Vennero a quei tempi giù dal cielo piogge così violente e incessanti che la città di Rossano fu scossa da un violento terremoto e dalla parte superiore dell’abitato rovinarono giù precipitosamente verso il basso le case e le chiese ed ogni cosa restò sepolta sotto le macerie, tranne la Cattedrale.
Ciò che destò la meraviglia di tutti in un così tragico evento fu però che non c’era stato nessun morto e che nessun animale era rimasto ucciso.
Il beato Nilo, udito raccontare questo prodigio da molte persone, abbastanza meravigliato, decise di andare a vedere quella tragedia con i propri occhi. Ma siccome dubitava che la gente gli potesse offrire occasione d’insuperbirsi, volle entrare in città senza farsi conoscere.
Si legò attorno al capo una pelle di volpe e posto il mantello sopra un bastone, se lo mise sulle spalle e così camuffato andò in giro vedendo ogni cosa senza essere riconosciuto da nessuno. Se non che i ragazzi vedendo aggirarsi per le strade del paese un uomo in un abito strano e curioso, gli correvano dietro tirandogli contro dei sassi, lo ingiuriavano chiamandolo Bulgaro e Armeno e lo burlavano con altre contumelie.
Ma egli, senza replicare nulla, dopo che ebbe veduto tacitamente ogni cosa, si ritirò di sera sul tardi nella Chiesa Grande e toltasi quella pelle dal capo, indossò il suo misero mantello e, con devoto affetto di compunzione, s’inchinò davanti all’altare dell’Immacolata Vergine Maria, Madre di Dio. Ma essendo stato visto dal sagrestano Canisco, il quale fu maestro di Nilo quand’egli era fanciullo e avendo riferito la scoperta ad alcuni sacerdoti, essi gli si avvicinarono e gli fecero riverenza meravigliandosi molto del suo inatteso ma gradito arrivo.
A ognuno Nilo rivolse proficue parole e dette anche utili consigli e, dopo averli licenziati, rimase solo con Canisco. Cominciò a esortarlo a farsi monaco e a procurarsi la salvezza dell’anima dal momento che non aveva moglie, era vissuto sempre in castità, non era goloso, né bevitore, né amico delle frivolezze, ma era solo talmente avaro che, a somiglianza di una mosca irretita nella tela di un ragno, aveva completamente dedicato il suo pensiero all’ingordo accumulo della roba.
Perciò il padre Nilo cominciò a persuaderlo ad abbandonare il disordinato amore per il denaro e per i beni materiali invitandolo a riversare il suo pensiero a quei tesori incorruttibili che si conservano nel Paradiso. Ma Canisco replicò: «Siamo molti, o Padre, quelli che lodiamo pubblicamente la tua santa Regola e la diciamo beata e più volte ci siamo proposti anche di venire a sottoporci alla tua ubbidienza, ma poiché l’animo non ci consente di astenerci dal vino, abbiamo rinunciato a fare ciò.»
Rispose allora il beato Nilo: «Venite pure, fabbricatevi delle cantine e riempitele di vino e bevetene a vostro piacimento, ma intanto dedicate i vostri pensieri a Dio e se non volete offrirgli la bocca, donategli almeno il cuore.»
Cercando Canisco altre scuse per rifiutare l’invito ed essendo ormai trascorsa buona parte della notte, il beato Nilo se ne andò dicendogli: «Ahimè, maestro, non voglia Dio che il tuo pentimento sia tardivo e inutile» e se ne ritornò al monastero.
Non passò molto tempo che un giorno, mentre il beato Padre cantava il Mattutino, fu all’improvviso assalito da un acutissimo dolore per cui fu immediatamente costretto a uscire dal Coro e andare a coricarsi. Quando ecco entrare in fretta nella sua cella un nipote di Canisco e portargli una lettera dove stava scritto: “Vieni, o padre Nilo, e pigliati la grande quantità di denari che follemente ho radunato per la rovina dell’anima mia, acciocché il Diavolo non me la rubi e non mi privi insieme del frutto delle mie ricchezze: io sto morendo e sono chiamato davanti al tribunale di Dio”. Letta ch’ebbe Nilo quella lettera, sentì vivamente commuoversi l’animo dallo zelo della carità fraterna e avrebbe voluto andare da lui, ma ciò gli era impedito dalla gravita dei dolori che allora soffriva. Rispose dunque al latore della lettera:
«Cristo non ha bisogno della roba di tuo zio, perché egli disse “Quel ch’è di Cesare si renda a Cesare e quel ch’è di Dio si renda a Dio”, tu però vattene via subito e cammina in fretta perché forse non lo troverai vivo.»
Se ne tornò quel giovane in città correndo, ma trovò lo zio morto e occupati già dal Fisco quei beni che Canisco aveva messo insieme con tante fatiche.
Da “BRANI DELLA VITA DI SAN NILO”, di Antonio Sitongia e Settimio Ferrari – Ferrari Edizioni
Foto: Rete