnali, ma con altri animali ciò non è possibile.
Già l’« apparato ricevente » del cane sorpassa di gran lunga le nostre capacità in campo analogo: ogni conoscitore dei cani sa bene con quale incredibile sicurezza un cane fedele riconosce se il suo padrone esce di camera diretto a una qualche meta che per l’animale non ha alcun interesse, o se invece si accinge all’agognata passeggiatina. Ad esempio la mia cagna da guardia Tito, tris-trisavola del cane che posseggo ora, individuava assai bene, in maniera «telepatica», le persone e le circostanze che mi davano ai nervi, e nulla poteva impedirle di infliggere un morso delicato ma sicuro nel deretano di tali individui. Era particolarmente pericoloso per un anziano signore autoritario assumere nei miei riguardi, in una discussione, il noto atteggiamento del «comunque tu sei troppo giovane»: appena un estraneo aveva manifestato un parere del genere, lo si vedeva portare spaventato la mano nel luogo dove Tito l’aveva puntualmente castigato.
Io non riuscivo proprio a capire come ciò potesse inesorabilmente accadere anche quando la cagna se ne stava sotto il tavolo, e quindi non poteva vedere il viso e i gesti delle persone; come faceva dunque a sapere chi parlava in quel momento, e con chi, e chi era che la pensava diversamente da me? Naturalmente questa sottile comprensione dell’umore momentaneo del padrone in realtà non dipende da una forma di «telepatia»: molti animali hanno la capacità di percepire anche movimenti sorprendentemente minuti, che sfuggono all’occhio umano; e un cane, che con l’attenzione più concentrata vuol essere di servizio al suo padrone, e che letteralmente pende in permanenza dalle sue labbra, si serve di questa facoltà in modo davvero mirabile.
Ma anche i cavalli raggiungono risultati considerevoli sotto questo aspetto, e non sarà quindi fuori luogo parlare qui di alcuni virtuosismi che hanno procurato a certi animali una notevole fama.
Vi sono stati dei cani pensanti, e anche dei cavalli pensanti, che sapevano perfino estrarre radici cubiche, e il cane prodigio Rolf, un terrier Airedale, è giunto al punto di dettare il proprio testamento alla padrona. Tutti questi animali che sanno contare, parlare e pensare, «parlano» battendo dei colpi o emettendo latrati che hanno un significato stabilito secondo una specie di alfabeto Morse. Le loro prestazioni sono, a prima vista, veramente sorprendenti. Vi mettono davanti il bravo cavallo, o il bravo bassotto, o quel che sia, e vi invitano a porgli voi stessi le domande; voi chiedete al cane quanto fa due per due, il cane vi guarda intensamente negli occhi e abbaia quattro volte. Ancora più straordinaria è la bravura del cavallo, perché, per rispondere coi suoi colpi di zoccolo, sembra che egli non abbia neppure bisogno di guardarvi; poiché i cavalli, che fruiscono di una cosiddetta visione indiretta, possono anche vedere in una direzione su cui non fissano propriamente lo sguardo, e sono in grado di cogliere con estrema precisione anche movimenti minimi. Siete dunque voi stessi che comunicate involontariamente all’animale «pensante» la giusta soluzione mediante piccoli segni impercettibili, tanto è vero che, se voi non conoscete la soluzione del problema, la povera bestia continuerà disperatamente ad abbaiare o a battere colpi con la zampa in attesa che le si dica «basta».
Infatti pochissime persone riescono, anche imponendosi il massimo autocontrollo, a trattenere questi segni inconsci e involontari.
Che sia soltanto l’uomo a trovare la soluzione e a comunicarla all’animale «pensante» lo dimostrò una volta un mio collega con un bassotto che era divenuto assai celebre e che apparteneva a un’anziana signora. Egli adottò perfidamente il seguente metodo: prese una tavoletta consistente di tanti strati sovrapposti di carta trasparente; sulla facciata anteriore era stampato in caratteri grossi un semplice problema aritmetico, ma sulla facciata posteriore si poteva leggere in trasparenza un altro problema. Quando la signora presentava al suo cane queste tavolette, egli abbaiava sempre un numero di volte corrispondente alla soluzione dei problemi letti dalla sua padrona, ma non a quella dei problemi scritti sulla facciata mostrata all’animale. Alla fine il mio amico presentò al bassotto un cartoncino impregnato dell’odore di una cagna in fregola. L’animale lo fiutò tutto eccitato, agitando la coda: lui riconosceva benissimo quell’odore, ma non la sua padrona, e quando questa chiese al cane che odore avesse quel pezzo di carta, esso rispose nel suo alfabeto Morse: «Formaggio»!
L’enorme sensibilità di certi animali che colgono movimenti espressivi quasi impercettibili, come ad esempio del cane che percepisce i sentimenti amichevoli o ostili del suo padrone verso un’altra persona, è una cosa veramente straordinaria, e non è quindi strano che l’osservatore ingenuo, portato ad antropomorfizzare, creda che una creatura, capace « perfino » di indovinare dei pensieri così intimi e inespressi, debba «a maggior ragione» comprendere ogni vera e propria parola pronunciata dal suo padrone.
A questo proposito si dimentica però che negli animali sociali la capacità di comprendere anche i più lievi movimenti espressivi è così enormemente sviluppata proprio perché essi non comprendono la parola, proprio perché non sono in grado di parlare. Un animale non dice mai qualcosa con l’espressa intenzione di provocare un determinato comportamento da parte di un suo simile: tutte le manifestazioni mimiche e sonore che trasmettono un’«informazione», per il «trasmittente» hanno valore di semplici interiezioni. Quando un cane vi tocca col muso, guaisce, corre alla porta e la gratta, oppure pone le zampe sul lavandino sotto il getto dell’acqua e si guarda intorno con aria d’attesa, esso si esprime in un linguaggio assai più umano che non una taccola o un’oca selvatica, anche se queste, con i loro versi assai differenziati e pertinenti allo scopo, possono «dire» molte cose e farsi « comprendere » notevolmente bene.
Il cane che vuole indurvi ad aprire la porta o il rubinetto cerca coscientemente e volontariamente di influenzare il suo amico uomo; invece la taccola o l’oca selvatica esprimono del tutto inconsapevolmente il proprio stato d’animo, e i vari « chiù » o « chia » o i suoni con cui comunicano ai loro simili l’esistenza di un pericolo sfuggono loro di bocca in modo del tutto involontario, tanto è vero che non possono fare a meno di emetterli anche se sono da sole. Inoltre il comportamento del cane nelle circostanze sopra descritte è frutto di apprendimento e dettato da una vera comprensione della situazione in cui si trova, mentre l’uccello « parla » solo in virtù di un meccanismo innato ed ereditario.
Ogni singolo cane ha metodi diversi per farsi capire dal suo padrone, e anche lo stesso cane per raggiungere questo scopo adotterà sistemi diversi secondo le varie situazioni. Per esempio la mia cagna Stasi una volta, non avendo digerito un certo cibo, ebbe bisogno di «uscire» durante la notte; io in quell’epoca ero sovraccarico di lavoro e avevo un sonno molto profondo, e quindi lei non riuscì a svegliarmi con i soliti segnali cui ricorreva per comunicarmi i suoi bisogni; i suoi gemiti e i suoi colpetti di muso evidentemente non avevano sortito altro effetto che di farmi meglio ravvoltolare fra le coperte; allora rapidamente decise di saltarmi addosso e con le zampe anteriori mi tirò letteralmente giù dal letto.
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Da “L’ANELLO DI RE SALOMONE”, di K. Lorenz – Fabbri Editore
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