Le Sirene: donne, morte e seduzione

Le sirene e Odisseo. Stámnos attico a figure rosse rinvenuto a Vulci – V secolo a.C.

Mentre la nave di Ulisse si avvicinava all’isola sulla quale abitavano le Sirene “a un tratto il vento cessò; e bonaccia / fu, senza fiati: addormentò l’onde un dio” (Od., 12, 168-169).

Così scrive Omero. Un silenzio irreale, stregato avvolge la nave, l’aria è immota sotto “la vampa del sole, il sire Iperione” (Od., 12,176). E in questa calma minacciosa ecco improvvisamente alzarsi il canto ammaliatore delle Sirene:

Qui, presto, vieni, o glorioso Ulisse, grande vanto degli Achei,

ferma la nave, la nostra voce a sentire.

Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,

se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce;

poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.

Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia

Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;

tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice. (Od., 12, 184-191)

Così cantano le Sirene. Ma Ulisse ben sa che esse

… gli uomini

stregano tutti, chi le avvicina.

Chi ignaro approda e ascolta la voce

delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli,

tornato a casa, festosi l’attorniano,

ma le Sirene col canto armonioso lo stregano

sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri

umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano. (Od., 12,39-46)

A chi avesse in mente l’iconografia moderna delle Sirene – donne con la parte inferiore del corpo in forma di pesce – questi versi potrebbero creare qualche problema: per avvicinarle i marinai devono approdare, e le Sirene stanno sedute su un prato. Collocazione e posizione singolare, per delle donne-pesce.

Ma la tradizione che le trasforma in pesci, come è noto, è solo medievale. In Omero, così come in Ovidio e più in generale nell’antichità classica, le Sirene sono donne con ali di uccello.

Sirena in una statua funeraria del I secolo a.C. proveniente da Myrina.

Quale sia la loro genealogia è cosa incerta. Le tradizioni sulla loro nascita sono diverse: a volte esse sono figlie di Melpomene e del fiume Acheloo, altre volte di Acheloo e di Sterope, altre volte ancora di Acheloo e di Tersicore.

Ugualmente incerto il loro numero: in Omero sono due, ma nelle tradizioni posteriori diventano tre, o anche quattro. Quando sono tre si chiamano Pisinòe, Aglaòpe e Thelxièpeia (ovvero Parthenope, Leucosla e Ligheia). Quando sono quattro si chiamano Telès, Raedné, Molpè e Thelxiòpe. Incontroverso, invece, il luogo in cui abitavano: tre isolette rocciose, tre scogli sulla costa tirrenica dell’Italia, tra la punta della penisola amalfitana e Capri.

Ma torniamo al loro aspetto. Donne-uccello come le Arpie, altre figure semiumane, a loro volta dal numero incerto, anche se a volte ne compare una terza, di nome Celaeno, in genere sono due: Aellò (Burrasca), a volte detta Nicothoè (Vola veloce) e Ocypètes (Oscura).

Nota, invece, la loro discendenza: figlie di Thaumas e di Elettra, figlia di Oceano, le Arpie appartengono alla generazione divina preolimpica e abitano le isole Strofadi, nel mare Egeo, ove – come peraltro in tutta la Grecia – godono pessima fama: rapitrici di bambini e di anime, esse conducono i morti nell’aldilà.

Donde la loro frequente rappresentazione sui monumenti funebri. Al pari delle Sirene.

Per i Greci, infatti (dimentichiamo Omero, per un momento) le Sirene – che così appaiono in numerose rappresentazioni, a partire dall’VIII secolo – sono demoni dell’oltretomba. Non sono affascinanti, come le Sirene omeriche. Sono uccelli sgradevoli, dalla voce gracchiante, con cui intonano lamenti funebri per ordine di Ade o di Persefone. Non vivono su un prato fiorito, ma nell’Ade, e qui accompagnano le anime nel viaggio nell’Oltretomba.

Una rappresentazione per noi sorprendente, per capire la quale è necessario aprire una parentesi sulle personificazioni greche della morte: la più celebre delle quali, forse, è Thanatos. Figlio di Notte e gemello di Sonno (Hypnos), Thanatos è molto diverso dal fratello: Sonno percorre pacificamente terre e acque ed è dolce con i mortali; Thanatos invece ha cuore di ferro, spirito di bronzo e petto implacabile. Una volta afferrato un essere umano, lo tiene con sé per sempre, odiando persino gli dèi.

Personaggio inevitabilmente temibile, Thanatos ha tuttavia tratti meno terrificanti di altre rappresentazioni della morte: più specificamente, di altre rappresentazioni della morte di genere lessicale e dal volto femminile.

Canto delle sirene

Morte e Sonno infatti hanno una sorella, Kera (a volte Kere, al plurale), la nera morte che terrorizza, rendendo insostenibile l’idea di un destino che pure, quando ha genere e volto maschile, viene in qualche modo accettato, con filosofica rassegnazione di fronte all’ineluttabile. E lo stesso vale per Gorgo, il mostro dal volto di donna e dallo sguardo che pietrifica, il cui solo pensiero indurrà Ulisse – quando sarà costretto a visitarlo – ad abbandonare precipitosamente l’Ade (Od., 11, 633-63S).

L’associazione stabilita dai Greci fra la morte e le donne è veramente inquietante. Ma (pur continuando a turbare: anzi, forse turbando ancor di più), comincia a chiarirsi non appena si pensa al loro complesso e difficile rapporto con il genere femminile.

Per i Greci, le donne sono “altro”, sono diverse e inconoscibili. Diverse al punto da appartenere a una razza separata da quella degli uomini.

Racconta Esiodo, nella Teogonia (w. 561 sgg.), che un giorno Zeus mandò tra gli uomini la prima donna, Pandora. E la mandò per punirli: più precisamente per punire il furto commesso da Prometeo, che aveva rubato il fuoco agli dèi.

E così, fra gli uomini, andò Pandora, “il male così bello” (v.585), che, racconta Esiodo nelle Opere (w. 65 sgg.), Zeus aveva costruito a immagine di una casta vergine, cui Atena aveva insegnato l’arte femminile della tessitura, e Afrodite aveva donato “grazia” (charis) e “desiderio struggente” (pathos argaleos).

Ma Pandora aveva ricevuto anche altri doni: “mente di cane”, “indole ambigua”, “menzogne” e “parole incantataci” (logoi haimylioi). E le riusciva facile ingannare gli uomini: non per niente era stata costruita come una “trappola senza scampo” (dolos amechanos), che moltiplicata nelle generazioni, continuava a minacciare gli uomini: da Pandora, infatti, discende il ghenos gynaikon, la razza delle donne.

Una razza diversa, dicevamo: come la morte, le donne sono l’alterità che non si può comprendere. E come tutto quel che è incomprensibile e incontrollabile, sono pericolose. Sempre, anche quando sono apparentemente (e falsamente) attraenti.

Eccoci di ritorno a loro, le Sirene. In Omero, l’inquietante rassomiglianza con le Arpie scompare. Le Sirene diventano incantatrici dalla voce melodiosa, che seducono i marinai chiamandoli, invitandoli sulla loro isola fiorita: ovviamente con esiti letali. Chi ascolta il loro canto non tornerà mai più alla sua casa, dalla sua famiglia: il suo cadavere imputridirà sull’isola, dove le sue ossa resteranno a biancheggiare al sole.

A questo punto, si impone una prima domanda: come si spiega questo cambiamento di scena? Perché i gracchianti demoni infernali diventano irresistibili incantatrici?

Quanto abbiamo visto sull’uso dei temi folklorici nel racconto di Ulisse indica una risposta. Nel repertorio dei temi popolari, molte sono le figure femminili pericolose: accanto a quelle che portano alla rovina usando arti magiche, come Circe […], altre incantano con le arti della seduzione, capaci non meno dei farmaci magici di condurre gli uomini alla perdizione. E Omero, nell’attingere a questo tema, dà alle incantatrici il nome di Sirene, inducendo il lettore moderno a pensare che per i Greci esse fossero il simbolo della seduzione.

Il che, sia ben chiaro, non è del tutto falso. O meglio, è esatto, ma con una specificazione: la seduzione è associata alla morte.

Donde gli esiti letali – altrimenti non facili a capire – del canto delle Sirene. Chi incautamente cede al loro fascino e le ascolta perderà la vita. Poco importa, qui, discutere come morivano i malcapitati che si accostavano all’isola: se di inedia, abbandonati sui prati dove erano stati attirati, come fa pensare il riferimento omerico alle ossa che biancheggiavano al sole, o divorati dalle stesse Sirene, come vuole la tradizione non omerica.

Solo Ulisse sopravvive all’incontro. Ma lo deve a Circe: quando Ulisse decide di lasciarla […] Circe, ormai ammansita, lo avverte del pericolo cui va incontro, e gli suggerisce il mezzo per salvarsi: fuggì, gli dice, fuggì lontano quando sentirai la voce delle Sirene.

… e tura le orecchie ai compagni,

cera sciogliendo profumo di miele, perché nessuno di loro

le senta: tu, invece, se ti piacesse ascoltare,

fatti legare nell’agile nave i piedi e le mani

ritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde ti attacchino,

sicché tu goda ascoltando la voce delle Sirene.

Ma se pregassi i compagni, se imponessi di scioglierti,

essi con nodi più numerosi ti stringano. (Od., 12, 47-S4)55

Solo grazie a questo suggerimento Ulisse si sottrae a un destino altrimenti ineluttabile. Legato all’albero da nodi strettissimi, invano supplica i compagni di scioglierlo. Questi, con le orecchie chiuse dalla cera e da lui istruiti sul da farsi, continuano a remare, incuranti delle sue invocazioni. Ulisse ha sconfitto anche le Sirene. Ma a noi resta una curiosità, antica e irrisolta: cosa cantavano le Sirene?

Cosa cantavano le Sirene? Eros e prati fioriti

ULISSE E LE SIRENE – Museo nazionale del Bardo, Tunisi

Racconta Svetonio (Vita di Tiberio, 70) l’imperatore Tiberio perseguitava i grammatici con questo quesito: “Cosa cantavano le Sirene?”.

I grammatici non sapevano rispondere. Omero, in effetti, si mantiene per così dire sulle generali: nel suo racconto le Sirene promettono a chi accoglierà il loro invito il dono della conoscenza.

“Noi tutto sappiamo,” esse dicono a Ulisse, “tutto quello che avviene sulla terra nutrice.” Chi ascolta il nostro canto riparte “conoscendo più cose”.

Troppe cose, forse: cose che non è lecito ai mortali sapere. In qualche modo, l’atteggiamento di chi le ascolta sembra simile a quello di Prometeo, che voleva rubare il fuoco agli dèi. Anche chi tutto vuole conoscere, passato presente e futuro, non riconosce – al pari di Prometeo – i limiti della sua natura mortale, pensa di essere, vorrebbe essere simile agli dèi.

Ma se si riflette con attenzione sull’episodio, se si legge non solo quanto esso esplicitamente dice, ma quanto in esso è sottinteso, il canto delle Sirene non promette solo la conoscenza. O meglio, non promette una conoscenza generica: le Sirene posseggono e trasmettono un sapere specifico, e il racconto della sventura che colpisce chi le ascolta ammonisce contro il desiderio di conoscere quel sapere.

Le Sirene sono donne. Quali conoscenze possono avere le donne? Quale sapere possono trasmettere? La risposta è una sola: il sapere d’amore. L’arte della seduzione. L’incantamento della passione. II canto delle Sirene è un invito sessuale, una provocazione dei sensi. È l’arma invincibile con cui le donne (alcune donne) attraggono gli uomini. Un’arma che travolge, che strega, che annulla la capacità di resistere.

Chi ascolta le Sirene non tornerà mai dalla moglie, dai figli che lo attendono, perché ha ceduto alla seduzione extraconiugale, al richiamo di un sesso non ordinato, non controllabile, non finalizzato alla riproduzione.

L’incontro di Ulisse con le Sirene, insomma, contiene un evidente, anche se nascosto insegnamento: esistono donne pericolose, delle quali diffidare, dalle quali guardarsi. Donne che prendono iniziative, che suscitano il desiderio al di fuori dei luoghi fisici e istituzionali a ciò deputati.

I luoghi deputati all’esercizio dell’eros legittimo, infatti, sono limitatissimi. Diciamo pure che il luogo è uno solo: il matrimonio, il talamo coniugale. Le donne oneste, le mogli, non hanno che questa possibilità di esercitare le armi di cui eros, inevitabilmente, deve in qualche modo fornire anche loro: in mancanza, come potrebbero adempiere alla loro funzione riproduttiva?

Ma le altre, che mogli non sono, hanno ben altra libertà di movimento e di fantasia: le Sirene lo insegnano. A loro disposizione, le Sirene hanno prati fioriti, mollemente adagiate sui quali cantano le loro canzoni (Od., 12, 158-159).

A prima vista, il prato sembra un luogo appropriato: nella letteratura, non solo in quella greca, così come nella realtà, i prati favoriscono le imprese d’amore: non a caso, leimon (prato) è uno dei termini usati anche per indicare il sesso della donna.

Nessuna sorpresa, dunque, se nella letteratura amorosa greca i prati sono frequenti: prati freschi, bagnati di rugiada, prati coperti di fiori, prati profumati… Come quelli, meravigliosi, che circondano la grotta di Calipso: molli prati di viole e sedano in fiore, polle di acqua limpidissima, boschi dove crescono ontani, pioppi e odorosi cipressi, abitati da ghiandaie e cornacchie marine dalle lunghe ali (Od., 5, 65-74). Difficile immaginare luogo più bello: “A venir qui,” dice Omero, “anche un nume immortale / doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore”. Quale scenario è più adatto a un tentativo di seduzione? Ma, come vedremo più avanti, se il tentativo di seduzione di Calipso avesse avuto un successo non solo temporaneo, esso avrebbe privato Ulisse della sua vera natura, di quell’inesauribile desiderio di conoscenza, che è la sua caratteristica e la ragione della sua vera immortalità, quella del suo personaggio.

I prati, insomma, sono teatro di una seduzione pericolosa. Sono infidi, sempre. Anche quando a servirsene sono personaggi di sesso maschile.

Pensiamo ai prati verdissimi sui quali, nella versione eschilea della storia, Zeus, in veste di bianco, bellissimo toro, dapprima seduce e quindi rapisce Europa. Pensiamo, ancora (ma l’elenco potrebbe essere ben più nutrito) al prato coperto di fiori odorosi sul quale nell’Inno omerico a Demetra Kore, stordita dallo splendore delle rose, dallo zafferano, dalle violette e dagli iris, viene attirata dal profumo intensissimo dei giacinti verso il baratro, che la precipita agli Inferi.

Figuriamoci, poi, quando a sedurre su un prato fiorito sono delle donne. Se, quando sono usati dagli uomini, i prati sono teatro di un eros predatorio, quando sono usati dalle donne diventano il luogo di un eros inesorabilmente strumentale e ingannevole.

Le Sirene – donne che trasgrediscono le regole fondamentali del comportamento femminile: tacere e obbedire – stanno a segnalare anche questo. E, più in generale, insegnano a individuare le donne pericolose, a distinguerle dalle altre e a conoscere le conseguenze delle loro male arti. Un insegnamento, a quanto pare, di cui si sentiva la necessità, in Grecia: a giudicare dagli incontri femminili di Ulisse, il Mediterraneo era popolato di seduttrici.

 

EVA CANTARELLA

Da “Itaca” – Feltrinelli

Foto: Rete

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