Il cuculo, le ciliegie e la profezia

 

Conservazione è stata una parola che per decenni la mia generazione ha detestato. Ai tempi in cui persino riformismo era in antipatia, conservazione equivaleva ad arretratezza, difesa dell’esistente, passatismo. Eppure, nonostante il mio allora «ideologico» rifiuto della «conservazione», ero sempre attratto da quello che restava, esisteva e serviva, pure in «un mondo in rivolta». Nei fondi, nei rimasugli, nelle molliche di pane raccolte e baciate dai rappresentanti di una civiltà parsimoniosa e frugale c’era un nesso con il futuro, una strategia per resistere e non perdere la strada.

Gli studiosi delle culture popolari e del folklore europeo hanno ricordato, sia pure con attenzione minore di quella dovuta, il senso di stupore e di perplessità che coglieva i contadini di paesi e campagne, tra fine Settecento e inizio Ottocento, nel vedere nobili, signori, forestieri che andavano a interrogarli sulle loro tradizioni e volevano ascoltare canti, proverbi, racconti. L’interesse antiquario, letterario, erudito non era separabile da studi e ricerche profonde e anche, in molti casi, dalla vicinanza dell’osservatore al mondo popolare e ai ceti umili ai quali si sentiva vicino o interno. L’opposizione alla modernità, il richiamo nostalgico a ciò che sta per scomparire inesorabilmente aveva evidenti riferimenti a un passato leggendario, a un Eden perduto, alle origini, all’antichità classica, al medioevo, a un tempo mitico e a tradizioni inventate nel presente. Il fenomeno europeo dell’invenzione di tradizioni è un chiaro esempio di una nostalgia che diventava elemento di mutazione, fondamento di una nuova identità collettiva.

È un atteggiamento antiquario che troviamo già al momento in cui nasce il termine folklore, che non a caso prende il posto delle espressioni Popular Antiquities o Popular Literature. Ambrose Merton (pseudonimo di William John Thoms), in un articolo apparso nel 1846 su «Athenaeum»,   giornale di letteratura, scienza e arti, conia la parola sassone composta folk-lore per designare «l’insieme di fatti e credenze tradizionali di un popolo», e invita fiducioso il maggior numero di ricercatori a studiare e a raccogliere «tutto quello che può essere ancora recuperato», con uno sforzo enorme, dei fatti e delle credenze popolari disseminati nella memoria di migliaia di lettori.

Come ricorda Peter Burke, dalla fine Settecento, in tutti i paesi europei si assistette alla corsa degli intellettuali verso il popolo, con grande meraviglia dei contadini e delle persone che vivevano in campagna. Ci si affrettava a raccogliere usanze, tradizioni, poesie, canti prima che corressero il rischio di scomparire. L’ansia di recuperare quanto rischiava di perdersi e il desiderio di «ritorno al passato» e alle origini hanno caratterizzato la nascita delle moderne accezioni di «popolo» e «nazione». L’opera letteraria e demologica di Niccolò Tommaseo è espressione significativa di un risorgimento culturale e morale che doveva condurre alla costruzione di un’Italia unita. Come nota Rolf Petri, in epoca moderna e contemporanea,

gli spazi territoriali assumono una connotazione collettiva che tende a identificarsi in un Noi etnico e nazionale. Un noi, questo, alle cui origini non troviamo soltanto la narrazione mitologica e la tradizione inventata, ma anche, quasi sempre, proiezioni utopiche e sentimenti nostalgici (Petri 2010).

Nel breve articolo dove è messo a punto un concetto che avrebbe avuto tanta fortuna e innumerevoli sviluppi, Merton ricorda una credenza popolare riportata dai Grimm e a lui stesso segnalata nello Yorkshire, secondo cui il «cuculo non canta mai fino a che non ha mangiato a sazietà per tre volte le ciliegie». Il cuculo ricopre col suo canto «nella mitologia popolare un carattere profetico». La credenza aveva molte varianti nelle diverse contrade d’Europa. Non c’è folklorista o studioso di culture popolari che non la riporti; io stesso, anni addietro, mi stupii nel vedere la sua diffusione in quasi tutti i paesi della mia regione, dove erano state fatte ricerche e pubblicazioni sul mondo popolare. Quando ero bambino e il cuculo cantava, da sotto l’albero di ciliegio insieme ai miei amici chiedevamo quanti anni ci restassero prima di sposarci o di morire. Ogni canto equivaleva a un anno: e si può immaginare la gioia o lo sconforto a seconda che la «risposta» riguardasse il matrimonio o la morte. Questa usanza, che tanta tradizione modernista potrebbe ridurre a colore o a superstizione, in realtà stabiliva una relazione tra uomo e stagioni, piante e ammali, morte e vita, e al cuculo veniva assegnato un carattere profetico al punto da renderlo un uccello temuto o privilegiato. Nella tradizione greca il verso del cuculo – kókku – poteva essere utilizzato come segnale di inizio, nel senso di «suvvia!», «forza!»: un invito a sbrigarsi che, come ricostruisce in maniera avvincente Maurizio Bettini, ritroviamo tra i contadini romani, impegnati nel lavoro dei campi, e timorosi del canto dell’uccello.

Sin da quell’articolo, Merton non suggeriva certo un ritorno al passato, ma era consapevole di stare portando avanti un’opera di memoria, di salvaguardia, di conoscenza di un mondo che continuava a parlare anche dopo la sua scomparsa. Allo studioso non sfuggiva il carattere mobile delle culture popolari, di quella che noi chiamiamo sommariamente «identità». Le feste, le tradizioni, i riti non sono immobili e vanno sempre compresi per la loro carica di memoria e di sentimento dell’appartenenza, ma anche per le vicende che essi ricapitolano (si pensi al legame tra riti di Pasqua e storie di lutti, devastazione, terremoti, riorganizzazione del territorio, emigrazione), ma soprattutto per la loro capacità di parlare oggi, di dire qualcosa «qui ed ora», in maniera nuova. Nessun rito sarebbe «eseguito» se non raccontasse, rispecchiasse, inventasse la vita nel presente.

In epoca positivista e nei primi decenni del Novecento i materiali, le credenze, i documenti raccolti sono stati interpretati come «relitti», «sopravvivenze» che la modernità avrebbe spazzato, tacendo o trascurando che relitti e reliquie orali trovavano un nuovo uso o una nuova vita, esattamente come accadeva ai reperti archeologici e alle rovine dell’antichità classica, di cui sin dall’Ottocento le élites intellettuali si sono servite per plasmare e inventare l’identità meridionale.

La grande tradizione etnologica e antropologica d’ispirazione marxista, della quale abbiamo conosciuto e subito il fascino, ha spinto per tutto il Novecento in una direzione che, pure con amore per i vinti, invitava a liberarsi dei fantasmi del passato e a considerare come superate o da abbandonare (certo, dopo averle conosciute) le reliquie folkloriche. A farne le spese è stata la grande demologia ispirata da un maestro come Giuseppe Pitrè, che aveva avuto il merito (pure con tanti limiti e non poche ingenuità) di fare un’opera di salvataggio e di salvaguardia di tesori che sarebbero altrimenti andati scomparsi.

Certo, Granisci, occorre ricordarlo, non solo è autore di fondamentali riflessioni sul folklore come produzione culturale delle «classi subalterne» (in opposizione meccanica, oggettiva, implicita alla cultura dei ceti dominanti), ma mostra grande attenzione per le tradizioni culturali popolari della Sardegna e per le letterature locali e regionali. De Martino, il più grande antropologo italiano, individua come luogo deputato delle sue ricerche i piccoli centri del Sud, della Puglia, della Lucania, ma, in maniera anche poetica, conia celebri espressioni come «un villaggio nella memoria», il «campanile di Marcellinara», «patria culturale», con le quali fa riferimento al bisogno di presenza e orientamento delle persone a rischio di smarrimento quando si allontanano dal luogo di origine ed «escono» nel Mondo. Una «patria culturale» di riferimento e un «villaggio nella memoria» sono indispensabili per non perdersi e non smarrirsi. Tuttavia, nonostante il grande legame, anche affettivo, politico e culturale, che, diversamente, hanno mostrato Gramsci e de Martino nei confronti delle classi subalterne dei paesi del Mezzogiorno, con le loro posizioni ideologiche che vedevano nella fabbrica, nella città, nella classe operaia le scene e gli attori del riscatto e della liberazione dei ceti subalterni, i due (pure operando in contesti e m periodi diversi) erano in qualche modo convinti che «per le genti meridionali» fosse giunta l’ora di «abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia». L’auspicio di poter affermare «l’autentica luce della ragione» e «una civile città terrena unicamente affidata all’ethos dell’opera umana» (de Martino 1959), di fatto accompagnava, con pietas e anche «rimorso», la fine di una cultura folklorica composta da agglomerati, frammenti, relitti sovrapposti e sparsi. Di questa cultura, però, nei decenni successivi, grazie a un’assunzione critica dell’immensa eredità di Ernesto de Martino, si sarebbero occupati numerosi studiosi spesso ritenuti passatisti o nostalgici, talora derisi per una loro presunta incapacità di comprendere e accettare il mondo moderno.

Oggi, in un clima economico, sociale, culturale profondamente mutato, dopo il crollo delle ideologie, la crisi della modernità o di una modernizzazione selvaggia, la quasi scomparsa della fabbrica e della classe operaia, forse, bisogna riconoscere i meriti di chi si è rivolto a quello che restava, senza pensare che si trattasse di fantasmi di cui liberarsi. Per i moderni e tardivi flaneur di un mondo perduto, vale, invece, quella che chiamerei la sindrome del cuculo: distruggere i mondi quando sono in vita per poi piangerli e rimpiangerli quando sono ormai defunti o moribondi. Restare indifferenti alla scomparsa di luoghi, paesi, pianure, boschi, animali, per poi procedere a redigerne l’inventario, lacrimevole preludio di una miracolistica e truffaldina resurrezione.

Non tutto è perduto. Una nuova generazione di scrittori, studiosi e artisti guarda al Sud come a un luogo reale e non mitico. Le nuove generazioni hanno dimostrato capacità di resilienza e di elaborazione di soluzioni e progetti di ritorno inediti. La nostalgia positiva, costruttiva dei rimasti può essere sostegno a nuove pratiche di innovazione, inclusione e mutamento.

 

VITO TETI

Da “Quel che resta” – Donzelli Editore

Foto: Rete

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