Carnevale è moribondo

Anche il destino del Carnevale sembra ricalcare quello di San Valentino e delle feste del consumo indotto. Un tempo il Carnevale era una meteorite che sconvolgeva la struttura dell’antico februarius, e meteorite è stato anche per il calendario liturgico cristiano col quale armonizza solo superficialmente, per non dire con difficoltà, come testimoniano i tentativi di esorcizzarlo persino da un punto di vista etimologico. Si è sostenuto infatti che il suo nome derivi da carni levamen, «sollievo alla carne» e dunque «libertà temporanea concessa agli istinti elementari»; oppure da carnes levare, «togliere le carni»; o ancora da carni vale!, «carne addio», in riferimento alle orge gastronomiche che esaurivano le ultime scorte di carni prima della primavera. Dunque, Carnevale sarebbe sinonimo di periodo orgiastico, di sregolatezza.

Certo, in ogni Carnevale si riscontrano eccessi alimentari e sessuali, e perfino violenze che sembrano assumere la pura funzione di valvola di sfogo per l’istintività repressa nel resto dei mesi: il semel in anno licet insanire, parentesi nello scorrere ordinato dell’anno. Anche uno studioso delle religioni come Rene Guénon accetta questa interpretazione attribuendo alla ricorrenza la funzione di valvola di sfogo. «Si tratta insomma» scrive «di canalizzare in qualche modo tali tendenze e di renderle il più possibile inoffensive dando loro l’occasione di manifestarsi, ma soltanto per periodi brevissimi e in circostanze ben determinate, e assegnando così a questa manifestazione stretti limiti che non le è permesso oltrepassare. Se infatti queste tendenze non potessero ricevere quel minimo di soddisfazione richiesto dall’attuale stato dell’umanità, rischierebbero, per così dire, di esplodere e di estendere i loro effetti all’intera esistenza sia dell’individuo sia della collettività, provocando un disordine molto più grave di quello che si produce soltanto per qualche giorno riservato particolarmente a questo scopo.»

Si tratta però di interpretazioni riduttive e fuorvianti: riduttiva quella che considera il Carnevale una valvola di sfogo degli istinti repressi e controllati per il resto dell’anno perché, come ha osservato Giuseppe Sanga, «i comportamenti carnevaleschi non sono liberi ma costretti: si deve ridere, si devono scatenare gli appetiti non solo e non tanto in forma rituale, quanto in forma eccessiva. E l’obbligo dell’eccesso si trasforma in quel sottile senso di inquietudine e di angoscia che pervade i Carnevali tradizionali». Fuorviante è quella guénoniana perché sembra paradossalmente condizionata (lo scrittore francese non era cattolico) dalla diffidenza della Chiesa verso il Carnevale.

D’altronde, lo sono anche altre interpretazioni, a cominciare da quella di Paolo Toschi che, riduttivamente, vi vede un rito di propiziazione agricola. Né convince la tesi di Michail Bachtin secondo il quale il Carnevale sarebbe una valvola di sfogo politico e di controllo sociale perché permette che gli umori egalitari e antistituzionali riaffiorino nei riti dell’inversione sociale, dove i servi diventano padroni.

La ribellione può essere, è vero, innescata dai riti dell’inversione sociale, come è avvenuto infatti in occasione di alcuni Carnevali (classico è, a questo proposito, quello di Romans, narrato da Emmanuel Le Roy Ladurie); ma non ne è un tratto essenziale.

Prima di ricostruire il volto del Carnevale occorre precisare che, così come ci è giunto alle soglie del Novecento, è una contraffazione edulcorata di quello autentico. D’altronde, anche così degradato, è oggi moribondo nonostante gli sforzi di richiamarlo in vita artificialmente, come tutte le feste che sono diventate semplici occasioni di comportamenti «festosi» perdendo la loro peculiarità. In latino il dies festus, il giorno di festa, era dedicato agli dei, alle cerimonie religiose e alle usanze più o meno gioiose che vi erano connesse. Testimoniava una cesura del tempo lineare, un ritorno del tempo mitico: memoriale che ri-attualizzava un’epifania sacra. Analogamente, di là dalle differenze religiose, la festa veniva vissuta nella cristianità, e ancora oggi è così intesa nelle comunità cristiane, diventate isole nella società secolarizzata dove i giorni scorrono disperatamente eguali nell’alternanza monotona di tempo lavorativo e di vacanze, intese come tempo libero da impegni.

Certo, la psiche, che avverte pur oscuramente la presenza di archetipi non estirpabili, non riesce a adattarsi alla concezione strumentale del tempo, sicché da questo rimosso nasce la nevrosi collettiva del «festoso», caricatura sinistra da cui ogni persona dabbene non può non ritrarsi inorridita cercando di vivere, per quanto possibile, in comunità che rispettino la sacralità delle feste, oppure rifugiandosi nel mondo dell’immaginale, là dove intatto scorre, indifferente al formicolio di lampyrides nel corpo dell’anno, il tempo nel suo ciclico fluire.

 

ALFREDO CATTABIANI

Da “Calendario”- Mondadori

Foto: Rete

Ti potrebbero interessare:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Close