L’opera di oggi: “Il re dei Lestrigoni chiama a raccolta”

“Il re dei Lestrigoni chiama a raccolta”, terzo pannello con scena tratta dall’Odissea – Musei Vaticani

Per quanto ciò possa apparire strano, sono solo due le grandi tradizioni figurative che hanno affrontato il tema del rapporto (conflittuale, o viceversa pacificato e simbiotico) fra l’uomo e la natura: l’arte occidentale e l’arte cinese (soprattutto quella di matrice buddhista e taoista), con le conseguenze che l’arte cinese, nel corso del tempo, ha determinato nell’arte giapponese, in primo luogo per l’influenza della corrente di cultura buddhista in Cina denominata chan, poi divenuta, in Giappone, zen.

Senonché, la distanza umana e filosofica fra le due tradizioni è stata immensa: obbedendo ai principi delle filosofie buddhista e taoista, l’arte cinese ha inseguito una fusione diremo simpatetica fra l’essere umano e ciò che lo circonda, una ricerca di armonia che fa dell’uomo nulla più che un elemento pulsante nel grande respiro della natura. L’arte occidentale, a partire da Socrate (e ricordiamo che Socrate è vissuto quasi contemporaneamente a Buddha), è cresciuta sul desiderio dell’uomo di conoscere, di misurare, dunque di padroneggiare, una natura avvertita come altro-da-sé, meravigliosa ma – se non controllata – avversa, o addirittura nemica.

Per rappresentare la natura, l’arte occidentale si è ispirata a due principi fondamentali: o all’uso della Ragione, un uso che avrebbe portato, dopo secoli, all’«invenzione» della prospettiva lineare; o al senso del Tragico (a partire dalla tragedia greca), al senso cioè di un conflitto, o di un disagio, che non potrà essere mai risolto. È il Dna dell’Occidente, questo. Socrate ne è stato il padre e insieme un pionieristico interprete, l’edificatore della base di una montagna di pensiero che ha fronteggiato per millenni la grandiosamontagna costruita dal buddhismo.

Figurativamente parlando, utilizzando cioè come strumento di indagine quella particolare forma di speculazione che è il «pensiero in figura», tutto comincia, per noi, con la pittura romana, in mancanza di capitoli fondamentali della rappresentazione figurativa che certamente hanno trovato vita nella pittura greca. Alle soglie dell’era cristiana, due manifestazioni, ravvicinate nel tempo, della pittura maturata nell’era repubblicana mostrano chiaramente le opzioni primarie, si direbbe contrapposte, dell’animo occidentale.

Sul versante drammatico (cioè implicitamente tragico) di una natura avvolgente e avventurosa, probabilmente nemica (il contrario – dunque – della natura rappresentata dall’arte cinese), otto episodi dell’Odissea ci portano nell’aria calda e palpitante, umida di nebbie, di un Mediterraneo immemorabile nel quale l’umanità lotta con la natura, o usa la natura per sopravvivere. Vediamo il riquadro convenzionalmente intitolato Il re dei Lestrigoni chiama a raccolta la sita gente per scacciare Ulisse e i suoi compagni. Il promontorio di un golfo balugina nella luce mattutina. Lo spazio è avvolgente e offuscato, le forme degli scogli sono appena suggerite, ma la pittura spalanca il suo incanto su un mondo evocato con fremente e trepida poesia. Alcuni degli indaffarati e ansiosi protagonisti sono indicati con i loro nomi in caratteri greci, non sempre corretti. Ciò lascia intendere che l’artista forse è di origine greca, e che dunque, stilisticamente e immaginativamente parlando, siamo al limen che congiunge l’arte ellenistica con l’arte romana.

Rispetto ai capolavori certamente prodotti dalla pittura greca (gli equivalenti «bidimensionali» dei sublimi lasciti scultorei che sono giunti fino a noi), questa è probabilmente da ritenere un’opera di maniera, il che ci fa disperare sulla perdita di una bellezza irreparabilmente ingoiata dalla gora del tempo. Ma l’artista, o l’artigiano, degli episodi dell’Odissea non manca di una sua genialità. Non ci si accorge normalmente di quanto quel che resta di questo capitolo della pittura romana sia nello stesso tempo archetipo della rappresentazione occidentale moderna, e però anche pensato su chiavi poetiche assai distanti da quelle di tutta la pittura più vicina a noi.

Il senso della continuità è dato da un gusto della narrazione quasi completamente estraneo, per esempio, alla pittura cinese antica, e totalmente estraneo alla pittura bizantina. Un gusto della narrazione assolutamente primario per il «pensiero in figura» occidentale, una volontà di racconto che infatti risulterà fondamentale per la rappresentazione dei temi sacri della cristianità occidentale, in totale contrasto con la chiave «rivelativa» e ieratica delle immagini elaborate dal cristianesimo orientale.

Ammirando invece la straordinaria originalità di questa specifica visione pittorica romana, si ha l’impressione che l’artista – anche nell’episodio che stiamo commentando – frapponga sempre fra sé e il tema della sua narrazione una specie di filtro ottico, una nebbia drogata dovuta, si direbbe, alla volontà di tenere la realtà immaginata a rispettosa distanza dalla verità ottica e propriamente «reale». È una scelta poetica, indubitabilmente. Una scelta poetica del tutto contrapposta a quella della pittura prerinascimentale e rinascimentale, che invece ha convogliato ogni sua energia, e il suo stesso senso del tragico, nel tentativo di fare della pittura lo specchio fedele del mondo. Nella pittura romana, il senso del tragico è distanziante e per così dire distanziato. Eco leggera e fuggevole, ancorché talora spietata, di un mondo pagano di cui va colta l’energia poetica, ma che è opportuno allontanare dai suoi riferimenti appunto «realistici».

FLAVIO CAROLI

Da “IL VOLTO E L’ANIMA DELLA NATURA”, di Flavio Caroli –  Mondadori

FOTO: Rete

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