
Aedo
Come ben noto, i circa 27.000 versi di cui Iliade e Odissea si compongono (di cui 12.110 l’Odissea) non nacquero da un giorno all’altro per mano di uno o due personaggi (se vogliamo pensare ad autori diversi per i due poemi). In esse confluirono una serie di canti ripetuti a memoria per secoli e secoli da cantori, i celebri aedi che viaggiavano per le strade della Grecia fermandosi nelle piazze e, quando ne avevano l’occasione, nei palazzi di qualche potente che li ospitava – a volte per una sera, a volte, se erano fortunati o particolarmente bravi, per lunghi periodi: come Femio, ad esempio, il cantore ufficiale presso la reggia di Itaca, o Demodoco, stanziale in quella di Scheria, alla corte di Alcinoo. Lì intrattenevano l’uditorio raccontando storie di dèi e di eroi, di mostri, maghe, ninfe e guerre, e al termine di queste, altre storie di lunghi, infiniti ritorni (nostoi), come quello di Olisse (il più celebre, e l’unico arrivato fino a noi), costretto a vagare sui mari per dieci anni prima di rivedere la sua “petrosa Itaca”.
Ma la funzione degli aedi non era solo ricreativa (sia pure nel significato più alto del termine). I loro canti erano l’unico mezzo che consentiva ai greci di trasmettere di generazione in generazione la propria cultura.
Prima dell’VIII secolo a.C. (secolo in cui, in concomitanza con la nascita della polis, fu adottata la scrittura alfabetica fenicia) quella greca era una cultura orale (o “preletterata”), vale a dire una cultura in cui non esisteva la scrittura. (1) E tale rimase durante i lunghi secoli (successivi alla fine della civiltà micenea e precedenti alla nascita della polis) in cui generazioni di aedi o rapsodi percorsero la Grecia raccontando storie attraverso le quali il loro uditorio imparava a conoscere le regole della comunità in cui viveva.
Era la poesia, nella Grecia precittadina, che insegnava e ribadiva incessantemente le qualità che facevano di un uomo un “uomo forte e nobile” (agathos), e insegnava a disprezzare chi tale non era. Era la poesia che incitava a “essere sempre il primo e distinto fra gli altri”, secondo l’insegnamento dato da Peleo al figlio Achille, prima della partenza per Troia (Iliade, XI, v. 784), e dal re dei lici Ippoloco al figlio Glauco (IL, XI, vv. 207-208). E in quel mondo, in quel contesto culturale, essere “il migliore e il più bravo” significava essere, in primo luogo, il più forte.
Nel mondo omerico, valori come collaborazione e giustizia non avevano ancora fatto la loro comparsa. Le virtù necessarie per godere della considerazione sociale erano dunque quelle che consentivano di vincere – per non dire di sopraffare con la forza fisica e il coraggio – in guerra. Ma non solo. Per affermarsi nella vita comunitaria, l’agathos doveva convincere i concittadini ad accettare le sue proposte, imporre le sue opinioni nelle assemblee: doveva essere anche “buon parlatore”. Erano queste le qualità culturalmente valutate e socialmente premiate nel mondo omerico: la capacità di imporsi con la forza fisica, con il coraggio, con la parola. Solo chi le possedeva poteva comportarsi secondo i canoni eroici, che in primo luogo imponevano di non tollerare le offese. In quel mondo, a ogni atto offensivo si doveva rispondere con la vendetta, una necessità a cui non si sfuggiva, fondamento dell’equilibrio sociale tra i gruppi familiari. L’ottica nella quale la società eroica percepiva la necessità della vendetta era quella dell’onore.
Questo era il compito dei poeti, oltre alla funzione non meno importante di trasmettere la memoria dei modi in cui si svolgevano gli atti e i riti della vita sociale come le assemblee, i sacrifici agli dèi e i matrimoni. Ed era per questo che, nel raccontare le storie, proponevano all’uditorio modelli di comportamento sia positivi sia negativi: tra i personaggi da ammirare – e nei limiti del possibile imitare – in primo luogo Achille, il migliore degli achei, e poi Agamennone, Menelao, Aiace, Ulisse e via dicendo. In campo femminile, inutile a dirsi, mogli come Penelope e fanciulle come Nausicaa, la perfetta ragazza da marito. Sull’altro versante, quello dei personaggi da disprezzare e deridere: gli uomini del popolo che, come Tersite, invece di obbedire a chi occupava una posizione sociale più alta – come sarebbe stato loro dovere – si permettevano di contraddire i nobili, urlando con voce ineducata e sgradevole. E anche Paride, nobile di nascita, bello, bellissimo: ma gli mancava il coraggio. A nulla serviva la bellezza a chi, come lui, era vile in guerra e vanesio (“bellimbusto,” lo apostrofa un giorno il fratello Ettore, il modello dell’eroe in campo troiano). Quanto alle donne da disprezzare, il posto d’onore spettava a Clitennestra, […]: attenzione, ammoniva la storia di Clitennestra, una donna adultera può facilmente essere anche un’assassina.
Questa, la fondamentale funzione sociale della poesia, in quei secoli, dalla quale discende (al di là dell’insuperabile valore letterario) quella di insostituibile documento storico.
Come scriveva Giambattista Vico nella Scienza Nuova, Omero è il “primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilità”. Naturalmente, non uno storico di avvenimenti: il valore storico dei poemi prescinde persine dal fatto che la guerra di Troia sia stata davvero combattuta; Moses Finley, ad esempio, grande studioso del mondo omerico, autore di un fondamentale saggio su Ulisse, non crede nella storicità di quella guerra. Omero è uno storico nel senso più ampio, non “evenemenziale”, del termine, perché consente di conoscere la cultura dell’epoca nella quale sono ambientati i fatti descritti. E all’interno di questa, emerge l’insieme delle norme che regolavano la vita delle famiglie e le relazioni tra i loro componenti. Ivi comprese, naturalmente, quelle tra padri e figli, che come abbiamo visto il pubblico degli aedi imparava a prendere a modello: del tutto indipendentemente, bisogna aggiungere, dal fatto che si trattasse di esseri umani o di dèi. Nel mondo greco non erano i mortali a essere fatti a immagine della divinità, ma viceversa. Né rileva che gli immortali si muovessero in una dimensione diversa da quella dei mortali: i loro corpi erano più grandi, i loro atteggiamenti più estremi, i loro comportamenti più eccessivi. Ma proprio per questo erano modelli particolarmente efficaci: perché rappresentavano al massimo, in modo quasi esasperato, le tipologie di comportamento alle quali dovevano ispirarsi coloro che, nel mondo dei mortali, occupavano il ruolo (padre, moglie, figli…) che ciascuno degli dèi occupava nella famiglia divina. […]
EVA CANTARELLA
Da “Non sei più mio padre” – Feltrinelli
Foto: Rete
NOTE
1 O in cui, pur esistendo, non svolgeva la funzione di strumento di trasmissione della cultura; questa rimaneva affidata alla parola orale, come ad esempio nel caso della Grecia micenea.