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Le nostre conoscenze sulla religione etrusca riflettono bene la collocazione ambigua dell’Etruria a mezza via fra le civiltà centrali e quelle periferiche del mondo classico. In quanto cultura che ha fortemente condizionato quella romana, la civiltà etrusca fa a buon diritto parte delle culture significative del mondo classico e, come tale, di essa abbiamo informazioni «dirette» di natura politico-religiosa, attraverso cioè fonti romane. Ciò è dovuto all’interesse, politico prima ancora che culturale e filosofico, che Roma ha nutrito per un aspetto centrale della religiosità tirrenica, l’Etrusca disciplina, come i Romani chiamarono l’aruspicina etrusca, a proposito della quale ci hanno tramandato un’importante serie di notizie e persino il testo di alcuni responsi di aruspici. In quanto cultura «periferica» rispetto a quella greca, dalla quale è stata quasi più di ogni altra influenzata, essa divide la sorte delle culture periferiche della classicità, il cui recupero moderno è avvenuto essenzialmente per via archeologica: le linee fondamentali della religione (come della storia e della cultura) degli Etruschi sono state infatti ricostruite grazie ad un complesso e sistematico lavoro di filologia archeologica ed epigrafico-linguistica, che ha elaborato dati provenienti da scavi in santuari, abitati e sepolcri, dati iconografici tratti da figurazioni pertinenti a decorazioni templari, affreschi, vasi, candelabri, specchi e ciste, e dati epigrafici ed antiquari relativi ad oggetti votivi e a materiali di uso sia sacro che quotidiano. In tale ricostruzione largo spazio – anche se in forme caute e sorvegliate – è stato dato alle forti analogie riscontrate con i complessi di miti, credenze e rituali del mondo greco, magnogreco, romano e italico, aree con le quali l’Etruria è stata in stretto contatto e ha intrecciato sin dalla preistoria rapporti di scambio sia commerciale sia culturale, ricevendone o esercitandovi significative influenze.

Due documenti del II secolo a.C
Va tuttavia sottolineato che, attraverso fortunose vicende, sono giunti fino a noi due documenti eccezionali, senza confronti per il mondo classico, che per lo studioso della religione etrusca risultano preziosi in virtù del loro contenuto, ben riconoscibile ad onta delle note difficoltà ermeneutiche poste dalla lingua etrusca: il liber linteus di Zagabria, un calendario rituale compilato nel II secolo a.C. in area cortonese o perugina, tagliato e riadoperato per far bende di una mummia in Egitto, e il Fegato di Piacenza, un modellino di bronzo di fegato di pecora per uso aruspicino, datato anch’esso al II secolo a.C., recante indicazioni epigrafiche della pertinenza dei vari spazi sulla superficie dell’organo alle singole divinità in base a corrispondenze magiche tra la partizione degli spazi celesti (e inferi) e l’organo dell’animale. Questi due documenti sono affiancati da altri testi etruschi, di difficile interpretazione, ma di sicuro significato religioso, quali il Tegolo di Capua, un rituale relativo alla sfera infera per i mesi da marzo a ottobre, inciso su di una grande tegola rinvenuta nella capitale della Campania etrusca (V secolo a.C.), o la Lamina di Santa Marinella, testo forse oracolare da un santuario del territorio cerite (fine del VI secolo a.C.): le più lunghe iscrizioni etrusche conservateci, ricordiamolo, hanno tutte carattere religioso.

La scoperta del santuario di Tarquinia
Il recupero dei primi documenti certi della religione protostorica etrusca è un inatteso risultato degli ultimi anni della ricerca archeologica. La scoperta, resa nota nel 1986, di un luogo di culto di indubbio carattere anche «politico» (ne è stata proposta l’identificazione con una curia, istituzione politico-religiosa propria dell’arcaismo romano, ma di cui è nota l’esistenza in Etruria grazie ad un’epigrafe latina di età tiberiana, che menziona una curia Aesernia di Cerveteri), operante fra l’Età del Bronzo finale (X secolo a.C.) e l’età ellenistica (III secolo a.C.) nel cuore della città di Tarquinia, ha fornito nuove e importanti informazioni sulla religione primitiva d’Etruria, anteriormente alla fase di ellenizzazione dell’VIII-VII secolo a.C. La sede originaria di questo culto è una profonda cavità del suolo, oggetto di offerte cruente e incruente, che ha restituito notevoli documenti circa la possibile esistenza di sacrifici umani infantili. Successivamente (VII secolo a.C.), attorno alla cavità sono sorti un edificio di culto con altari collegati alla cavità, e una grande piazza trapezoidale, probabile sede di riti e feste di carattere collettivo; la deposizione di armi bronzee da parata, rese ritualmente inservibili, documenta l’esistenza di riti simili a quelli romani collegati con Iuppiter Feretrius. Questo primitivo santuario tarquiniese ha consentito di valorizzare la scoperta, fatta in precedenza, ma oggetto di interpretazioni controverse, di materiali dell’Età del Ferro (IX-VII secolo a.C.) nello scavo di altri santuari etruschi di età storica, anche extraurbani, a Veio e nella stessa Tarquinia: grazie a questo contesto sacrale così antico, ci viene finalmente documentata in maniera tangibile l’esistenza di culti collettivi protostorici, di norma difficilmente individuabili per la normale assenza sui materiali archeologici di specifici «segni» rivelatori della sfera sacrale, fatta ovviamente eccezione per il rituale funerario.
L’aspetto mostruoso e animalesco delle divinità
Del pari, le rare testimonianze iconografiche relative all’immaginario religioso etrusco di età protostorica registrano l’esistenza di una rappresentazione mostruosa, o comunque non antropomorfica, della divinità. Coperchi di cinerari, come quello notissimo di Pontecagnano (IX secolo a.C.), in cui è probabile la raffigurazione della coppia infera dalle estremità e dal volto allungati, colta nell’atto di un abbraccio, o quello di Bisenzio (VIII secolo a.C.), nel quale si legge la celebrazione di una danza ritmica attorno ad un essere gigantesco dalle fattezze mostruose (un dio piuttosto che un orso, come pure è stato proposto), sembrano provare che in fase anteriore all’ellenizzazione le divinità connesse con la morte avessero aspetto terribile e «animalesco». Tale carattere è noto nella tradizione etrusca di epoca storica nel mito del mostro Olta, emerso dal suolo nel territorio di Volsinii e ucciso da un fulmine evocato da Porsenna; lo stesso tratto mostruoso e animalesco sarebbe sopravvissuto nelle infere larvaee nei pure sotterranei dei indigetes -pisciculi della tradizione romana. Non c’è dubbio che in questo strato più antico della religione etrusca un ruolo fondamentale fosse attribuito a forze elementari della natura, insediate nel cielo, nella terra e nell’oltretomba, non antropomorfizzate e di aspetto terrifico, spesso ambigue nella loro connotazione sessuale: questa arcaicissima ambiguità divina, di sesso come di manifestazione «concreta», si conserverà a lungo, non solo nella cerchia dei «demoni» che fanno da corteggio in epoca storica alle divinità principali etrusche, ma addirittura nel deus Etruriae princeps, quel Velthumna-Vortumnus dio del santuario federale di Volsinii, che la celebre descrizione properziana, malgrado gli inevitabili evemerismi ellenistici, ci presenta proteiforme e sessualmente ambiguo.

Il culto domestico e della riproduzione
A quest’epoca va anche attribuita la formazione di uno degli aspetti centrali della religiosità etrusca (che essa peraltro divide con quella latina), quello relativo al culto della capacità generativa maschile e femminile e alla costituzione delle forme dominanti della religione domestica, con la evidente finalità della formazione delle élite gentilizie e del loro potere. Testi tardi, tanto celebri quanto controversi, contenenti indubbi resti delle credenze etrusche filtrate attraverso l’aruspicina, insistono sia sulla inesplicabilità (dei involuti) e sull’oscurità (dei opertanei) delle forze divine, sia sulla loro molteplicità (dei complices) e appartenenza ad entrambi i sessi (dei cosentes), sia infine sulla presenza di divinità «inferiori» (forse divinità «scadute») con nomi quali Genii, Favores o Lares. In questi ultimi, come nella incerta caratterizzazione di «gruppi di divinità» e nella presenza di «demoni» del mondo infero o del corteggio di Twran-Afrodite designati con il nome di losa, forse collegato a quello del latino lar, e spesso seguito da una specificazione (ad esempio Lasa Vecuvia, latinizzata, come vedremo avanti, in Nympha Begoe), si celano tanto gli strati più remoti della religione collettiva quanto le radici del culto domestico, nel quale occupano un posto centrale gli antenati eroizzati e la divinizzazione della capacità generativa del paterfamilias, come nei latini lares e genii
Le interferenze religiose con il mondo latino e italico
Riti matrimoniali e di passaggio e religione degli antenati, in altre parole gli strati più arcaici del culto, sono forse tra i principali responsabili di un singolare quanto esteso fenomeno di interferenza religiosa tra ambienti etruschi e ambienti latini, falisci e umbri, che ha consentito l’ingresso nel pantheon etrusco di un cospicuo numero di divinità latine e italiche di importanza tutt’altro che secondaria in questa fase ben anteriore all’arrivo di forti influssi ellenici e all’estensione dell’egemonia culturale e politica etrusca su gran parte della penisola (VIII-VII secolo a.C.). Derivano infatti da area latina (ma per alcune non è esclusa un’origine umbro-sabina) alcune fra le divinità etrusche collegate appunto alle forze riproduttive dell’uomo e della natura, al paesaggio primordiale e al più antico ciclo agrario, e cioè Meneva-Mmerva., Maris-Mars, Nethuns-Neptunus, Uni-Iuno, Vetis/Veive-Vediovìs, Satre-Saturnus, Selvans-Silvanus, Ana-Anna Perenna, laddove provengono da area falisca Suris-Soranus eda area umbra Vesuna.
Con questi stessi ambienti l’Etruria divide altri elementi di natura religiosa. In primo luogo ricordiamo l’uso, di notevole arcaicità, di teonimi doppi, come in latino Ianus Quirinus o Panda Cela, in umbro Torsa Iovia e in osco Anaceta Cerria, uso destinato a denotare specializzazioni funzionali o ampie sfere contraddistinte da coppie oppositive: così l’etrusco Tinia Calusna designa il Tinia di Calu, ovvero la «potestà» di Tinia-Zeus attiva nella sfera infera propria del dio catactonio Calu. Pure di grande importanza appare l’esistenza di un fondo di credenze, comune all’Etruria, al Lazio ed all’area umbro-sabina, relativo all’auspicio e all’augurio: non solo l’Etruria mostra di conoscere ed usare le pratiche augurali nella loro più vasta accezione, cioè di disciplina mantica che costituisce uno dei più importanti strumenti di relazione tra l’uomo ela divinità, legittima il potere e organizza gli spazi e il sapere tecnico primitivo, ma è proprio partendo dai fondamenti «teorici» dell’auspicio che gli Etruschi hanno elaborato la mantica che fu loro propria, l’aruspicina.
Una religione collettiva e domestica
Tutti questi fenomeni contribuiscono a delineare per l’età più remota, tra la fine del II e gli inizi del I millennio, una situazione culturale molto interessante per le sue conseguenze sul terreno della religione. In essa l’elemento etrusco appare in stretto contatto sociale e culturale, attraverso processi di integrazione matrimoniale e «politica», con gli altri popoli italici contermini e soprattutto con i Latini, rispetto ai quali, proprio perché tributario sul piano religioso, presumibilmente si trova in posizione, se non subalterna, almeno marginale, e dotata comunque di tale ricettività da consentire un travaso di esperienze religiose di primissimo piano dall’esterno verso l’interno. Su questa primitiva mentalità religiosa, centrata sulle forze elementari della natura e della riproduzione e in qualche modo condivisa dalle altre popolazioni dell’Italia antica con le quali gli Etruschi erano in contatto, si sviluppa una religione sia collettiva che domestica posta a fondamento della società gentilizia della prima età storica.
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Da “Storia delle Religioni” 8 – La Biblioteca di Repubblica
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