Il monachesimo basiliano e la grecità medioevale nel Mezzogiorno 1

 

Cenobio basiliano a San Giovanni a Piro, Monte Bulgheria

Quasi tutti gli studiosi, che sulla scia del Lenormant, del Batiffol e del Diehl hanno indagato le cause della bizantinizzazione del Mezzogiorno italiano nell’età medioevale, hanno, tra i fattori primi di questo fenomeno, posto l’azione sottile, ma nel tempo stesso profonda del monachesimo basiliano. Senza dubbio, alcuni di questi storici hanno talora un po’ forzato la mano e sopravvalutato l’opera monastica; ma da questo a sminuirla, fin quasi a renderla nulla, come di recente si è espresso il Ménager, il divario è troppo sensibile.

Di sicuro c’è che questo imponente fenomeno è ancora ben lontano dall’essere perfettamente chiarito, mentre esso manifesta tutt’oggi le sue tracce e in qualche più riposta piega dell’anima meridionale e in relitti, più o meno notevoli, rintracciabili nei dialetti, nella toponomastica e in numerose chiese che vantano tradizioni, titoli e forme di tipo bizantino.

Per questa ragione, l’indagine è sempre aperta, e vale la pena di guardarla, partendo dalla nozione esatta dei fatti storici, così come si presentano nella loro successione cronologica, in maniera da avviare ad una migliore e più chiara visione dell’affascinante problema.

Considerando dunque le vicende svoltesi nelle regioni che, a parte la Sicilia, costituiscono l’estremo lembo meridionale della penisola italiana, possiamo notare come, dopo la conquista giustinianea, conclusa dalla lunga e durissima guerra gotica, tutta l’Italia meridionale sia divenuta bizantina. La successiva calata dei longobardi però ben presto lasciò all’impero d’Oriente, attraverso più o meno brevi parentesi, la Calabria meridionale e centrale e la Terra d’Otranto, perché tutta la zona che si estende dal corso del Crati alla Campania ed alla Puglia venne assorbita dal ducato di Benevento, che si scisse poi nel principato omonimo e nell’altro di Salerno. E ciò fino a quando l’azione militare di Niceforo Foca riuscì a strappare ai longobardi la Calabria settentrionale, la Lucania centrale ed orientale e la Puglia, sia pure con incerti ed ondeggianti confini, ma non la Lucania occidentale, che rimase sempre longobarda fino alla conquista normanna.

In conseguenza, si può dire che se la ellenizzazione della Calabria meridionale e della Terra d’Otranto, tranne brevi interruzioni in possesso dell’impero dal 554 all’arrivo dei Normanni, non può stupire, ci colpisce invece la grecità che si nota nella Calabria settentrionale, nella Lucania centrale ed orientale e nella Puglia, bizantine dall’886 alla metà del secolo XI, e maggiormente quella che appare imponente, e per quanto arginata in parte nella seconda metà del secolo XI dall’arcivescovo Alfano I di Salerno, era ancora in vita nei tempi immediatamente dopo il Concilio di Trento, nella Lucania occidentale, che pure bizantina non fu mai. A tale riguardo, si può ricordare il significativo fatto che intorno al 1572 il vescovo di Policastro Ferdinando Spinelli ingiunse alle chiese ed ai sacerdoti greci della sua diocesi di conformarsi in tutto al rito latino, tranne qualche uso del tutto particolare che poteva rimanere come ricordo del rito bizantino, mentre più drasticamente il vescovo Bonito della diocesi di Capaccio ordinava di bruciare i libri sacri ed i codici e le carte greche del monastero di S. Nicola presso Cuccare Vetere.

Per modo che, mentre la grecità delle due prime regioni ricordate è dovuta, a parte il monachesimo basiliano, all’azione del dominio stesso e di tutto quanto a questo era connesso, nonché del clero secolare, fattori che, sia pure per un periodo di tempo più breve, hanno agito similmente sulle altre regioni menzionate in seguito, la grecità della Lucania occidentale postula altre cause. Così anche il Rohlfs, tutt’altro che sospetto al riguardo, mette l’ellenizzazione della zona ai confini calabro-lucano-campani, dalla quale provengono numerosi documenti redatti in greco anche in età tarda, in relazione con speciali motivi che suggerisce sarebbe opportuno ricercare, ma che in ogni maniera non hanno nulla a vedere con quelli operanti nella Calabria meridionale e nella Terra d’Otranto.

Il motivo che subito ci si presenta innanzi, accanto a qualche influenza derivata dai commerci e dai traffici o proveniente dai prossimi territori più a lungo bizantini, sembra proprio offerto dall’intensa azione svolta dal monachesimo basiliano anche in quei luoghi. Per cui, alla domanda se questo andasse a ricercare le sue sedi in plaghe già ellenizzate, risponderei che tale ellenizzazione si deve attribuire nella massima parte alla espansione monastica che in talune zone accompagnò e in altre precedette e preparò la dominazione bizantina, la quale invece, ripeto, in qualche regione non ebbe mai a verificarsi.

Il primo afflusso ascetico basiliano penso che abbia seguito di pari passo le armate condotte da Belisario e da Narsete contro i goti ariani in una guerra che, come tutte le altre imprese militari intraprese dall’impero di Oriente, aveva senza dubbio un carattere religioso. In seguito probabilmente altri nuclei monastici affluirono nel mezzogiorno italiano dalla penisola balcanica, sconvolta alla fine del VI secolo dall’invasione avara, mentre nella metà del secolo seguente si aveva un più vasto movimento immigratorio. Il quale era costituito da quei monaci costretti ad abbandonare le regioni del medio Oriente e l’Egitto, su cui si abbatteva la conquista araba, e nello stesso tempo a sfuggire la politica religiosa inaugurata dall’imperatore Eraclio, fautore dell’eresia monotelita.

Nella prima metà del secolo VIII, era ancora la politica religiosa bizantina a spingere altre ondate monastiche verso i porti italiani: verosimilmente dell’Italia longobarda. Era, questa, la conseguenza delle lotte iconoclastiche, delle quali un tempo si è esagerata l’importanza quale causa di una stragrande immigrazione di monaci in terra italiana. A questo riguardo, bisogna tenere presente che il monachesimo bizantino non potè dirigersi alle regioni italiane sottoposte al basileus, dove parimenti vigevano le leggi contro le immagini. Abbiamo infatti notizia di un vescovo di Otranto iconoclasta, nonché in Sicilia dell’arresto di un ambasciatore pontificio diretto a Costantinopoli, e della deportazione di alcuni monaci nell’isola di Lipari, mentre la diffusione dell’eresia viene implicitamente provata dall’osservazione che il culto delle immagini venne ripristinato nell’isola nel quarto decennio del secolo IX. Fatti tutti che provocarono la viva reazione dei pontefici romani agli editti di Leone Isaurico e dei suoi successori e a cui seguirono, come rappresaglia, l’aggregazione della diocesi della Sicilia e della Calabria al patriarcato di Costantinopoli e l’incameramento da parte del fisco imperiale dei vasti possessi fondiarii che la chiesa romana aveva nell’estremo meridione d’Italia.

Un testo ci dice come i paesi consigliati, dovendo allontanarsi dai luoghi furenti di ira iconoclasta, fossero la regione romana, quella napoletana ed i luoghi vicini. Tra questi ultimi dovevano trovarsi i tenitori dei longobardi, da tempo convertitisi al cattolicesimo, confinanti con i domini bizantini d’Italia. Così, i pochi e scarsi stanziamenti monastici già esistenti nei tenitori del ducato di Benevento, che nel momento attuale assunsero un particolare significato, divennero adesso desiderata meta e luogo di rifugio, non soltanto degli asceti in fuga dall’Oriente, ma anche di quelli viventi nella Terra d’Otranto, nella Sicilia e nella Calabria meridionale, anch’esse sconvolte dalle persecuzioni. Tanto che da questo momento viene a delinearsi quella duplice direttrice di marcia anche nel futuro seguita dalla corrente monastica, che da un lato, partendo dalla Terra d’Otranto, si dirigeva verso la Puglia fino al Bradano, dall’altro, muovendo dalla Sicilia e dalla Calabria meridionale, si avviava verso la parte settentrionale di questa regione e la Lucania. Sicuramente data da questa epoca il possente richiamo che la regione mercuriense eserciterà sui monaci siciliani nei momenti difficili. Essa infatti ospiterà una colonia monastica profuga da Taormina dopo la caduta di questa città in mano mussulmana (902), e darà vita al monastero dei Taorminesi. Il quale sorse nelle vicinanze dell’altro dei Siracusani, precedentemente fondato dai monaci esuli da Siracusa, dopo che questa era stata presa da mussulmani che nella conquista fecero strage di monaci (878). Tale monastero mi sembra di potere identificare con quello di S. Nicola de Siracusa, sito a Scalea e in età tarda dipendente dall’abbazia di Grottaferrata, del quale è probabile resto la chiesetta dell’Ospedale di Scalea, posta nella parte più alta dell’abitato a cavaliere di un profondo dirupo e interessante per la pianta, affine a quella di chiesette bizantine per la disposizione delle tre piccole absidi, e per la serie di affreschi condotti con maniera bizantineggiante e con inscrizioni in greco ed in latino.

Ad ogni modo, al periodo iconoclasta sembra doversi attribuire la formazione delle cittadelle ascetiche del Mercurion e di monte Bulgheria, appartate e silenziose, ai confini della Calabria, della Basilicata e della Campania attuali e ancora ricchissime di tracce di grecità, alcune delle quali sembrano riferirsi a motivi dominanti proprio in questo periodo: quali le originarie forme ed i titoli di due chiese ai limiti dei due rispettivi centri monastici, di cui anche gli abitati risentivano gli influssi. Intendo, così, ricordare la chiesa impiantata a croce equilatera libera di Laino Castello, dedicata ad un S. Teodoro che con ogni probabilità è lo Studita, che con i suoi discepoli, una parte dei quali dovette proprio allora introdurre in queste zone italiane la riforma del grande e austero monaco, fu assai bersagliato dall’iconoclastismo, e l’altra con abside tricora di Policastro del Golfo, intitolata alla Madonna Odigitria, denominazione che è dovuta appunto ai monaci iconoduli fuggiaschi da Costantinopoli, che ne diffusero il culto nell’Italia meridionale.

Questi due centri di ascetismo del Mercurion e di monte Bulgheria, insieme con altri minori, che si vennero formando nelle vicinanze, accolsero in seguito monaci siciliani e calabresi, timorosi delle conquiste mussulmane, si incrementarono mediante nuove e forti immigrazioni al tempo di Niceforo Foca che non poteva avere nella sua opera di conquista e di penetrazione collaborazione migliore di quella monastica, e divennero infine fiorentissimi nel terzo e nel quarto decennio del secolo X, allorché le guerre intestine arabe in Sicilia misero in fuga dall’isola gli ultimi asceti. (Continua)

 

BIAGIO CAPPELLI

Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA” –  Il Coscile

FOTO: Rete

 

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