
Maria Odigitria tra profeti, 1512-13, da Vallacchia
Nilo si riduce a vita solitaria. Sua asprissima penitenza, e tentazioni dai demoni.
Ma il nostro santo padre Nilo ogni di più crescendo e avanzando nei gradi della divina perfezione si accese di un grande amore per la vita solitaria, madre di tutte le virtù, anelando di acquistar per quel mezzo ricchezze ognor maggiori e più alta sapienza. Esposto questo suo divisamento a quei Padri, per fare ogni cosa dietro il loro parere, venne di comune consenso approvato, facendone anche essi orazione a Dio. È non guari distante dai monasteri una spelonca, incavata nell’alto di una rupe, ed entro un altare dedicato al nome dell’Arcangelo san Michele; luogo quindi quanto mai acconcio al ritiro per chi vi è chiamato (45). Ora in cotesta spelonca sen venne tutto allegro e risoluto quel generoso, armato dello zelo di Elia, della forza di Eliseo e della pazienza degli altri Santi. Quivi stavasi tutto solo, non ammettendo seco altri che Dio, anzi tenendosi di continuo alla sua presenza come se lo vedesse, sebbene invisibile. In tale stato si dette a molti e grandi esercizi con animo generoso, risoluto di riprodurre in sé le virtù e le mirabili imprese dei Santi e dei Giusti, che in quello stadio lo aveano preceduto. E non v’ha chi le possa o narrare a parole oppur descrivere con la penna, poiché furono da lui di nascosto consecrate a Colui il quale solo vede l’occulto; soltanto potrà taluno congetturarle dal premio che egli ne percepì, o vogliam dire da quella gloria che quasi paterna eredità egli riportò da Dio; perocché fu detto: Il Padre tuo che vede l’occulto, ti ricambierà in pubblico (46), ed altrove: Chiunque mi glorificherà, sarà da me glorificato (47). Ed infatti chi mai ai nostri giorni ha ricevuto tanta gloria ed onore, quanto questo beato uomo, non solamente da re e principi cristiani, da patriarchi e da vescovi, da connazionali e da stranieri, ma eziandio da sovrani infedeli, vale a dire da capitribù di Saraceni, i quali s’inchinavano al solo nome di lui che pur non aveano la sorte di conoscere personalmente? (48).
Tutto ciò vale a dimostrarci l’accesissimo amore di Dio in quest’uomo, la sua profonda umiltà, i molti digiuni, le veglie, le prostrazioni, i maltrattamenti d’ogni maniera fatti del proprio corpo, nonché le vivissime tentazioni e i combattimenti tanto invisibili nello spirito, quanto sensibili nella carne a causa delle infermità inflittegli dai maligni spiriti, per vederlo innalzarsi a quell’altezza, onde essi erano caduti. Ma poiché delle molte e grandi sue geste è pur mestieri ricordare le poche, che quella lingua, incapace di mentire, riferì a noi (che contro nostro merito egli amava di cuore, e questo a scopo di animarci al desiderio di maggiori virtù, come i maestri degli atleti e dei guerrieri sogliono fare con i loro allievi), perciò noi questo appunto ci proponiamo narrare a coloro che ne vogliano trar profitto; e non già grandi miracoli e prodigi, alla cui narrazione si commuovono gli spiriti poco elevati e gli stessi infedeli; ma sibbene gl’innumerevoli stenti e travagli, dei quali si gloriava l’Apostolo. Quantunque queste medesime cose a chi non le abbia sperimentate, apparranno incredibili; laddove chi ne abbia fatta esperienza, verrà tanto più eccitato ad imitarle e sentirassi acceso a ricordarle.
Adunque quell’angelo in carne sottomise l’anima e lo spirito alla legge dello spirito, non mai anche menomamente permettendo che la mente si intrattenesse in cose basse e di terra, ma solo in meditare la legge di Dio, e cercare di tutto cuore di adempirne i comandamenti. Assoggettò anche la carne, imponendole assaissime leggi, e riducendola a dura servitù, affinché si prestasse ossequente e maneggevole al cenno di chi la comandava. Imperocché l’assuefece a cibarsi solo ogni due o tre, e perfino ogni cinque giorni, e questo stesso eziandio meno del bisogno, e qual che si fosse, e, nonché mai ad adescarla col solletico di cose gustose, astenersi altresì dal vino e da ogni vivanda cotta. Macerò altresì la carne con le veglie, le salmodie, standosi in piedi le intiere notti senza mai sedersi, ma facendo frequenti genuflessioni. Sebbene poiché eziandio nelle opere buone s’insinua l’astuzia del demonio che incita gl’inesperti a darsi ad esse fuor di misura, egli si regolava con questa norma: che, quando avesse trascurato delle pratiche che si fosse prescritte, lo attribuirebbe a peccato di pigrizia e si richiamerebbe in dovere di compensare ciò che contro il consueto avesse tralasciato; quando poi un pensiero gli avesse insinuato di fare qualche cosa oltre l’ordinario, l’avrebbe egli ritenuto per un inganno diabolico epperò da fuggirsi. Pertanto dal mattino fino ad ora di terza si esercitava egli a scrivere corsivo (49), con un carattere minuto e compatto, empiendo un quaderno al giorno; il che faceva per adempire il comandamento di lavorare (50). Per ricevere poi insieme con gli Apostoli la grazia dello Spirito Santo, se ne stava fino a ora di sesta presso la croce del Signore, in compagnia di Maria e di Giovanni, recitando il salterio, e facendo migliaia di genuflessioni, con che altresì obbediva al precetto che ci comanda di pregare senza intermissione (51). Dall’ora di sesta sino a nona, egli seduto leggeva e studiava la legge del Signore (52) e le opere dei Padri e Dottori; secondo che scrive l’Apostolo: Attendi alla lettura (53). Recitata l’ora di nona, ed offerto a Dio l’incenso dell’inno vespertino (54), usciva fuori a passeggiare per sollevarsi e ricreare alquanto i sensi affaticati dalla lunga giornata, richiamandosi anche sulle labbra il detto dell’Apostolo: Invisibilia Dei per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur (55): Le invisibili grandezze di Dio all’intelligenza si rendono visibili per mezzo delle cose create: e quel che altrove è scritto, che cioè si comprende il Creatore dalle visibili bellezze da lui create (56). Mandava pure a memoria molte parole e sentenze del Nazianzeno e di altri Dottori per tenere sempre esercitata la mente, che non si divagasse in pensieri inutili, e al tempo stesso, per aguzzare con lo studio ognora più l’intelletto. Calato il sole, si recava alla sua mensa, la quale consisteva in una pietra oltremodo grande, sopra cui stava per piatto il fondo di un coccio, e quivi rese azioni di grazie prendeva quel nutrimento che si trovava, quando semplice, con acqua anche a misura, e quando legumi cotti e nulla più: in tempo però che gli alberi fruttificano, egli si teneva contento a quei soli frutti. Ma in ciò di sovente dovea fare una gagliarda violenza a se stesso, per stare solo a baccelli di quercia silvestre, a bacche di mirto e di corbezzolo e a simile fruttame: sebbene infine, ripugnandovi da padrone il ventre, divenuto propriamente come una pelle assiderata, tornava di nuovo all’uso del pane. Ma che più dire? Sperimentò egli tutte le maniere di vita, che conobbe tenersi dai diversi antichi padri. Per verità quaranta giorni non li passò mai digiuno, tanto perché temeva la malignità di coloro che lo lodassero (57), quanto per ispezzare il pericolosissimo corno della superbia. Del resto percorse fino i sessanta giorni mangiando in tutto solo due volte; il che aveva appreso farsi da una piissima donna presso le storie di Teodoreto: e così per propria esperienza capì che quel fatto colà scritto era vero. Passò anche un anno meno un mese, senza gustare pur alcunché di liquido, mangiando pane raffermo ogni sera al tramonto del sole; dal che egli conseguì due grandi vantaggi. Ed in prima serbò egli con questo la temperanza, una delle virtù; dappoiché sommamente aspirava a preservare il suo corpo dai naturali efflussi, per il quale tanto ha combattuto la più parte dei Santi; al che fare molto aiuta, come disse alcun di loro, lo scarso bere, sia pur semplice acqua. Oltracciò egli venne a chiuder la bocca a coloro i quali o dubitano o non credono agli stenti preternaturali messi in opera dai Santi Padri; poiché é vero pur troppo ciò che abbiamo udito di colui che stando all’ufficio del forno, per tre interi anni non bevve mai, nel quale esercizio poi finì la sua vita. E perciò il beato Padre con buona riflessione si ritrasse infine dal farlo, temendo che non gli pregiudicasse alla salute l’eccessiva siccità dei polmoni. Peraltro, come egli stesso affermava, il prolungare la sete, purché non fosse oltre l’ottavo giorno, non gli arrecava danno: e così secondo questo suo proposito mise in effetto quel che altresì recitava colle labbra: L’anima mia al suolo è distesa; dammi vita secondo la tua parola (58). E soggiungeva: Hai rianimato il mio spirito, e consolato sono vissuto (59). Conferma poi la nostra asserzione colui che disse: La sete cura la sete, ma la fame non toglie la fame. Eppure passava egli tutta la santa quaresima senz’altro cibo, dalla sola eulogia (60) in fuori, appunto per potere ogni giorno domandare il pane sustanziale (61); nei quali giorni altresì bene spesso neppure beveva. E come passava con questo rigore di penitenza inviolabilmente la giornata, così del pari passava la notte, nella quale con un’ora sola soddisfaceva, al debito del riposo, poiché non avrebbe potuto altrimenti digerire il cibo; e spendeva il restante di quel tempo nella recita del salterio, nel fare cinquecento prostrazioni e nel cantare gl’inni del mesonittico (62) e del mattutino. Conciossiachè bene spesso tra sé lottando così ragionava: «Quelli che abitano nei monasteri, il giorno attendono ai lavori, eppure quotidianamente digiunano, e la notte poi la passano vegliando in leggere e cantare tanti e tanti inni: e per soprappiù fanno poi elemosine ed esercitano l’ospitalità. E per noi all’incontro che poltriamo in questa pretesa solitudine, se la nostra giustizia e il nostro amore per Dio non soprabbondi al loro, sarà vana ogni speranza, e senza scopo la nostra vita».
Tutto il suo vestire consisteva in un sacco tessuto di pelo di capra, di che ne aveva due per mutarlo da un anno all’altro, e una fune per cinta che non scioglieva se non se una volta l’anno; sostenendo con fortezza senza ribrezzo il prurito d’innumerevoli e fastidiosi insetti. Sorgeva dinanzi alla spelonca una pianta, dove avea fatto nido un gran formicaio. Or alla pianta appeso egli il cilicio, lo purificava da quei vermi, come si conviene chiamarli, dall’essere stati tanto insolenti per un anno, i quali perciò venivano così giustamente gastigati dalle formiche del tormento arrecato a quel Giusto. Non aveva egli né letto, né seggiola, né arca, né cassa, né borsa, né bisaccia, anzi neppur un calamaio, egli che pur tanto scriveva; ma in quella vece spalmata della cera entro un pezzo di legno, con questo egli portò a luce e bene questo gran numero di libri (63).
Quanto fin qui mi sono dato opera a raccontare, ben poca cosa riguardo a Lui, ma rispetto a noi anche troppo, non l’ho fatto perché con ciò si aggiunga qualche cosa a Lui, ma perché si capisca fino a qual segno spingesse l’esercizio delle virtù intraprese, della povertà, della mortificazione, delle veglie, delle orazioni, mercé le quali addivenne vera e somigliantissima imagine di Dio. E poi chi può intendere a dovere e molto meno ridire i profluvî di calde lagrime, gli amari sospiri, quel tanto percuotersi il petto, e dare anche della fronte sul suolo? E i rimproveri, le beffe, le contumelie, gli oltraggi che ei si faceva, divenuto inimico a se stesso, nonché poi le insidie, i combattimenti, gli assalti sostenuti dai demonii or con pensieri, or con visibili apparizioni, or con gravi malattie le quali estremamente lo tormentavano anche nel corpo: cose tutte queste, che starei per dire, neppur egli che le soffrì, sarebbe al caso di riferirci. Assai volte venne egli gagliardamente tentato dai demoni a lasciare la solitudine e tornare al monastero per poi canzonarlo quasi un vigliacco disertore. Allorché dunque veniva da loro all’estremo angustiato (poiché tant’era la violenza dei pensieri che gli facevano credere di esser talmente gonfio (64) che la spelonca nol potesse più contenere) egli toltosi in mano l’altro peloso indumento, che teneva in disparte per l’anno appresso, lo appendeva ad un virgulto (poiché non aveva pure un bastone da sorregger la vita), e disceso giù sino a mezza strada, ove sorgeva un altissimo albero, s’imaginava che quello fosse il suo santo Fantino o alcun altro dei santi Padri del monastero. Per il che fattogli innanzi un profondo inchino, poscia come se dal Padre venisse interrogato quivi si fermava a rispondere sulla cagione della sua discesa; ed in questo si figurava che quegli e gli altri del monastero lo burlassero e gli dicessero: «Ecco il bravo solitario!!». Con questi argomenti e confutativi ragionari d’una parte e dall’altra, superati gl’inimici suoi assalitori, se ne tornava alla spelonca, come fosse la sua prigione, e più che mai fermo diceva a se stesso: Mi torna più conto a morire, anziché alcuno renda vana la mia gloria (65).
Anche spesso, standosi in orazione o salmeggiando, dicevangli i suoi pensieri: «Guarda là all’altare… Chi sa che sopra non vi vegga qualche angelo?… Qualche fiamma di fuoco?… Lo Spirito Santo?… Come ve l’han veduto ben altri molti…». Allora egli chiudeva gli occhi e tanto affaticavasi in questo, che per la copia delle lacrime e per le molte prostrazioni, risolvevasi tutto in sudore da bagnarne la terra. Accesegli anche tal fiata l’inimico un cocentissimo ardore nella propria carne; ed egli allora a forza di voltolarsi tra le spine e le pungenti ortiche estingueva così la libidine col dolore. Una volta messosi egli a sedere per riposarsi dall’estrema fatica di una prolungata veglia, gli si presentarono due demoni, con un altro che si tenevano fra loro; al quale sparato il ventre ed estrattone le interiora, le gettarono dinanzi sotto gli occhi di lui. Ed il Santo levatosi di sedere tutto tremante, cominciò per lo ribrezzo a vomitare amarissima bile: ma per questo si tenne poi meglio in guardia per l’appresso.
Recatosi inoltre una volta in Roma per sua divozione (66) e per consultare certi libri, gli venne veduta di passaggio nella chiesa di S. Pietro un’alemanna di alta e corpulenta statura. Ora gli spiriti maligni glie ne aveano così tenacemente impressa in mente l’imagine, che egli o salmeggiasse, o leggesse, o scrivesse, o in che altro mai si occupasse, aveala sempre dinanzi all’imaginazione. Insistendo cotesta battaglia, non sapeva omai più che fare contro gli assalitori, quando un giorno, ricorso a Dio gli venne esternando tutta la propria miseria: e gettatosi bocconi dinanzi l’altare con cuore umile e contrito ripeteva al Salvatore: «Signore, tu conosci la mia debolezza; abbi pietà di me: liberami da questa battaglia che mi muovono gl’impuri demoni; che io già per la soverchia stanchezza mi sto per morire». Così detto, standosi tuttora prostrato in terra, vedesi d’un subito dinanzi la santa Croce, e sopra essa affisso vivo Nostro Signore, se non che tra lui e la visione era un candido e sottilissimo velo. Allora ei pieno di timore cominciò ad esclamare a gran voce: «Chyrie eleyson: Signore abbi pietà di me: Signore, benedici il tuo servo». E il Signore spiccata la mano destra dalla Croce lo segnò con essa tre volte: con che, disparve la visione, e a lui cessò ogni battaglia ed ogni stimolo impuro. Per tal guisa ciò che non aveano potuto le molte astinenze dal cibo, dalla bevanda e dal sonno poterono l’umiliarsi e il riconoscere la propria debolezza (67).
Volgarizzazione di d. ANTONIO ROCCHI m. b.
Foto: Rete
NOTE
45 Il ch. dottor De Salvo contro alcuni (Marafioti, Minasi) che vorrebbero la spelonca, dedicata al sant’Arcangelo, fosse a metà del monte Aulinas, oggi S. Elia, sostiene essere ben altra, atteso la distanza di Monte S. Elia dalla regione Mercuriense, mentre qui si dice che lo speco non era guari distante dal monastero (V. Metaur. Taur. cit. pp l00-101, nota). E non si chiama questo né Monte, che pure quello è di notevole altezza, né di S. Elia, nome già celebre; né si accenna che vi avessero monaci, quali almen certo vi erano in quel tempo, come indica anche il ch. Nic. Oliva nei Cenni storici, preliminari alla sua Cantica, Il Monte Aulinas (Palmi, 1890, pp. 9-10). E qui al nostro vate rendiamo pubbliche grazie del poema già mandatoci in dono, congratulandoci per la sua fervida vena. Che poi in quella vicinanza del S. Elia il luogo sia detto Sambicele, ecc., non é ragione ferma per identificare in una le due località, potendosi avere il culto del S. Arcangelo anche in altri posti che non ne abbiano il nome. Ma storicamente, infine, non apparisce monastero sul monte, a cui Nilo per diverse bisogne urgenti vi si sarebbe diretto, il che pure non vi si accenna aver egli fatto mai. Quindi la roccia con la caverna e l’oratorio di S. Michele poté trovarsi, come indicherebbe il De Salvo, tra i due valloncelli di Sidaro e di Prato (1. c.).
46 Matt. VI, 3, secondo il testo greco.
47 I Reg. 2.
48 Allude l’autore anche ad un fatto che si narrerà in appresso.
49 Questo per mio avvisò significa l’avv. οξέως: e il biografo l’usò per indicarci che il Santo non usava carattere maiuscolo (unciale o di edizione) quasi per vendere i suoi scritti, ma solo per osservare il precetto del lavoro, come appresso s’aggiunge.
50 Preciso è in S. Paolo questo precetto II Thessal. III, 10. Si quis non vult operavi, nec manducet.
51 I. Thess. V, 17 : Sine intermissione orate.
52 Intendi la Sacra Scrittura.
53 I. Tim. IV, 13: Attende lectioni et doctrinae.
54 Osservisi che i Greci uniscono alla recita di Nona immediatamente il Vespero. Questo è denominato incenso vespertino dalle parole del Sal. CXL, 2.
55 Rom. l, 20.
56 Sap. XII, 7.
57 Si può lodare a fin di male; attesoché egli è scritto: «Non est speciosa laus in ore peccatoris» (Eccli. XV, 9).
58 Ps. CXVIII, 16.
59 Is. XXXVIII. 16, secondo il LXX.
60 Sono i residui del pane da cui si estrae la parte che serve al Sacrifizio, che il sacerdote benedice nella messa e distribuisce dopo quella ai fedeli.
61 Così nel Pater noster, in S. Luca XI, 5, la voce επιούσιον fu tradotta quotidianum, in S. Matt. VI, 11, supersubstantialem.
62 Una delle ore canoniche dei Greci detta μεσονυκτικόν o di mezzanotte, nominato così dal tempo nel quale a un dipresso si suole recitare, a imitazione di Davide (Sal. CXVIII, 62), e di S. Paolo (Act. XVI, 25). Di quest’orazione parla e l’ordina a’ monaci anche S. Basilio (Reg. fus. tract. inter. XXXVII).
63 Questa espressione c’induce a pensare che molti scritti di lui si possedessero, quando il biografo scriveva. Da noi tre soli volumi si conservano, opera del S. Padre, riconosciuti autentici da valenti periti, e degni da tenersi in conto di preziosa reliquia. Vedi la nostra «Badia», Roma, 1904, § VII, Gli studi monastici. In uno dei quali è questa data storica: «L’anno 6473 del mondo (di C. 965) l’esercito di Manuel patrizio ebbe una rotta presso Rametta (in Sicilia); e la stessa Rametta venne presa, e fu un grande eccidio. E per mano di Nilo monaco fu scritto il libro di S. Doroteo». Cotesta disfatta con più la morte del medesimo patrizio è confermata da storici bizantini (Rocchi, Codd. Crypten. p, 104).
64 Ciò intendi, si dice per riguardo all’effetto che ciò produceva nella sua imaginativa. Ché di cotesto infine altri non fu testimonio, all’infuori del Santo stesso che tali cose narrò al suo discepolo.
65 I Cor. IX, 15.
66 Ciò faceva egli in ispecie, per visitare le tombe dei Ss. Apostoli, Pietro e Paolo, di cui era divotissimo: come vedremo altra volta.
67 A questo fatto allude l’affresco del Domenichino nella Cappella Farnesiana in Grottaferrata: Il san Nilo in orazione.