LA CHIESA ortodossa al tempo dello Zar

Vescovi ortodossi

Al contrario dei cattolici, gli ortodossi avevano conservato tra i comandamenti divini la proibizione biblica contro gli idoli di pietra, di legno e di metallo: «Tu non farai immagini intagliate né raffigurerai in alcuna maniera ciò che è nell’alto dei cicli…». Ma, ritenendo che il divieto si applicasse alle sole opere d’arte che per le dimensioni si prestassero a una confusione con il personaggio rappresentato, avevano escluso dai luoghi sacri le statue a tutto tondo ma avevano ammesso le immagini dipinte, che per la loro monodimensionalità non potevano trarre in inganno i fedeli. Infatti, un tempo i pagani non bruciavano forse i loro incensi e sacrificavano le loro vittime davanti a delle statue? Per scoraggiare le devozioni sospette, il clero russo si era spinto fino a evitare di dedicare cappelle ai santi più importanti. Questi avevano quasi sempre la loro effigie sui pilastri delle navate o sulle pareti della iconostasi, ma raramente in luoghi dove potessero essere oggetto di una devozione particolare. D’altra parte, ancora alla fine del secolo precedente gli stessi fedeli non volevano che i volti dei beati fossero dipinti in modo realistico e insistevano perché gli artisti continuassero a colorarli il meno naturalmente possibile con un tono bruno, la cui tradizione risaliva alle madonne leggendarie di San Luca.

Il culto delle icone nella chiesa orientale era stato sancito dal settimo Concilio ecumenico, svoltosi a Nicea nel 787. Secondo la definizione di questa alta assemblea esisteva un reale rapporto mistico fra l’immagine e il suo modello: la copia partecipava dell’essenza di colui che l’aveva ispirata. Il santo al quale l’artista pensava penetrava nella sua opera e la trasfigurava, in certo modo la vivificava. Se il modello era presente nell’icona, anche la forza divina del modello vi si incarnava. San Giovanni Damasceno diceva che l’icona era «una sostanza piena di energia divina, di forza e di grazia». Celebrando il rito della consacrazione delle icone, la chiesa ortodossa chiedeva a Dio di far discendere sulla immagine tracciata da mano umana la luce dello Spirito Santo per conferirle il miracoloso potere di guarire i malati e di espellere i demoni. «Non è davanti a immagini impotenti che ci prosterniamo, noi credenti… Rappresentando nei tratti la somiglianza, noi la manteniamo, la adoriamo… vi attingiamo la grazia della salvezza» (dall’ufficio domenicale ortodosso).

Poiché l’icona è un mistero, l’arte di dipingerla è un’azione sacra. L’artista non poteva essere che un fedele ortodosso, e la sua grande purezza d’animo ne sosteneva il talento. Egli si preparava al lavoro con il digiuno e la preghiera: «Santifica e illumina l’anima del tuo servo, guida la sua mano perché essa rappresenti degnamente e perfettamente la santa icona» (Libro del Pittore, del Monte Athos). In questa ideale disposizione di spirito, egli non cercava di lusingare l’occhio con la bellezza delle linee e dei colori, ma di realizzare l’incorporazione più compiuta possibile dell’essenza sovrannaturale in forma percepibile ai sensi. Egli rispettava norme grafiche antichissime, trasmesse di generazione in generazione. Diventava una figura anonima, una mano staccata dal corpo, lo strumento di una volontà superiore. I colori che usava erano diluiti in acqua benedetta ed egli vi mescolava particelle infinitesime di reliquie dei santi. Terminata l’opera, non gli veniva nemmeno in mente di firmarla perché non era lui che in realtà l’aveva creata ma la Chiesa intera.

Secondo Alexandr Vasilevic il culto delle icone non aveva niente a che vedere col neofeticismo, perché la venerazione dei fedeli non era rivolta alla icona in sé ma a colui che essa rappresentava. Al momento della consacrazione, i vescovi russi giuravano che avrebbero impedito al popolo di dedicare alle icone un’adorazione che era dovuta solo a Dio. Tuttavia, la loro vigilanza non poteva fermare lo slancio superstizioso del popolo verso le brune pitture bizantine […]: le genuflessioni e i segni di croce appassionati che uomini e donne dedicavano a una Vergine scurita dal fumo dei ceri o a un beato dallo sguardo fisso e dalla barba bianca. Foreste di candele ardevano dinanzi a loro. La parte inferiore delle immagini era segnata, consumata dai baci della folla di fedeli. In genere, di questi santi e sante si scorgevano solo i piedi, le mani e il volto che spuntavano dalla pianeta d’argento o d’oro che li chiudeva come una corazza. I loro volti bruni dagli occhi neri e profondi e dalle labbra chiuse opponevano una indifferenza ieratica ai mormorii delle preghiere.

Odigitriya_Smolenskaya

Le icone miracolose erano legione. Quella della Vergine Iberica, coperta di perle e di diamanti, era particolarmente venerata dai moscoviti. Non passava giorno senza che venisse portata, dietro offerta di una forte somma, al capezzale di un ammalato, in un nuovo appartamento o a una festa familiare. La carrozza che la trasportava era tirata da quattro trottatori guidati da un cocchiere seduto a cassetta ed era scortata da due giovani postiglioni a cavallo. Dietro, sotto una specie di spiovente che prolungava il tetto della vettura, stavano due valletti dalla livrea sbiadita. Cocchiere, postiglioni e valletti erano sempre a testa scoperta. All’interno della carrozza si trovavano un prete rivestito dei paramenti sacri e un assistente. L’icona era posata di fronte a loro su un sedile. Lungo il percorso tutti i passanti si scoprivano e si facevano il segno della croce. Quando la carrozza si fermava davanti alla casa del «cliente», si radunavano sempre molte persone che volevano vederla: alcuni fedeli la seguivano fino alla porta, altri baciavano devotamente il sedile su cui era stata poggiata. Durante la sua assenza dalla cappella (fino alle sei di sera, limite estremo) era sostituita da una copia.

In guerra i russi portavano sempre delle icone al seguito dell’esercito e attribuivano loro i propri successi. La Vergine di Smolensk era cara a tutto l’Occidente ortodosso dopo la vittoria della Poltava. Nostra Signora di Kazan doveva la sua fama alla presa di Kazan sotto Ivan il Terribile; grazie a essa, Minin e Pojarskij avevano scacciato i polacchi da Mosca e Alessandro I aveva fermato l’invasione francese nel 1812. La vigilia della battaglia di Borodino, il maresciallo Kutusov in persona aveva implorato il soccorso della vergine miracolosa.

Riproduzioni delle icone più famose proteggevano tutte le case russe: ce n’era almeno una nella stanza da pranzo e una in ogni camera da letto. Nelle case di persone particolarmente pie c’era un vero e proprio piccolo oratorio. Le immagini sacre, moltiplicandosi all’infinito, erano entrate a far parte della vita quotidiana. Nessun atto importante si poteva svolgere senza il loro intervento. Scendevano dai luoghi dove erano collocate per vegliare sui malati o sui moribondi, accompagnare i defunti al cimitero, aiutare una nascita, fare da testimoni solenni agli affari importanti come alle piccole transazioni. Quando un giovane chiedeva la mano di una ragazza, i genitori benedicevano i fidanzati con l’icona di casa. Quando un membro della famiglia partiva per un lungo viaggio, tutti si radunavano davanti all’icona, sedevano, si raccoglievano in silenzio, poi si alzavano, si facevano il segno della croce e abbracciavano il viaggiatore augurandogli buon viaggio. La stessa icona, portata da un ragazzo, accompagnava la sposa quando, in carrozza, si recava in chiesa il giorno del matrimonio.

Liturgia

[…] I russi non si limitavano a fare il segno della croce su se stessi (portando la mano destra alla fronte, sul petto, sulla spalla destra e poi su quella sinistra, al contrario dei cattolici) ma, secondo l’abitudine dei primi cristiani, lo tracciavano anche sulle persone che erano loro care, sugli oggetti, sugli alimenti, per allontanarne le forze del male. I genitori facevano la croce sui figli, la sera, nei loro letti. Le donne la facevano al marito quando usciva per andare al lavoro: «Che Dio sia con te!».

Tutto ciò che era stato benedetto da un sacerdote, in Russia assumeva un valore sacro e, si potrebbe dire, magico. Spesso si dava l’acqua benedetta da bere ai malati. […] I pani benedetti erano di forma rotonda, più grandi e più spessi delle ostie usate dai cattolici, fatti con pasta fermentata. Vedove del basso clero, le prosphornia, li impastavano. Per celebrare la messa, il prete prendeva molti di questi pani e con la lancia liturgica ne staccava uno dopo l’altro cinque pezzi: il primo era dedicato a Cristo, il secondo alla Vergine, il terzo ai santi apostoli, profeti e martiri, il quarto ai vivi, il quinto ai morti. Dopo la messa i pezzetti di pane inutilizzati venivano distribuiti ai fedeli. Mangiarne significava compiere un atto di fede e conseguire la purificazione interiore. Per la domenica delle Palme, invece dei ramoscelli d’olivo, venivano benedetti rami di salice dai germogli argentei e lanosi. A Pasqua i fedeli facevano benedire dal sacerdote della loro parrocchia le uova dipinte, i kulic e i pascha.

Come in Europa all’epoca degli Antichi Regimi, in Russia i registri delle nascite, dei matrimoni e delle morti erano tenuti dalla Chiesa. Tutti gli atti di stato civile erano redatti da sacerdoti e quindi non si esisteva per l’Amministrazione senza aver ricevuto il battesimo. Perciò l’annullamento del matrimonio poteva essere decretato, e solo in casi molto rari e ben definiti, da un tribunale ecclesiastico che dipendeva dal Santissimo Sinodo.

Patriarca Tichon, Mosca

Contrariamente alla chiesa cattolica, la chiesa ortodossa non si era evoluta nei secoli. Un’arcaica austerità continuava a ispirare gli usi che essa imponeva ai suoi fedeli. […] Invece di una sola quaresima, la chiesa russa ne aveva quattro: la prima, corrispondente all’Avvento, precedeva il Natale (dal 15 novembre al 24 dicembre); la seconda, la Grande Quaresima, precedeva la Pasqua di sette settimane; la terza precedeva la festa di san Pietro (dal 7 al 28 giugno) e la quarta l’Assunzione (dall’I al 14 agosto). Oltre alle quaresime e alle vigilie delle festività, c’erano due giorni di astinenza la settimana: il mercoledì, giorno del tradimento di Giuda, e il venerdì, giorno della morte del Salvatore. In totale i periodi di magro assommavano a un terzo dell’anno. Durante le quattro quaresime erano vietati carne, latte, burro e uova.

[…] La maggior parte delle persone più evolute si prendeva grandi libertà con le regole e osservava il digiuno solo durante la prima e l’ultima settimana della Grande Quaresima. Non era necessario, per questo, sollecitare una dispensa speciale del prete. Mentre i cattolici interpretavano l’astinenza come un obbligo nei confronti della Chiesa, per i russi essa era solo una mortificazione che preparava alla festa. Di conseguenza, per prendere una decisione in proposito, si affidavano solo alla loro coscienza.

«Da voi » diceva Alexandr Vasilevic per un sì o per un no i devoti chiedono un privilegio, una dispensa, un consiglio al curato. Noi, nella maggior parte dei casi seguiamo la nostra ispirazione. Se fai il male, non è la parola del pope che può cancellare la tua colpa. Confessalo, ma non crederti perdonato. Sei solo davanti alla tua anima […]

[…] I russi non vedevano nei preti delle guide spirituali, capaci di alleggerirli delle loro colpe e di illuminarli sul cammino da seguire, ma dei semplici custodi dei riti e direttori di preghiera, dei dispensatori di sacramenti. Questo era confermato anche dal fatto che nelle chiese non esistevano pulpiti da cui il prete potesse predicare al suo gregge. I sermoni erano rari e nella maggior parte dei casi riservati ai membri dell’alto clero. Il commento ai Vangeli, che nella chiesa cattolica era fatto dal prete, era sostituito dalla lettura dei Padri della Chiesa o di qualche trattato approvato dal Santissimo Sinodo, libri spesso intessuti di locuzioni in slavo antico e quindi incomprensibili alla gente. Perciò, anche quando prendeva la parola per rivolgersi alla folla, il sacerdote non entrava in comunicazione con essa, ma restava una voce che recitava un testo sacro. Vestito dei ricchi abiti sacerdotali, era troppo lontano dagli umili mortali per suscitare la loro fiducia, mentre nella vita quotidiana era troppo vicino a loro perché potessero pensare di venerarlo. Aveva moglie e figli come gli altri uomini, la sua barba lunga e trascurata, la sua povertà, le sue preoccupazioni domestiche facevano sorridere. Il problema sorgeva, molto probabilmente, dalla divisione del clero ortodosso in clero secolare o bianco e clero monastico o nero. Il clero monastico era votato al celibato e nel suo seno venivano reclutati gli alti dignitari della Chiesa, mentre il clero secolare forniva i sacerdoti delle parrocchie che erano tenuti all’obbligo del matrimonio.

Cattedrale di San Basilio a Mosca

Nel clero monastico c’erano tre gradi: i monaci, i preti-monaci e i vescovi. I monaci e i preti-monaci trascorrevano la vita in convento in regime molto austero: non potevano mai mangiare carne, per esempio, se non in caso di malattia. Cominciavano dalla condizione di conversi (poslusnikì) e dopo un lungo periodo di attesa e di studio pronunciavano definitivamente i voti e diventavano monaci (monach). Naturalmente, c’erano diversi livelli nella gerarchla sacerdotale-monacale: diacono (hiérodiacono), prete-monaco (hiéromonaco) e infine archimandrita (grado intermedio fra il vescovo e il monaco). Per essere ordinati archimandriti si doveva possedere un titolo accademico di maestro o dottore in teologia, ma anche per essere semplice diacono bisognava aver seguito gli studi in seminario.

Ai più alti livelli della piramide ecclesiastica stavano i vescovi, gli arcivescovi e i metropoliti. Tutta la Russia era divisa in eparchie o diocesi amministrate da un arcivescovo (archepiscop) o da un vescovo (episcop). Le tre eparchie più importanti erano dirette da un metropolita: erano quella di Novgorod e San Pietroburgo, quella di Mosca e quella di Kiev, in ordine di importanza. In ogni eparchia funzionava un concistoro presieduto dal vescovo. Il clero secolare delle campagne e delle città era posto alle dipendenze di questo alto prelato del clero monastico.

Il clero secolare o bianco, parrocchiale, si suddivideva invece in protohierei (arcipreti), alcuni dei quali portavano la mitria episcopale durante le funzioni; hiérei, o preti, detti comunemente popi; protodiaconi, in genere al servizio di un vescovo, e diaconi. Tutti i membri di questo clero dovevano portare la barba e i capelli lunghi ed essere sposati. Se la moglie moriva, non potevano però risposarsi e in genere si ritiravano in un monastero: per questo, in genere si prendevano molta cura della loro compagna. Il clero parrocchiale era sottoposto gerarchicamente al vescovo della diocesi. Il vescovo trasmetteva le sue direttive ai sacerdoti attraverso il concistoro. Ogni parrocchia aveva la sua chiesa, affidata a un curato (pope), un diacono assistito da un lettore di salterio (psalomscik) e un sacrestano (ponomar).

Anche il clero parrocchiale veniva reclutato fra gli allievi dei seminari e delle scuole o accademie di teologia. C’erano un seminario in ogni diocesi e quattro accademie di teologia in tutto l’impero. Per essere ordinato prete, bisognava aver completato il corso di studi del seminario con il grado di baccelliere in teologia. Le accademie servivano in generale a formare futuri alti dignitari ecclesiastici, cioè dei monaci.

Mentre i monaci potevano aspirare, con il celibato, a una brillante carriera, i sacerdoti ordinari, sposati, accettando la loro carica abdicavano a ogni ambizione personale. La regola pretendeva che restassero legati per tutta la vita a una chiesa senza aspirare né ad avanzamenti né a trasferimenti in una regione più amena o più ricca. La somma che il Santo Sinodo passava loro era un salario da fame, 60 rubli l’anno, cioè 162 franchi-oro. Con esso dovevano anche provvedere al mantenimento della loro numerosa famiglia, occuparsi in qualche modo della scuola del villaggio, curare i contadini quando mancava un medico e correre a celebrare battesimi, funerali e matrimoni. Poiché non esistevano tariffe fisse per queste cerimonie religiose, ognuno pagava ciò che voleva, in genere il meno possibile.

Mantenuti in una condizione di subalternità dai loro capi ecclesiastici, difficilmente i sacerdoti potevano aspirare alla stima dei loro parrocchiani. I fedeli chiedevano loro semplicemente di avere un’aria maestosa, una bella barba e una voce forte e grave.

Invece i monaci erano profondamente venerati dal popolo. Erano istruiti, lontani, misteriosi, conducevano una vita ascetica e contemplativa. Li si credeva capaci di fare miracoli, si andava nei monasteri a chiedere loro consigli. I monasteri più grandi si chiamavano lavra (laura), i più piccoli skit o pustyn (romitaggio o deserto). Ma non esistevano ordini religiosi come nella chiesa cattolica, niente di paragonabile alle potenti congregazioni d’Europa, con loro diversi abiti, le loro rigide regole, la loro dimensione internazionale. Il monaco russo non aveva altro desiderio, ritirandosi dal mondo, che quello di espiare i peccati del mondo con la preghiera. […]

In piena notte, secondo la regola, i monaci si radunavano per cantare il mattutino. Le preghiere in comune erano numerose e recitate con puntualità. Al refettorio, il silenzio era turbato solo dalla voce del monaco o del novizio che leggeva la vita del santo che veniva venerato quel giorno. Grazie ai sussidi dei mercanti, degli industriali e dei contadini agiati, il convento manteneva una scuola, un ospedale e un ospizio per gli orfani. Vicino al monastero, nella foresta, si trovava uno skit, un piccolo agglomerato dove alcuni monaci, desiderosi di praticare l’ascesi, vivevano in una solitudine e una pace esaltante. Una palizzata con porte adorne di icone circondava quel rifugio di alta spiritualità. Celle bianche, aiuole fiorite, viali di cedri, stagni, chiesa, arnie, cimitero, tutto sembrava pacificato dalle orazioni quotidiane. Ciononostante, non erano né la bellezza del paesaggio né il fervore degli uffici celebrati in quel luogo ad attirare tanti pellegrini verso il monastero ma la straordinaria fama del suo starec

La parola starec in russo significa vegliardo ma, al contrario del termine corrente starik, evoca una idea di dignità morale, di serena esperienza. Lo starec era in genere un monaco anziano che aveva acquisito con la meditazione e la preghiera la capacità di comprendere e guidare coloro che si recavano da lui nel dolore. Poteva essere il superiore del convento o semplicemente assistere il superiore nella sua carica, ma era comunque la guida spirituale della confraternita. Lo starec non era necessariamente prete: se non lo era, i fedeli si rivolgevano a lui con la stessa spontaneità e umiltà che se fosse stato ministro di Dio, però si confessavano regolarmente da un altro.

La diffusione degli starec era così notevole in Russia che i più celebri di essi ricevevano dalla mattina alla sera, nelle loro celle o nel parlatorio, masse di peccatori alla ricerca della verità. Malati del corpo o dell’anima, illetterati ottusi o intellettuali tormentati, ricchi mercanti o pellegrini affamati, tutti volevano essere illuminati, elevarsi, a contatto con il vecchio saggio. Il suo parere veniva richiesto su quasi tutti i problemi della vita quotidiana: una posizione da accettare o da rifiutare, un progetto di matrimonio, una vocazione religiosa, una lite familiare, un amore tradito, un delitto nascosto… Talvolta, prima ancora che il nuovo venuto gli avesse confidato il suo problema, lo starec lo indovinava e gli rispondeva con una parola rasserenante, con uno sguardo ispirato, con un sorriso.

 

HENRI TROYAT

Da “In Russia al tempo dell’ultimo Zar” – Fabbri Editore

Foto: Rete

 

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