I SAVOIA e i plebisciti a libertà vigilata

 

Il fatto che da Torino non ci si sia accontentati di una semplice occupazione militare delle nuove province e che per attribuire compiutezza all’ineluttabile annessione sia stata escogitata una cerimonia solenne, coinvolgente milioni di maschi adulti, attesta che in qualche modo ci si era posti il problema di creare consenso al nuovo assetto unitario. A questa scelta non era forse estraneo un duplice ordine di motivi. Innanzi tutto, la Francia bonapartista adottava lo strumento plebiscitario come periodica forma di verifica del consenso di massa al regime imperiale. In secondo luogo, il completo scardinamento degli equilibri statali della penisola – ben al di là degli obiettivi perseguiti con la guerra di Lombardia e registrati il 10 novembre 1859 dal trattato di Zurigo – e l’abbattimento a raffica di governi neutrali con cui si intrattenevano normali relazioni diplomatiche e che ritenevano la propria indipendenza assicurata da garanzie internazionali, richiedevano quanto meno una sanatoria. La chiedeva per prima l’Inghilterra che riteneva stabilizzante una legalizzazione che attestasse un consenso forte e diffuso, sia pure successivo agli eventi, nei confronti di avventure militari piemontesi e garibaldine surroganti una inesistente pressione popolare. Tuttavia, prima di entrare nel merito, occorre soffermarsi sulla natura dello strumento consultivo evocato.

Malgrado l’apparenza, il plebiscito somiglia ben poco agli attuali referendum. Si tratta infatti di una consultazione indetta dal governo o dai poteri supremi di fatto, al fine di ottenere un esplicito assenso a provvedimenti decisi dall’alto che modificano in modo irreversibile la vita dello Stato (territorio, forma di governo). Tale assenso viene esplicitato con un sì o con un «o, espresso dai cittadini che affidano questa loro manifestazione di volontà a schede prestampate da inserire pubblicamente in apposite urne, oppure a una firma da apporre su pubblici registri predisposti dalle autorità. Essendo attivata per trasformare un consenso presunto in consenso esplicito, la procedura plebiscitaria non può avere esito negativo, tanto che gli sforzi governativi si concentrano essenzialmente sui meccanismi che garantiscono l’assenso della quasi totalità degli aventi diritto al voto. L’auspicata frazione insignificante di voti negativi sarà utile solo per attestare alle cancellerie europee un accettabile grado di libertà della consultazione popolare.

Va poi detto che un plebiscito non può essere vinto con un semplice 51% dei voti espressi, ma per essere politicamente significativo deve dimostrare che la totalità della popolazione consultata è d’accordo con il governo; mentre i pochi oppositori registrati dalle urne, pur legittimando con la loro sola presenza la regolarità delle consultazioni, saranno invece presentati come fautori di soluzioni antinazionali. A tal fine, se ottenere il 95 % di voti favorevoli al governo è considerato un risultato apprezzabile, certificare un consenso pari al 98 o, addirittura, al 99% dei voti espressi, riempie di giusta soddisfazione gli organizzatori della consultazione. Questa consapevolezza rispetto alla ineluttabilità del risultato plebiscitario, dove i cittadini non sono chiamati genericamente a pronunciarsi, bensì a pronunciarsi per il sì, ci viene comunicata con straordinaria potenza evocativa da un brano di uno dei maggiori romanzi del Novecento italiano, II Gattopardo, in una pagina

che ci riporta alla Sicilia del 1860:

Come conseguenza di alcune associazioni d’idee che non sarebbe opportuno precisare, l’affaccendarsi delle formiche impedì il sonno a Don Fabrizio e gli fece ricordare i giorni del plebiscito quali egli li aveva vissuti poco tempo prima a Donnafugata stessa; oltre ad un senso di sorpresa quelle giornate gli avevano lasciato parecchi enigmi da sciogliere […].

«E voi, don Ciccio, come avete votato il giorno Ventuno?»

Il pover’uomo sussultò. Preso alla sprovvista, in un momento nel quale si trovava fuori del recinto di siepi precauzionali nel quale si chiudeva di solito come ogni suo compaesano, esitava, non sapendo come rispondere.

Il Principe scambiò per timore quel che era soltanto sorpresa e si irritò. «Insomma, di chi avete paura? Qui non ci siamo che noi, il vento e i cani».

La lista dei testimoni rassicuranti non era, a dir vero, felice; il vento è chiacchierone per definizione, il Principe era per metà siciliano. Di assoluta fiducia non c’erano che i cani e soltanto in quanto sprovvisti di linguaggio articolato. Don Ciccio però si era ripreso e la astuzia paesana gli aveva suggerito la risposta giusta, cioè nulla. «Scusate, Eccellenza, la vostra è una domanda inutile. Sapete già che a Donnafugata tutti hanno votato per il ‘sì’».

Questo Don Fabrizio lo sapeva, infatti; e appunto per ciò la risposta non fece che trasformare un enigma piccolino in un enigma storico.

Non sempre, però, sudditi e cittadini hanno tempo e voglia di farsi coinvolgere in operazioni dall’esito scontato. Vista allora l’inutilità o la pericolosità di un esplicito voto negativo, potrebbe essere percorsa la via dell’astensione. Ma, a meno che non si tratti di fenomeni marginali, anche questo è un pericolo da evitare, grazie a un’adeguata predisposizione del contesto.

Per cominciare, dei sì a caratteri cubitali copriranno i muri di edifici pubblici e privati. Poi, ci si appellerà al patriottismo della stampa per non turbare l’unanimità di un voto nazionale; nel caso vi siano comunque giornali decisi a giocare un ruolo d’opposizione, la polizia con sequestri a raffica impedirà la loro diffusione. Passi successivi saranno la soppressione delle testate riottose, multe a carico dei gerenti, l’arresto o l’espulsione dei giornalisti avversari.

Dato che non sempre si è in grado di godere della libertà senza trasformarla in licenza, le autorità pubbliche possono anche trovarsi nella dolorosa necessità di far presidiare le tipografie dalla polizia o dalla Guardia Nazionale, al fine di evitare propaganda fratricida; questo non esclude, per altro, che patrioti desiderosi di anonimato e scandalizzati per la mancanza di risolutezza delle autorità, si introducano nottetempo nelle tipografie per disperdere i piombi, frantumare i torchi, distruggere gli scritti avversari già pronti. Ed è proprio per evitare simili degenerazioni che in casi del genere i comandi di piazza dispongono un ininterrotto pattugliamento militare nelle strade delle città, esteso, talora, a osterie, taverne e caffè. È inevitabile, che nelle condizioni appena evocate, si finisca con l’avere una propaganda a senso unico.

Il consenso forzoso

Passiamo ora ad esaminare la situazione dei cessati Stati italiani, soffermandoci sull’organizzazione delle consultazioni plebiscitarie. Basandosi queste sul suffragio universale maschile, avrebbero potuto entrare in contraddizione con l’ordinamento statutario, visto che la legge elettorale sarda centellinava i diritti politici, riconoscendone l’esercizio a pochissimi notabili. Tuttavia, grazie a Cavour, il governo sardo in quell’occasione dette prova di pragmatismo. Pur ammettendo che il «voto universale non sarebbe senza inconvenienti» e che «esso stabilirebbe un precedente increscioso», lo statista subalpino nelle sue istruzioni al diplomatico sardo Costantino Nigra si lasciava aperti degli spazi di manovra. Qualora, infatti, Inghilterra e Francia avessero fatto del plebiscito a suffragio universale maschile una condizione per accettare le annessioni, il governo sardo non si sarebbe tirato indietro.

Non appena il quadro dei rapporti internazionali sembra rendere ineludibile questa prova, le consultazioni sono organizzate in modo da azzerare i rischi. Al governo di Torino non basta far prevalere con «una semplice maggioranza» la soluzione annessionista ma gli occorre, invece, «la quasi unanimità dei suffragi o una schiacciante maggioranza», come avrebbe dichiarato lo stesso Cavour all’ambasciatore francese, alla vigilia delle consultazioni plebiscitarie nei cessati Stati dell’Italia centrale. Ora, per ottenere la «schiacciante maggioranza» o, meglio ancora, «la quasi unanimità dei suffragi» auspicate dallo statista piemontese, non ci si affida al caso, ma si fa in modo che l’intero procedimento sia sotto controllo: dalle pressioni iniziali al voto finale. Il voto è ovunque pubblico e si avvale di schede prestampate che basta infilare nell’urna senza che vi sia la necessità di scrivere o cancellare alcunché, «acciò si fosse veduto chi avesse dato il voto affermativo o negativo».

Nel locale predisposto (l’atrio di un palazzo pubblico, una chiesa, talora la piazza, come in diverse città meridionali) vi è un grande tavolo sul quale troneggiano tre contenitori. Al centro vi è l’urna chiusa munita di feritoia, dove inserire le schede prestampate. Alla sinistra e alla destra dell’urna trovano posto due grandi ceste prive di coperchi che contengono rispettivamente le schede prestampate con il si e con il no. Ogni elettore, «passando tra due file di guardie nazionali» con la baionetta inastata schierate per trattenere la folla, dovrà innanzi tutto avvicinarsi alla cesta sotto gli occhi dei presenti, prendere la scheda prescelta, firmare l’apposito registro, dichiarare al seggio le proprie generalità, «mostrare il certificato rilasciatogli dal sindaco, comprovante il suo diritto a prender parte alla votazione».

Tutto questo in mezzo al brusìo, a urla di riprovazione o d’incoraggiamento per questa prima prova collettiva di civismo guidato. È il quadro descrittoci da un autorevole simpatizzante dell’annessione, il contrammiraglio inglese sir George Rodney Mundy.

 

ROBERTO MARTUCCI

Da “L’INVENZIONE DELL’ITALIA UNITA” – Sansoni

FOTO: Rete

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