L’olivo nell’Antico Testamento e nel cristianesimo

 

La Genesi narra che quando le acque del Diluvio universale cominciarono a calare e l’arca si arenò sulla cima del monte Ararat, Noè fece uscire prima un corvo perché gli riferisse sul lento emergere delle terre, poi una colomba: entrambi tornarono senza aver trovato nemmeno un lembo di pianura dove posarsi.

Dopo una settimana rispedì la colomba che al crepuscolo rientrò con un ramoscello d’olivo nel becco: Noè comprese allora che le acque si erano ritirate definitivamente. Aspettò altri sette giorni, poi lasciò libera la colomba che non tornò più nell’arca: sicché il ramoscello d’olivo è diventato per ebrei, cristiani e musulmani simbolo di rigenerazione, pace e prosperità.

Al simbolismo di pace si ispirava un’usanza testimoniata da san Cirillo di Alessandria: un esercito che voleva la pace dopo una battaglia la chiedeva tramite un araldo che doveva presentare al nemico un recipiente pieno di olio di oliva.

Ma il ramoscello biblico simboleggiava profeticamente anche il Cristo, che si sarebbe incarnato per salvare l’umanità e ricondurla alla Gerusalemme Celeste. Non a caso nella Domenica delle Palme, che commemora l’ingresso del Signore a Gerusalemme, spesso la palma viene sostituita da rami d’olivo, sebbene essi non siano esplicitamente nominati nel racconto evangelico: quei rami alludono alla riconciliazione fra il Signore e gli uomini di cui la Pasqua è l’evento storico. Per tale motivo i contadini piantavano una volta un ramo benedetto nei campi seminati. Si diceva altresì che tenesse lontani i fulmini (e in Piemonte le streghe).

Il simbolismo cristiano dell’olivo è antichissimo: ne reca testimonianza già il Vangelo apocrifo di Nicodemo, che risale al IV o V secolo. Vi si narra che mentre i Giusti si trovavano all’inferno si levò una luce abbagliante come il sole, annunciando la discesa agli inferi del Cristo per resuscitare nella gloria divina Abramo, i patriarchi e chi con la sua vita esemplare aveva meritato la salvezza.

Allora Set, il terzogenito di Adamo, disse agli abitatori degli inferi: «Ascoltate, profeti e patriarchi! Una volta mio padre Adamo, il primogenito della Creazione, ormai sul punto di morire mi mandò a innalzare preghiere a Dio sulla porta del paradiso affinché mi facesse accompagnare da un angelo fino all’Albero della Misericordia e io potessi prendervi olio e ungerlo affinché si riavesse dalla malattia. Così io feci. Scese allora un angelo del Signore che mi disse: “Cosa desideri Set? Vuoi l’olio che cura i malati o l’albero che lo produce? Ora quest’olio è introvabile. Va’ dunque da tuo padre e digli che quando saranno trascorsi dalla creazione del mondo cinquecentomila anni, scenderà sulla terra l’unigenito Figlio di Dio fatto uomo, ed egli stesso ungerà con questo olio, ed egli risorgerà, e con l’acqua e con lo Spirito Santo purificherà lui e i suoi discendenti, e allora guarirà da ogni malattia. Ma adesso non è possibile che questo avvenga”. Udendo tali parole, i patriarchi e i profeti si rallegrarono grandemente».

Sulla scia del racconto apocrifo nacque nel Medioevo una leggenda che narrava come dopo il peccato originale Eva si fosse recata nell’Eden insieme con il figlio Set per invocare misericordia. L’arcangelo Michele le donò un ramo d’olivo che, piantato sulla tomba di Adamo, crebbe in breve tempo.

Dopo la morte della madre, Set ritornò nell’Eden dove incontrò il Cherubino, che gli diede un ramo di melo cui era sospesa la metà del frutto morso da Eva, esortandolo a conservarlo con cura così come aveva fatto con l’olivo cresciuto sulla tomba di Adamo, perché entrambi sarebbero stati gli strumenti della Redenzione. Set conservò il ramo di melo che sarebbe giunto fino a Noè per entrare poi nell’arca.

Dopo il diluvio Noè inviò la colomba messaggera che ritornò con un ramo dell’olivo cresciuto sulla tomba di Adamo. Quei due rami furono conservati da Noè e trasmessi ai discendenti fino a diventare i due bracci della Croce.

L’olivo inteso quale simbolo del Cristo si ritrova in alcune Annunciazioni di pittori senesi, come quella di Simone Martini agli Uffizi di Firenze o di Taddeo Bartolo e Francesco di Giorgio alla Pinacoteca di Siena. Vi si ammira l’angelo che, anziché tenere in mano il tradizionale giglio, offre a Maria un ramoscello d’olivo. Secondo gli storici dell’arte quel ramoscello fu adottato dai senesi per sostituire il giglio, l’odiato emblema di Firenze. Ma si sa che le nostre azioni suscitano spesso effetti inaspettati, a significare che l’economia provvidenziale trae frutti benefici persino dall’odio. Sicché l’olivo delle Annunciazioni senesi ha assunto, di là dalle circostanze storiche, un significato analogo a quello che la colomba portò a Noè.

L’olivo, infine, è attributo di alcuni santi: di Bernardo Tolomei, il fondatore del convento di Monte Oliveto e dell’ordine degli olivetani, di Pietro Nolasco, di sant’Irene e di Oliva di Salerno, mentre san Bruno, fondatore della Certosa, ne ostenta addirittura tre.

All’olivo apportatore di prosperità e di pace si ispirava un’antica usanza, ormai desueta: le Croci di Maggio. I contadini percorrevano i campi in processione innalzando una Croce per propiziare un buon raccolto; e ne piantavano in mezzo al grano un’altra costruita con canne, alla quale veniva applicata la candelina della Candelora, un ramoscello d’olivo unito alla cosiddetta «palma di san Pietro» che in realtà era un ramo di giglio benedetto in quello stesso giorno. La cenere di un rametto di olivo veniva imposta sulla fronte dei fedeli nel rito del mercoledì delle Ceneri pronunciando la formula tradizionale: «Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris»

 

ALFREDO CATTABIANI

Da “FLORARIO” – Mondadori

Foto: Rete

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