Gabriele oggi dirige una comunità di recupero per ragazzi di strada. Egli, però, è giunto a questo punto attraverso un percorso molto lungo e complicato: è stato a sua volta un ragazzo difficile, ha affrontato l’esperienza delle comunità, degli istituti minorili, del carcere. Poi ha deciso di dare una svolta alla sua vita[…]
– Quando ti sei accorto di essere diventato un bambino cattivo, ti ricordi che sentimenti provavi?
– Guarda, sentimenti puliti io non ne ho mai avuti. Quando ho cominciato ad essere cattivo non ho più voluto vedere nessuno dei miei, né mia madre, né mio padre, non me ne fregava proprio niente: lo facevo per far vedere agli altri che ero superiore.
– Quindi i sentimenti li ricacciavi dentro?
– Sì, mostrare i propri sentimenti voleva dire essere debole e io non potevo farmi vedere così dagli altri, guai, avrei perso quella credibilità malavitosa che mi ero conquistato presso chi mi stava intorno: ero io che dovevo dettare legge fra i ragazzi della mia età.
– Ti piaceva essere un capo?
– Sì, eccome, lo sono sempre stato, l’ho sempre voluto essere fin da bambino. Lo sono stato in famiglia, nei giochi: quando giocavamo a pallone ero io che tenevo la squadra, quando sono stato in collegio ero caposquadra, poi ero capoclasse. Vuoi sapere perché sono diventato capoclasse e caposquadra? Perché così mi facevano fare il sostituto dell’educatore: lui si metteva a leggere il giornale e io dovevo tenere a bada i ragazzi. Ecco perché ho sempre comandato io, sino ad oggi. Adesso ho un’associazione di volontariato: la comando io, dirigo tutto io. […]
– E dopo il collegio sei tornato a casa?
– Sì, da lì sono scappato pure, poi però una volta mi hanno ripreso e mi hanno rasato i capelli, perché pensavano che avendo i capelli rasati mi avrebbero riconosciuto subito e non sarei più scappato. Hanno tentato di tutto per tenermi buono, per non farmi correre, per non farmi riscappare. [ . . . ]
– E il carcere minorile come è stato?
– Tranquillo, nel senso che facevo sempre valere la mia supremazia, il mio carattere ribelle. I ragazzi della mia età già mi temevano, per loro ero un capo. Quando ci sono entrato ero già famoso, una leggenda legata a quegli articoli di giornale. Se c’era qualche cosa che non andava, mi venivano a riferire; ricordo di aver risolto parecchi problemi ai ragazzi più deboli, non perché loro mi interessassero, ma perché volevo dimostrare che ero sempre io a comandare: ero un specie di piccolo boss. Lì sì che impari a farti gli amici. […] Poi trovai lavoro in un’impresa edile, ma anche quello durò poco.
– Cos’è che non ha funzionato?
– Era il quartiere che non riusciva a farmi lavorare. Era già scattato quel meccanismo per cui per me andare a lavorare, agli occhi della gente, voleva dire rinnegare una scelta, deludere un’aspettativa. Anche se allora la situazione non era quella di adesso: ora questi meccanismi sono ancora più forti, un ragazzino non può che rimanerci stritolato, non ha scampo. Oggi c’è una malvagità che ai miei tempi nemmeno me la sarei potuta immaginare. […]
– E poi… dove ti hanno mandato?
– Al carcere di Bari. Quando sono arrivato, si era già sparsa la voce. Ricordo che all’inizio mi misero in una cella da solo e davanti alle sbarre era come una via crucis, perché i ragazzi che non mi conoscevano venivano a guardarmi come si fa per una bestia rara, volevano vedere come era fatto quel famoso criminale baby di cui avevano sentito parlare. [ . . . ]
– E da lì dove ti hanno trasferito?
– A Enna, però durante la trasferta ci fermammo al carcere di Reggio Calabria. Viaggiavo assieme ad altri tre ragazzi e quando entrammo in quel carcere si presentò un detenuto anziano che chiese chi di noi fosse nipote di don Ciccio; gli risposi e lui scomparve. Usciti dalla sala delle matricole, ci avviammo alle celle, ma quando entrai nella mia vidi che il letto era stato già fatto. In gergo carcerario trovare il letto fatto è un segno di rispetto. Me ne meravigliai perché conoscevo bene il significato di quel gesto: anche se non ne ho mai fatto parte, so bene il linguaggio della camorra dentro le carceri.
– Vuoi dire che il linguaggio è la modalità che la camorra utilizza in carcere per iniziare i propri soldati? Mi potresti spiegare come funziona?
– La trafila è semplice. In carcere, i capi individuano i ragazzi più vispi, quelli più intraprendenti, poi li convocano e li battezzano. [… ]
– Come avviene la segnalazione del candidato?
-I capi indicano un picciotto che deve iniziare il ragazzino che si è segnalato in quanto più svelto degli altri. Nel mio caso, il picciotto era un ragazzo di Monopoli. [ . . . ]
– E hai continuato a girare da un carcere a un altro. [… ] In tutto quanto sei rimasto in carcere?
– Fino ai primi anni Settanta […].
– E quando sei stato definitivamente fuori, che cosa hai fatto?
– Mi sono trovato davanti a un bivio: o usare il cervello e diminuire il rischio di finire dentro pur continuando a fare la malavita oppure sposarmi e lasciare definitivamente quella strada.
– Perché sposandoti non avresti più dovuto fare il delinquente?
– Perché in carcere avevo visto troppi ragazzi padri di famiglia che si erano rovinati: era gente che non aveva denaro e quindi costringeva la moglie-a prostituirsi per pagarsi gli avvocati o perfino le sigarette. Mi ricordo della moglie di uno che stava in cella con me: era una ragazza stupenda ed è finita a fare la vita. Da quella volta mi dissi che se volevo continuare a fare la malavita non mi sarei sposato, ma che se lo facevo avrei smesso di fare il delinquente. E così è stato. […]
– Ma tu hai cambiato qualcosa al San Paolo: ci sono dei ragazzi che lavorano con te e che non sono entrati nel giro che mi hai descritto.
– Sì, è vero. Però io ho dovuto fare tutto da solo, senza l’aiuto di nessuno, neanche il Comune mi ha aiutato, anzi questa struttura l’ho costruita contro tutti, contro tutti i politici. Io l’ho fatto perché ho vissuto fino in fondo la vita che ho vissuto, poi, finalmente, me la sono riordinata partendo dal mio passato più disperato e così mi sono costruito un futuro pulito, onesto. Insomma io mi sono rieducato da solo, ma questi ragazzi ci riusciranno?
Da: Paolo Crepet Cuori violenti. Feltrinelli, Milano 2004
In “La tribù degli onesti” – di Viola Ardone – Simone
Foto: Rete